2022-09-20
Biden su Taiwan ha il record di cantonate
Intervistato in tv il presidente ribadisce che in caso di attacco cinese manderà le truppe a Taiwan. Per la quarta volta, la Casa Bianca è costretta a gettare acqua sul fuoco: «La nostra politica non cambierà». Pechino se la ride, ma l’isola è una polveriera geopolitica.A prima vista sembrerebbe una presa di posizione di quelle esplosive. Intervistato domenica da Cbs, Joe Biden ha detto a 60 minutes che gli Stati Uniti difenderanno Taiwan in caso di un «attacco senza precedenti» da parte della Cina. A precisa domanda dell’intervistatore sull’invio di truppe sul suolo, a differenza che in Ucraina, la risposta è stata un secco «sì». Tanto è bastato per scatenare l’ira di Pechino. «Le osservazioni degli Stati Uniti violano gravemente il principio dell’unica Cina e le disposizioni dei tre comunicati congiunti Usa-Cina. È anche una grave violazione dell’importante impegno preso dalla parte statunitense di non sostenere l’indipendenza di Taiwan», ha detto ieri il ministero degli Esteri cinese. Il punto è che Biden non è nuovo a simili affermazioni: l’attuale presidente americano aveva già infatti detto che avrebbe difeso militarmente Taiwan il maggio scorso, e anche a ottobre e ad agosto 2021. Solo che, in tutti e tre i casi, era stato prontamente smentito dallo stesso staff della Casa Bianca. Esattamente quanto avvenuto anche stavolta. Subito dopo le dichiarazioni rilasciate a Cbs, l’entourage presidenziale ha infatti fatto sapere che la posizione ufficiale degli Stati Uniti su Taiwan resta quella della cosiddetta «ambiguità strategica»: non chiarire, cioè, preventivamente se Washington interverrà in difesa dell’isola in caso d’invasione cinese. «Il presidente lo ha già detto, anche a Tokyo all’inizio di quest’anno», ha affermato un portavoce della Casa Bianca. «Ha anche chiarito che la nostra politica di Taiwan non è cambiata», ha aggiunto. Insomma, per l’ennesima volta Biden dice che ha intenzione di difendere Taiwan in caso di attacco cinese. E per l’ennesima volta la sua dichiarazione viene di fatto sconfessata dal suo stesso entourage. Ora, è possibile spiegare questa bizzarria in due modi. O si tratta di fughe in avanti del presidente, oppure, molto più probabilmente, questa situazione riflette delle spaccature difficilmente sanabili all’interno della sua amministrazione. D’altronde, ricordiamo che sul dossier cinese l’attuale Casa Bianca non presenta una linea troppo unitaria: se Tony Blinken invoca spesso un approccio severo con attenzione ai diritti umani, John Kerry auspica da tempo una posizione soft in nome della cooperazione in materia ambientale. Malumori interni si sono registrati anche per il fatto che Janet Yellen punta da tempo ad allentare i dazi che Donald Trump aveva imposto alla Cina. Su Taiwan la partita poi si complica a causa della questione dei semiconduttori (di cui l’isola, ricordiamolo, risulta uno dei principali produttori al mondo). Non è un caso che il colosso tecnologico taiwanese Tsmc stia investendo per aprire degli stabilimenti produttivi in Arizona e in Giappone. Tutto questo, mentre Washington sta cercando di creare «Chip 4»: una partnership tra Usa, Taiwan, Giappone e Corea del Sud nel settore dei chip in funzione anticinese. Ora, il punto vero è che queste continue smentite del presidente da parte della Casa Bianca sono un problema. Sia chiaro: il nodo non risiede nelle presunte violazioni della sovranità cinese, come sovente ama ripetere la retorica del Partito comunista. Taiwan non ha mai infatti riconosciuto né è mai stata sotto il controllo della Repubblica popolare cinese, istituita da Mao Zedong nel 1949. Né la risoluzione Onu del 1971, che conferiva alla Repubblica popolare il seggio al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, riconosce alcuna sovranità di Pechino su Taipei. No, il problema è un altro. Manifestando spaccature al proprio interno, l’amministrazione americana azzoppa di fatto la deterrenza statunitense nei confronti della Cina. Se vuoi dissuadere un avversario dall’agire, devi mostrarti coerente, risoluto e compatto. In caso contrario, il nemico si sentirà spronato ad osare. Ed è esattamente quello che sta accadendo con Biden. Non è un caso che le incursioni aeree militari cinesi nello spazio aereo di Taiwan siano riprese poche settimane dopo la disastrosa evacuazione afgana dell’anno scorso. Senza dimenticare che, non molte settimane fa, la Cina ha approfittato del viaggio di Nancy Pelosi per condurre le esercitazioni belliche più grandi mai effettuate nelle acque attorno all’isola. Certo: il presidente ha cercato recentemente di rafforzare la deterrenza, chiedendo al Congresso l’ok per una poderosa fornitura di armi a Taipei. Ma la deterrenza è un elemento composito, che non si basa esclusivamente sul fattore militare. Agli occhi di Xi Jinping, una leadership americana debole, confusa e irresoluta costituisce di fatto un invito ad alzare la posta. Un elemento tanto più pericoloso alla luce del fatto che, tra meno di un mese, il leader cinese riceverà un terzo mandato presidenziale in occasione del prossimo congresso del Partito comunista. E proprio dopo tale congresso potrebbero aumentare le probabilità di un’invasione dell’isola. Ecco: davanti a questo crescente pericolo, Biden non sembra in grado di condurre un’efficace politica di deterrenza. E questo è un problema. Perché già fanno capolino nuovi fronti di crisi. L’effetto domino è in atto e, se non viene fermato, presto potrebbe riguardare altre aree. A partire dalla penisola coreana.