In un libro con Roberto Perotti, l’economista di sinistra si accorge con tre anni di ritardo di tutti i problemi evidenziati dalla «Verità». Impossibile spendere in modo efficace così tante risorse in così poco tempo, per giunta esagerando con la quota presa a prestito.
In un libro con Roberto Perotti, l’economista di sinistra si accorge con tre anni di ritardo di tutti i problemi evidenziati dalla «Verità». Impossibile spendere in modo efficace così tante risorse in così poco tempo, per giunta esagerando con la quota presa a prestito.«PNRR, la grande abbuffata». Non si tratta di uno dei tanti titoli che sono apparsi su questo giornale a partire dall’aprile 2020, ma è il titolo di un libro uscito da pochi giorni e firmato dagli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti.Di grande attualità perché solo mercoledì la Corte dei Conti, nella sua relazione semestrale sullo stato di avanzamento del Pnrr, ha evidenziato uno dei più evidenti punti deboli del Pnrr, e cioè l’estrema difficoltà di spendere effettivamente quanto pianificato. L’insufficiente capacità di spesa è solo uno dei temi affrontati in un testo di circa 200 pagine che non mancherà di suscitare un acceso dibattito, almeno ce lo auguriamo, perché passa in rassegna e in modo dettagliato e documentato la genesi e l’avanzamento fino ad oggi di un’iniziativa che prometteva magnifiche sorti e progressive per l’Italia ma si sta trasformando nell’attraversamento di una palude, peraltro molto costosa.Gli autori non risparmiano nulla a nessuna delle parti politiche coinvolte: Giuseppe Conte e il suo governo giallorosso, Mario Draghi e il suo governo di unità nazionale e, infine, Giorgia Meloni con il governo di centro-destra; ma ce n’è in abbondanza anche nei confronti della Commissione (definita «a caccia di clienti»). Troppo poco tempo per spendere così tanto e farlo in modo efficace, e per giunta esagerando con la quota presa a prestito. Questa è la sintesi da cui prendono le mosse gli autori per poi aggiungere che tale abbuffata rischia di creare un serio contraccolpo dopo il 2026, quando le strutture costruite resteranno e bisognerà continuare a spendere per gestirle. Sotto il profilo delle destinazioni di spesa, troppa attenzione al digitale - a rischio di finanziare «fuffa» purissima - e poca per il contrasto all’emarginazione e al degrado sociale. Detta con una metafora: si è cercato all’improvviso di fare correre i 100 metri in 10 secondi ad una persona che ci ha sempre messo 15 secondi. Il risultato non è stato quello di avvicinarsi ai 10 secondi, ma quello di vederlo crollare sulla pista.L’idea di fondo di potenziare gli investimenti pubblici era corretta, ma dal «quando» e dal «come» originano tutti i problemi che il governo Meloni sta affrontando in questi mesi. Come si fa a pianificare in pochi mesi 237 miliardi di investimenti pubblici (includendo anche la quota a carico del fondo complementare nazionale) pensando che dieci giorni di kermesse a Villa Pamphilij per gli Stati generali dell’economia possano essere sufficienti? Una fretta che ha costretto lo Stato a svuotare i cassetti contenenti qualsivoglia progetto, pur di saturare tutte le somme disponibili. Con il risultato di spendere su progetti con ricadute modeste o nulle e, come abbiamo ripetuto decine di volte su queste pagine, è una ben magra consolazione sapere di aver risparmiato un punto percentuale rispetto all’indebitamento con Btp, se il risultato è quello di avere rendimento zero. Perché comprare una seconda casa (di dubbia utilità) solo perché la banca ci fa risparmiare 1 punto sul tasso di interesse? Da qui la critica sulla decisione di chiedere da subito l’intera quota prestiti di 123 miliardi, anziché fare come la Spagna che ha atteso fino all’ultimo per chiedere i prestiti, aggiustando il tiro sulle effettive necessità.Notevole anche il passaggio sulla enorme sopravvalutazione degli effetti di riforme e investimenti sul Pil. Se quelle stime fossero corrette, si giungerebbe alla discutibile conclusione che già oggi, senza Pnrr, saremmo in recessione.Per spendere bene e rapidamente, ci sarebbe voluta una collaudata capacità di spesa da parte della Pa ma - a prescindere dall’oggettivo sottodimensionamento e carenza di competenze - la massa (polverizzata) di progetti che si è rovesciata addosso alle strutture pubbliche si è rivelata fuori scala massima. E gli esempi non mancano: dalla scuola («un turbinio di voli pindarici, retorica bell’ e buona e aria fritta [...] un fiume di parole in libertà»), alla giustizia (con gli assunti all’ufficio per il processo che hanno dato le dimissioni in massa dopo pochi mesi perché vincitori di concorso Inps a tempo indeterminato e gli obiettivi irrealistici per i tempi di riduzione dei processi), alla sanità (chi pagherà la gestione delle strutture dopo il 2026?), al turismo (con l’hub del turismo digitale), agli studentati universitari (con la famigerata vicenda dei posti letto «aggiuntivi»), agli asili nido (che molti Comuni si sono guardati bene dal chiedere per non essere in grado di gestirli dopo il 2026).Infine la pars costruens. Gli autori ritengono, «per evitare un fallimento annunciato», che «non sarebbe una sconfitta» negoziare con la Commissione un prolungamento dei tempi di attuazione. Ma soprattutto tagliare alcuni progetti ritenuti irrealizzabili o poco efficaci, perché non possiamo essere obbligati a spendere e la riduzione potrebbe riguardare solo i prestiti lasciando inalterati i sussidi.Osservazioni già lette su queste colonne durante la fase di gestazione del Pnrr tra fine 2020 ed inizio 2021. E proprio per tale motivo ci chiediamo dove fossero Boeri e Perotti quando venivano gettati i semi del fallimento ed erano chiari i frutti avvelenati che avrebbero prodotto e che oggi - meritoriamente - descrivono. Oggi ammettono che il governo Draghi non ha osato rivedere le specifiche del piano quando si sono rivelate insostenibili per evitare (sbagliando) di danneggiare la nostra credibilità internazionale. Comprendiamo che all’epoca sarebbe stato reato di lesa maestà, ma sarebbe stato più utile al Paese.