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2021-12-13
BLABLABLA. Contro la violenza alle donne solamente parole e bugie
Ansa
Alla vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne, la senatrice Valeria Valente (Pd), presentando la relazione sull’attività della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio da lei presieduta, auspicò «che i riflettori non si spengano dopo il 25 novembre». Ma a spegnerli per due anni non è stato forse il centrosinistra? Di promesse mancate, infatti, sono lastricati gli ultimi due anni e mezzo in cui il Pd è al governo e le donne hanno continuato a morire per mano degli uomini. Del resto, anche Maria Elisabetta Alberti Casellati, presiedente del Senato, ha dovuto riconoscere che «le parole non bastano più e nemmeno la retorica che da anni riempie con puntualità le giornate attorno al 25 novembre».
Il Pd, che si fa portavoce unico delle donne vittime di violenza, è passato dall’opposizione alla maggioranza tra agosto e settembre 2019. Ma l’ultimo vero cambio di passo nella materia si era registrato prima. La legge chiamata Codice rosso porta la data del 19 luglio 2019 dopo il voto definitivo del Senato. In quella sede il Pd si astenne. La stessa senatrice Valente la definì «una normativa zoppa». «Una legge al ribasso di 5 stelle e Lega», tuonarono i suoi colleghi. Così il disegno di legge che dispone le misure per tutelare le vittime di violenza domestica e di genere, e che contiene anche misure contro il «revenge porn» (cioè la circolazione non autorizzata di immagini screditanti), fu varato dal Senato con 197 voti a favore, 47 astensioni e nessun voto contrario.
Le ragioni dell’astensione di Pd e Leu erano in larga parte politiche. Il Codice rosso era stato concepito dalla maggioranza di allora tra Lega e Movimento 5 stelle e il centrosinistra prese le distanze. Sulle piattaforme sociali scoppiarono polemiche feroci. Particolarmente bersagliata fu l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, da sempre in prima linea nelle battaglie femminili (in quel caso solo a parole). Per spiegare le sue ragioni, la Boldrini preparò un video con un collage di dichiarazioni altrui, in particolare dell’associazionismo rosa che criticavano il mancato stanziamento di risorse.
Un mese e mezzo dopo quell’astensione, il partito allora guidato da Nicola Zingaretti è andato al governo nel Conte 2 e vi è rimasto anche nell’esecutivo Draghi. Con la nuova maggioranza sarebbe potuto intervenire per cambiare quella legge così insufficiente e colmarne le lacune. Ma, a parte il «blabla» carico di retorica, ben poco è stato fatto. Il «reddito di libertà», misura messa in campo per aiutare le donne nei propri percorsi di vita e di emancipazione, è stato varato a maggio 2020 ma è diventato operativo soltanto l’8 novembre scorso con una circolare attuativa Inps. Dal 16 luglio 2020 esiste anche un Fondo per gli orfani di femminicidio, ma accedervi è per le vittime un vero incubo burocratico. Gli impegni assunti dalle istituzioni per combattere la violenza contro le donne rimangono spesso disattesi, sono incompleti o richiedono anni per vedere la luce.
Nel frattempo, gli episodi si sono purtroppo moltiplicati, come testimoniano i dati raccolti nel report «Cronache di un’occasione mancata» dell’associazione ActionAid, che ha svolto un monitoraggio delle politiche e del sistema antiviolenza in Italia. A dispetto delle promesse fatte a suo tempo dal premier Giuseppe Conte e dalle richieste della sinistra, è stata messa a disposizione solo una minima parte delle risorse extra e dei nuovi strumenti per far fronte alle esigenze delle donne che hanno subito violenza durante la pandemia. I tempi di erogazione delle risorse stanziate nel 2020 per il funzionamento ordinario dei centri antiviolenza e delle case rifugio sono tornati ad allungarsi: sono serviti in media 7 mesi per trasferire i fondi dal Dipartimento pari opportunità alle Regioni che, a oggi, risultano aver erogato solo il 2% dei fondi complessivi. In realtà, lo hanno fatto soltanto in due: la Liguria e l’Umbria, entrambe governate dal centrodestra. Il nuovo Piano antiviolenza 2021-2023, lanciato con un ritardo di quasi un anno, non è accompagnato da un piano operativo che rende chiare e verificabili le azioni da realizzare e in quali tempi.
Inoltre, l’approccio emergenziale adottato dalle istituzioni ha contraddetto nuovamente quanto dichiarato dalla politica nell’ultimo anno. L’analisi dell’utilizzo dei fondi stanziati dall’entrata in vigore, nel 2013, della legge sul femminicidio evidenzia, infatti, uno sbilanciamento netto per le azioni volte alla presa in carico delle donne che subiscono violenza. Su 186,5 milioni di euro totali, il Dipartimento pari opportunità ha destinato circa 140 milioni - il 75% delle risorse - all’asse protezione, mentre per la prevenzione sono stati allocati circa 25,8 milioni di euro, il 14%.
In dettaglio, solo 19 milioni di euro per prevenzione primaria: realizzazione di programmi educativi nelle scuole e azioni di sensibilizzazione rivolte all’intera popolazione. Altri 3,5 milioni di euro per quella secondaria: formazione delle forze di polizia che entrano in contatto con donne che hanno subito violenza. Infine, 3,2 milioni di euro per la cosiddetta terziaria, vale a dire per programmi di recupero degli uomini autori di violenza.
Nonostante la violenza contro le donne sia stata riconosciuta dalle istituzioni come un fenomeno strutturale da arginare in primo luogo attuando un cambiamento culturale, mancano le azioni concrete. Non sono state, infatti, stanziate risorse per interventi di prevenzione primaria, né è stata inclusa alcuna attività di sensibilizzazione nella strategia per la parità̀ di genere o nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
Le politiche antiviolenza sono state relegate a un Piano ad hoc senza includerle all’interno della più ampia programmazione strategica delle politiche nazionali, integrandole nelle riforme strutturali avviate dal Pnrr. Qualcosa si è mosso nelle ultime settimane: all’inizio di dicembre il governo ha varato il disegno di legge per il contrasto alla violenza sulle donne. Un testo di 11 articoli che tra le novità prevede: arresto per gli uomini violenti non più solo in flagranza di reato, procedibilità d’ufficio per i maltrattamenti domestici, pattugliamenti sotto le abitazioni in caso di minacce, uso del braccialetto elettronicoper chi è accusato di reati previsti dal Codice rosso, provvisionale per sostenere anche economicamente le donne maltrattate e gli orfani dei femminicidi: come per le estorsioni. Già nella fase d’indagine si potrà ricevere un terzo dell’indennizzo totale.
È qualcosa, ma la strada è ancora lunga e in salita. Il percorso parlamentare di un disegno di legge è lungo e incerto. E c’è l’incognita di capire le intenzioni di questo stesso Parlamento. Non può essere cancellata, infatti, l’immagine dell’aula di Montecitorio il 22 novembre scorso: solamente 8 deputati su 630 nel giorno in cui il ministro per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, presentava la mozione contro la violenza sulle donne. Certo non vi era alcun obbligo di presenza, ma la forma è sostanza e quell’aula deserta è un altro pugno nello stomaco alle famiglie che piangono mamme, figlie, sorelle, uccise nell’indifferenza anche di quella politica che si ricorda dei femminicidi solo in prossimità delle urne o sotto i riflettori.
«Una legge lacunosa che colpisce due volte le vittime»
La legge 69 del 19 luglio 2019, denominata Codice rosso, doveva garantire protezione alle donne vittime di violenza. In realtà la normativa non ha prodotto gli effetti sperati. Le carenze legislative sono spiegate dal dottor Valerio de Gioia, giudice penale presso la prima sezione del Tribunale di Roma (specializzata per i reati contro i soggetti vulnerabili e la violenza di genere) e fra i massimi esperti in materia, oltre che autore, assieme all’avvocato Gian Ettore Gassani, di Codice rosso, volume che raccoglie le norme tese a prevenire la violenza nelle relazioni familiari e affettive e a sanzionarle.
Da recenti statistiche è emerso che solo 1 donna su 7 vittima di femminicidio aveva precedentemente denunciato le violenze subite. Perché c’è ancora tanta diffidenza, nonostante la riforma del Codice rosso? Cosa non ha funzionato e quali sono le criticità della legge?
«Le ragioni vanno cercate in una generalizzata sfiducia nelle istituzioni incapaci, nell’ottica della vittima, di garantire una reale tutela. La legge 69 è intervenuta sulla delicatissima fase delle indagini senza, però, considerare le problematicità della successiva fase del giudizio. È qui che adesso occorre intervenire».
In che modo?
«Rendendo obbligatorio l’incidente probatorio in caso di reati di violenza domestica e di genere, così da evitare che le vittime vulnerabili vengano richiamate a distanza di troppo tempo dalla denuncia (alle volte anche 3 o 4 anni dopo) generando l’aberrante fenomeno della cosiddetta vittimizzazione secondaria che, spesso, scoraggia la denuncia. Il processo non deve diventare un calvario per la donna che ha avuto il coraggio di denunciare il proprio marito o compagno violento. Opportuna, poi, è la estensione della portata dell’articolo 500, quarto comma, del codice di procedura penale consentendo, così, l’acquisizione della denuncia sporta dalla persona offesa, oltre che nel caso in cui la stessa sia stata costretta a non deporre o a deporre il falso tramite violenza o minaccia anche nei casi di accertata soggezione psicologica della vittima o del testimone con l’autore del reato».
Le donne vengono esortate a denunciare le azioni violente e i maltrattamenti subiti, ma ancora oggi risulta blanda o inesistente la protezione post denuncia che le autorità preposte dovrebbero assicurare alle vittime…
«Talvolta è emerso che l’autore del femminicidio era stato già denunciato e sottoposto a misura cautelare dal blando divieto di avvicinamento o allontanamento dalla casa familiare agli arresti domiciliari con applicazione del dispositivo di controllo a distanza: il cosiddetto braccialetto elettronico. Quest’ultimo dispositivo - che, nel caso degli arresti domiciliari può essere applicato solo con il consenso dell’indagato o imputato - non impedisce a quest’ultimo di commettere altri reati, più gravi di quelli per i quali è stato sottoposto a misura. Con il rischio di arrivare, quindi, al drammatico epilogo del femminicidio».
È una misura inefficace?
«Si limita semplicemente a segnalare alle forze dell’ordine la violazione della misura in atto. Occorre che le forze dell’ordine eseguano un monitoraggio costante sui soggetti coinvolti nel procedimento, cioè indagato e persona offesa, così da verificare la puntale osservanza della misura cautelare. In presenza di indicatori che facciano supporre che la misura non è idonea, ne dovrebbe essere previsto un aggravamento automatico e immediato senza dover attendere che venga trasgredita. Quanto mai opportuna, poi, è la previsione, in caso di richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare o della concessione della sospensione condizionale della pena, di un parere obbligatorio non vincolante dello psicologo o di altro soggetto professionalmente qualificato».
Che cosa è prioritario implementare nel Codice rosso e quali sono, invece, i punti da modificare nella legislazione sulla violenza domestica e di genere?
«Sono favorevole ai percorsi di recupero dei maltrattanti a condizione che abbiano prima effettivamente scontato la pena loro inflitta e riparato, anche economicamente, al danno fatto. Ritengo urgente la modifica della previsione, introdotta con il Codice rosso, che subordina la concessione della sospensione condizionale della pena al percorso di recupero: il legislatore non ha considerato che, una volta sospesa la pena, la misura cautelare, eventualmente in atto, perde la sua efficacia e il soggetto torna completamente libero prima ancora che sia iniziato il percorso che deve portare al suo recupero. Con grave rischio per la persona che si intende tutelare».
«È vero, c’è tanta strada da fare»
Dall’inizio del 2021 sono 110 le donne vittime di violenza: 94 sono state uccise in ambito familiare o affettivo, 64 per mano del partner o dell’ex. Dati in aumento rispetto al 2020, segno che le tutele esistenti non sono ancora in grado di prevenire e garantire effettiva protezione. Ne abbiamo parlato con Lucia Annibali, deputata di Italia Viva sfregiata con l’acido, il 16 aprile 2013, su mandato dell’ex fidanzato per questo condannato a 20 anni di reclusione.
Perché Italia viva si è mossa solo adesso per cambiare qualcosa nella legge nota come Codice Rosso?
«Nel 2019 ci siamo trovati davanti a un provvedimento non aperto a modifiche. Molte cose, però, sono state fatte di recente. Penso alla riforma del processo penale e civile. C’è poi un nuovo Piano nazionale antiviolenza, che pone l’accento anche su altre forme di violenza, ad esempio quella economica: alle donne che subiscono violenza non interessa la vendetta, quindi l’aumento della pena, ma la protezione e la possibilità di riacquistare una propria autonomia».
I dati del 2021 dimostrano però che le donne sono state lasciate sole. I centri antiviolenza sono pochi e il reddito di libertà è una misura non strutturale.
«È vero. La cronaca conferma che al sistema di tutela delle donne vittime di violenza mancano pezzi. E da sempre è così. Però si sta andando avanti, a poco a poco, per rafforzare gli strumenti di prevenzione e colmare i vuoti. Il reddito di libertà nasce da un mio emendamento parlamentare al decreto Bilancio e quindi è del 2020. È indubbio che l’Inps ha impiegato un po’ di tempo per rendere operativo il sistema, ma sappiamo quanto, purtroppo, i passaggi amministrativi frenano l’esecutività dei provvedimenti. È un percorso complicato, l’importante è arrivare alla meta».
Ma nel lento cammino i femminicidi aumentano…
«Sono in costante aumento rispetto agli omicidi, che invece diminuiscono, perché la violenza maschile sulle donne è un fenomeno strutturale, non emergenziale, che affonda le proprie radici nella cultura patriarcale dominante».
Dovremmo, dunque, rassegnarci?
«No, ma non possiamo prescindere dalle radici di un fenomeno sul quale incide molto l’organizzazione economica della società. Per questo è importante agire sulla parità di genere, ma anche sul piano economico per dare alle donne maggiore possibilità di indipendenza economica».
Non le sembra che l’attenzione al fenomeno si limiti a una giornata o ad azioni simboliche, come panchine e scarpe rosse?
«Si può e si deve fare sempre meglio. I casi di cronaca ci devono servire per imparare il linguaggio corretto, l’approccio giusto per sentirci molto più responsabili di quello che succede. Quanto alle leggi, bisogna soprattutto conoscerle e applicarle nel modo giusto. Insomma, fondamentale è il passo dell’uomo chiamato ad applicare in modo corretto le leggi e fare in modo che non restino solo sulla carta. Anche le autorità giudiziarie devono sentirsi responsabili di quello che accade e farsi un serio esame di coscienza in tema di preparazione e, dunque, di capacità e consapevolezza nel trattare le storie di violenza e dare risposte adeguate. Occorre, insomma, investire di più nella formazione».
Ha mai pensato di farsi promotrice di una «garanzia sanitaria» per le donne vittime di violenza, togliendo loro le spese mediche che sono costrette a sostenere per la violenza subita?
«No, ma può essere un elemento in più».
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Nel 2019 la sinistra all’opposizione non ha votato il Codice rosso. Poi, al governo, poteva cambiare le cose ma non l’ha fatto limitandosi a grandi discorsi e poche azioni concrete. Fino alla vergogna dell’aula vuota.«Una legge lacunosa che colpisce due volte le vittime». Il magistrato Valerio De Gioia: «Si invita a denunciare ma senza dare protezione Il braccialetto elettronico non impedisce di compiere altri reati».«È vero, c’è tanta strada da fare». La deputata di Italia viva che fu sfregiata Lucia Annibali: «Inps lento nell’introdurre il reddito di libertà. Favorevole a una garanzia sanitaria per spese mediche gratuite dopo le aggressioni» .Lo speciale comprende tre articoli.Alla vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne, la senatrice Valeria Valente (Pd), presentando la relazione sull’attività della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio da lei presieduta, auspicò «che i riflettori non si spengano dopo il 25 novembre». Ma a spegnerli per due anni non è stato forse il centrosinistra? Di promesse mancate, infatti, sono lastricati gli ultimi due anni e mezzo in cui il Pd è al governo e le donne hanno continuato a morire per mano degli uomini. Del resto, anche Maria Elisabetta Alberti Casellati, presiedente del Senato, ha dovuto riconoscere che «le parole non bastano più e nemmeno la retorica che da anni riempie con puntualità le giornate attorno al 25 novembre». Il Pd, che si fa portavoce unico delle donne vittime di violenza, è passato dall’opposizione alla maggioranza tra agosto e settembre 2019. Ma l’ultimo vero cambio di passo nella materia si era registrato prima. La legge chiamata Codice rosso porta la data del 19 luglio 2019 dopo il voto definitivo del Senato. In quella sede il Pd si astenne. La stessa senatrice Valente la definì «una normativa zoppa». «Una legge al ribasso di 5 stelle e Lega», tuonarono i suoi colleghi. Così il disegno di legge che dispone le misure per tutelare le vittime di violenza domestica e di genere, e che contiene anche misure contro il «revenge porn» (cioè la circolazione non autorizzata di immagini screditanti), fu varato dal Senato con 197 voti a favore, 47 astensioni e nessun voto contrario. Le ragioni dell’astensione di Pd e Leu erano in larga parte politiche. Il Codice rosso era stato concepito dalla maggioranza di allora tra Lega e Movimento 5 stelle e il centrosinistra prese le distanze. Sulle piattaforme sociali scoppiarono polemiche feroci. Particolarmente bersagliata fu l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, da sempre in prima linea nelle battaglie femminili (in quel caso solo a parole). Per spiegare le sue ragioni, la Boldrini preparò un video con un collage di dichiarazioni altrui, in particolare dell’associazionismo rosa che criticavano il mancato stanziamento di risorse.Un mese e mezzo dopo quell’astensione, il partito allora guidato da Nicola Zingaretti è andato al governo nel Conte 2 e vi è rimasto anche nell’esecutivo Draghi. Con la nuova maggioranza sarebbe potuto intervenire per cambiare quella legge così insufficiente e colmarne le lacune. Ma, a parte il «blabla» carico di retorica, ben poco è stato fatto. Il «reddito di libertà», misura messa in campo per aiutare le donne nei propri percorsi di vita e di emancipazione, è stato varato a maggio 2020 ma è diventato operativo soltanto l’8 novembre scorso con una circolare attuativa Inps. Dal 16 luglio 2020 esiste anche un Fondo per gli orfani di femminicidio, ma accedervi è per le vittime un vero incubo burocratico. Gli impegni assunti dalle istituzioni per combattere la violenza contro le donne rimangono spesso disattesi, sono incompleti o richiedono anni per vedere la luce.Nel frattempo, gli episodi si sono purtroppo moltiplicati, come testimoniano i dati raccolti nel report «Cronache di un’occasione mancata» dell’associazione ActionAid, che ha svolto un monitoraggio delle politiche e del sistema antiviolenza in Italia. A dispetto delle promesse fatte a suo tempo dal premier Giuseppe Conte e dalle richieste della sinistra, è stata messa a disposizione solo una minima parte delle risorse extra e dei nuovi strumenti per far fronte alle esigenze delle donne che hanno subito violenza durante la pandemia. I tempi di erogazione delle risorse stanziate nel 2020 per il funzionamento ordinario dei centri antiviolenza e delle case rifugio sono tornati ad allungarsi: sono serviti in media 7 mesi per trasferire i fondi dal Dipartimento pari opportunità alle Regioni che, a oggi, risultano aver erogato solo il 2% dei fondi complessivi. In realtà, lo hanno fatto soltanto in due: la Liguria e l’Umbria, entrambe governate dal centrodestra. Il nuovo Piano antiviolenza 2021-2023, lanciato con un ritardo di quasi un anno, non è accompagnato da un piano operativo che rende chiare e verificabili le azioni da realizzare e in quali tempi.Inoltre, l’approccio emergenziale adottato dalle istituzioni ha contraddetto nuovamente quanto dichiarato dalla politica nell’ultimo anno. L’analisi dell’utilizzo dei fondi stanziati dall’entrata in vigore, nel 2013, della legge sul femminicidio evidenzia, infatti, uno sbilanciamento netto per le azioni volte alla presa in carico delle donne che subiscono violenza. Su 186,5 milioni di euro totali, il Dipartimento pari opportunità ha destinato circa 140 milioni - il 75% delle risorse - all’asse protezione, mentre per la prevenzione sono stati allocati circa 25,8 milioni di euro, il 14%. In dettaglio, solo 19 milioni di euro per prevenzione primaria: realizzazione di programmi educativi nelle scuole e azioni di sensibilizzazione rivolte all’intera popolazione. Altri 3,5 milioni di euro per quella secondaria: formazione delle forze di polizia che entrano in contatto con donne che hanno subito violenza. Infine, 3,2 milioni di euro per la cosiddetta terziaria, vale a dire per programmi di recupero degli uomini autori di violenza. Nonostante la violenza contro le donne sia stata riconosciuta dalle istituzioni come un fenomeno strutturale da arginare in primo luogo attuando un cambiamento culturale, mancano le azioni concrete. Non sono state, infatti, stanziate risorse per interventi di prevenzione primaria, né è stata inclusa alcuna attività di sensibilizzazione nella strategia per la parità̀ di genere o nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Le politiche antiviolenza sono state relegate a un Piano ad hoc senza includerle all’interno della più ampia programmazione strategica delle politiche nazionali, integrandole nelle riforme strutturali avviate dal Pnrr. Qualcosa si è mosso nelle ultime settimane: all’inizio di dicembre il governo ha varato il disegno di legge per il contrasto alla violenza sulle donne. Un testo di 11 articoli che tra le novità prevede: arresto per gli uomini violenti non più solo in flagranza di reato, procedibilità d’ufficio per i maltrattamenti domestici, pattugliamenti sotto le abitazioni in caso di minacce, uso del braccialetto elettronicoper chi è accusato di reati previsti dal Codice rosso, provvisionale per sostenere anche economicamente le donne maltrattate e gli orfani dei femminicidi: come per le estorsioni. Già nella fase d’indagine si potrà ricevere un terzo dell’indennizzo totale.È qualcosa, ma la strada è ancora lunga e in salita. Il percorso parlamentare di un disegno di legge è lungo e incerto. E c’è l’incognita di capire le intenzioni di questo stesso Parlamento. Non può essere cancellata, infatti, l’immagine dell’aula di Montecitorio il 22 novembre scorso: solamente 8 deputati su 630 nel giorno in cui il ministro per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, presentava la mozione contro la violenza sulle donne. Certo non vi era alcun obbligo di presenza, ma la forma è sostanza e quell’aula deserta è un altro pugno nello stomaco alle famiglie che piangono mamme, figlie, sorelle, uccise nell’indifferenza anche di quella politica che si ricorda dei femminicidi solo in prossimità delle urne o sotto i riflettori.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/blablabla-contro-la-violenza-alle-donne-solamente-parole-e-bugie-2656006749.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="una-legge-lacunosa-che-colpisce-due-volte-le-vittime" data-post-id="2656006749" data-published-at="1639342959" data-use-pagination="False"> «Una legge lacunosa che colpisce due volte le vittime» La legge 69 del 19 luglio 2019, denominata Codice rosso, doveva garantire protezione alle donne vittime di violenza. In realtà la normativa non ha prodotto gli effetti sperati. Le carenze legislative sono spiegate dal dottor Valerio de Gioia, giudice penale presso la prima sezione del Tribunale di Roma (specializzata per i reati contro i soggetti vulnerabili e la violenza di genere) e fra i massimi esperti in materia, oltre che autore, assieme all’avvocato Gian Ettore Gassani, di Codice rosso, volume che raccoglie le norme tese a prevenire la violenza nelle relazioni familiari e affettive e a sanzionarle. Da recenti statistiche è emerso che solo 1 donna su 7 vittima di femminicidio aveva precedentemente denunciato le violenze subite. Perché c’è ancora tanta diffidenza, nonostante la riforma del Codice rosso? Cosa non ha funzionato e quali sono le criticità della legge? «Le ragioni vanno cercate in una generalizzata sfiducia nelle istituzioni incapaci, nell’ottica della vittima, di garantire una reale tutela. La legge 69 è intervenuta sulla delicatissima fase delle indagini senza, però, considerare le problematicità della successiva fase del giudizio. È qui che adesso occorre intervenire». In che modo? «Rendendo obbligatorio l’incidente probatorio in caso di reati di violenza domestica e di genere, così da evitare che le vittime vulnerabili vengano richiamate a distanza di troppo tempo dalla denuncia (alle volte anche 3 o 4 anni dopo) generando l’aberrante fenomeno della cosiddetta vittimizzazione secondaria che, spesso, scoraggia la denuncia. Il processo non deve diventare un calvario per la donna che ha avuto il coraggio di denunciare il proprio marito o compagno violento. Opportuna, poi, è la estensione della portata dell’articolo 500, quarto comma, del codice di procedura penale consentendo, così, l’acquisizione della denuncia sporta dalla persona offesa, oltre che nel caso in cui la stessa sia stata costretta a non deporre o a deporre il falso tramite violenza o minaccia anche nei casi di accertata soggezione psicologica della vittima o del testimone con l’autore del reato». Le donne vengono esortate a denunciare le azioni violente e i maltrattamenti subiti, ma ancora oggi risulta blanda o inesistente la protezione post denuncia che le autorità preposte dovrebbero assicurare alle vittime… «Talvolta è emerso che l’autore del femminicidio era stato già denunciato e sottoposto a misura cautelare dal blando divieto di avvicinamento o allontanamento dalla casa familiare agli arresti domiciliari con applicazione del dispositivo di controllo a distanza: il cosiddetto braccialetto elettronico. Quest’ultimo dispositivo - che, nel caso degli arresti domiciliari può essere applicato solo con il consenso dell’indagato o imputato - non impedisce a quest’ultimo di commettere altri reati, più gravi di quelli per i quali è stato sottoposto a misura. Con il rischio di arrivare, quindi, al drammatico epilogo del femminicidio». È una misura inefficace? «Si limita semplicemente a segnalare alle forze dell’ordine la violazione della misura in atto. Occorre che le forze dell’ordine eseguano un monitoraggio costante sui soggetti coinvolti nel procedimento, cioè indagato e persona offesa, così da verificare la puntale osservanza della misura cautelare. In presenza di indicatori che facciano supporre che la misura non è idonea, ne dovrebbe essere previsto un aggravamento automatico e immediato senza dover attendere che venga trasgredita. Quanto mai opportuna, poi, è la previsione, in caso di richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare o della concessione della sospensione condizionale della pena, di un parere obbligatorio non vincolante dello psicologo o di altro soggetto professionalmente qualificato». Che cosa è prioritario implementare nel Codice rosso e quali sono, invece, i punti da modificare nella legislazione sulla violenza domestica e di genere? «Sono favorevole ai percorsi di recupero dei maltrattanti a condizione che abbiano prima effettivamente scontato la pena loro inflitta e riparato, anche economicamente, al danno fatto. Ritengo urgente la modifica della previsione, introdotta con il Codice rosso, che subordina la concessione della sospensione condizionale della pena al percorso di recupero: il legislatore non ha considerato che, una volta sospesa la pena, la misura cautelare, eventualmente in atto, perde la sua efficacia e il soggetto torna completamente libero prima ancora che sia iniziato il percorso che deve portare al suo recupero. Con grave rischio per la persona che si intende tutelare». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/blablabla-contro-la-violenza-alle-donne-solamente-parole-e-bugie-2656006749.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="e-vero-ce-tanta-strada-da-fare" data-post-id="2656006749" data-published-at="1639342959" data-use-pagination="False"> «È vero, c’è tanta strada da fare» Dall’inizio del 2021 sono 110 le donne vittime di violenza: 94 sono state uccise in ambito familiare o affettivo, 64 per mano del partner o dell’ex. Dati in aumento rispetto al 2020, segno che le tutele esistenti non sono ancora in grado di prevenire e garantire effettiva protezione. Ne abbiamo parlato con Lucia Annibali, deputata di Italia Viva sfregiata con l’acido, il 16 aprile 2013, su mandato dell’ex fidanzato per questo condannato a 20 anni di reclusione. Perché Italia viva si è mossa solo adesso per cambiare qualcosa nella legge nota come Codice Rosso? «Nel 2019 ci siamo trovati davanti a un provvedimento non aperto a modifiche. Molte cose, però, sono state fatte di recente. Penso alla riforma del processo penale e civile. C’è poi un nuovo Piano nazionale antiviolenza, che pone l’accento anche su altre forme di violenza, ad esempio quella economica: alle donne che subiscono violenza non interessa la vendetta, quindi l’aumento della pena, ma la protezione e la possibilità di riacquistare una propria autonomia». I dati del 2021 dimostrano però che le donne sono state lasciate sole. I centri antiviolenza sono pochi e il reddito di libertà è una misura non strutturale. «È vero. La cronaca conferma che al sistema di tutela delle donne vittime di violenza mancano pezzi. E da sempre è così. Però si sta andando avanti, a poco a poco, per rafforzare gli strumenti di prevenzione e colmare i vuoti. Il reddito di libertà nasce da un mio emendamento parlamentare al decreto Bilancio e quindi è del 2020. È indubbio che l’Inps ha impiegato un po’ di tempo per rendere operativo il sistema, ma sappiamo quanto, purtroppo, i passaggi amministrativi frenano l’esecutività dei provvedimenti. È un percorso complicato, l’importante è arrivare alla meta». Ma nel lento cammino i femminicidi aumentano… «Sono in costante aumento rispetto agli omicidi, che invece diminuiscono, perché la violenza maschile sulle donne è un fenomeno strutturale, non emergenziale, che affonda le proprie radici nella cultura patriarcale dominante». Dovremmo, dunque, rassegnarci? «No, ma non possiamo prescindere dalle radici di un fenomeno sul quale incide molto l’organizzazione economica della società. Per questo è importante agire sulla parità di genere, ma anche sul piano economico per dare alle donne maggiore possibilità di indipendenza economica». Non le sembra che l’attenzione al fenomeno si limiti a una giornata o ad azioni simboliche, come panchine e scarpe rosse? «Si può e si deve fare sempre meglio. I casi di cronaca ci devono servire per imparare il linguaggio corretto, l’approccio giusto per sentirci molto più responsabili di quello che succede. Quanto alle leggi, bisogna soprattutto conoscerle e applicarle nel modo giusto. Insomma, fondamentale è il passo dell’uomo chiamato ad applicare in modo corretto le leggi e fare in modo che non restino solo sulla carta. Anche le autorità giudiziarie devono sentirsi responsabili di quello che accade e farsi un serio esame di coscienza in tema di preparazione e, dunque, di capacità e consapevolezza nel trattare le storie di violenza e dare risposte adeguate. Occorre, insomma, investire di più nella formazione». Ha mai pensato di farsi promotrice di una «garanzia sanitaria» per le donne vittime di violenza, togliendo loro le spese mediche che sono costrette a sostenere per la violenza subita? «No, ma può essere un elemento in più».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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