2023-06-13
Il linciaggio che non l’ha schiacciato: con 36 processi, una sola condanna
Silvio Berlusconi davanti al Palazzo di Giustizia di Milano (Ansa)
Odio politico, offensiva giudiziaria e condanna morale: il Cav è stato vessato con ogni mezzo. Sempre sotto tiro, ha avuto la meglio pure nei tribunali, dove chiunque altro sarebbe finito travolto.No, non è davvero il caso di credere alla retorica degli «avversari leali», alla narrazione (autoassolutoria) che da ieri la sinistra cerca di veicolare, quella di un rapporto duro ma tutto sommato civile con Silvio Berlusconi. O, se proprio vogliamo essere benevoli ai limiti dell’ingenuità, si può credere a una doppia sincerità dei nemici di sempre del Cav: forse sinceri ieri nel piangerlo, ma soprattutto sinceri per trent’anni nel perseguitarlo con ogni mezzo. Il punto è proprio questo, ed è tutto politico: l’Italia ha offerto al mondo un format che oggi - mutatis mutandis - rischia di essere esportato negli Usa contro Donald Trump. Non si riesce a sconfiggere un avversario in campo aperto, o comunque non si è certi di poterlo definitivamente escludere dall’arena? E allora lo si aggredisce attraverso inchieste e processi, sommati a un consolidato meccanismo di character assassination mediatica. Nel frullatore devono entrare tre ingredienti: l’odio politico, l’offensiva giudiziaria, e soprattutto una condanna etica assoluta. Al nemico non deve essere riconosciuta alcuna dignità. La prova di tutto ciò è fin troppo semplice. Silvio Berlusconi entra in politica nel 1994, a ben 58 anni di età. Ecco, fino a quel punto, è pressoché non sfiorato da significative attenzioni giudiziarie. Ma, non appena scende in campo e si manifesta - sin da quel 27 marzo di 29 anni fa - come l’unico ostacolo alla presa formale del potere da parte degli eredi dell’ex Pci, diventa oggetto di un fuoco di fila di indagini e procedimenti. Non è facile nemmeno fornirne le cifre di questa Odissea e, a seconda del computo dei diversi gradi di giudizio, i numeri possono cambiare. Ma anche il calcolo più «conservativo» indica la bellezza di almeno 36 processi (contando i gradi di giudizio effettivamente celebrati, si arriva invece a circa 90). Nel 2012 il Cav diceva: «Più di 1.000 magistrati si sono occupati di me. Il mio gruppo ha avuto 188 visite della Polizia giudiziaria e della Guardia di finanza, ci sono state 2.666 udienze in questi 18 anni e abbiamo dovuto spendere più di 400 milioni di euro in parcelle di avvocati e consulenti». Un ulteriore aggiornamento di questa cupa contabilità il Cav lo propose cinque anni fa, nel 2018: «Mi è costato 770 milioni pagare i 105 legali che mi hanno assistito nel corso dei processi a mio carico, con oltre 3.000 udienze».Da tutta questa marea, è venuta fuori una sola condanna definitiva (per frode fiscale nel processo Mediaset), ma francamente balza agli occhi la fragilità logica dell’impianto accusatorio: perché mai uno dei primi contribuenti d’Italia avrebbe dovuto evitare il versamento di una somma risibile se comparata alla mole di tasse e imposte effettivamente pagate da lui e dal suo gruppo? Sta di fatto che su quella base Berlusconi fu estromesso dal Senato fino al 2018. Per il resto, nonostante la quantità letteralmente mostruosa di inchieste e nonostante uno sforzo investigativo degno del contrasto a mafia, camorra e ’ndrangheta messe insieme, la macchina giudiziaria è stata sistematicamente sconfitta dalla difesa del Cav: con una raffica di archiviazioni, proscioglimenti e assoluzioni, o con (più rare) prescrizioni o sopravvenute modifiche normative. La montagna ha partorito il classico topolino, si potrebbe dire. E invece no: perché l’obiettivo era - più ancora della ricerca di una sentenza di condanna - quello di tenerlo costantemente sotto tiro, di costringerlo sulla difensiva, di avvelenare il clima mediatico e televisivo con anni e anni di ombre e veleni. Ombre e veleni che - diciamocelo - non si sono arrestati nemmeno negli ultimi mesi, vista la scombiccherata letteratura che ha cercato fino alla fine, senza pezze d’appoggio, di coinvolgere il Cav perfino nelle stragi mafiose del 1993. Pazzesco: non gli è stato risparmiato proprio nulla.Poi, certo, al centrodestra politico si può rimproverare di aver reagito a tutto questo senza l’ambizione di una riforma complessiva della giustizia, ma affidandosi a interventi più piccoli, più limitati, a «lodi» ed escamotages spesso efficaci nel caso singolo ma inadeguati rispetto alla necessità di una svolta liberale e garantista. Ma non è questo il giorno per discuterne. Semmai, le osservazioni che balzano agli occhi sono due. La prima: stare dall’altra parte rispetto ai comunisti comporta questo tipo di prezzo, ben conosciuto - prima di Berlusconi - da Bettino Craxi. La seconda: di tutta evidenza, solo un individuo eccezionale come il Cav (nonché dotato di mezzi e risorse fuori dal comune) avrebbe potuto opporsi e resistere per trent’anni a un simile assalto. Un cittadino meno attrezzato, o anche un leader politico più fragile, sarebbe stato inevitabilmente schiacciato e travolto. È per questo che - oggi più che mai - occorre avere a mente la malattia italiana dell’uso politico della giustizia. Non si tratta di mettere in discussione la professionalità o la buona fede di questo o di quel magistrato (esercizio che non ci compete né ci appassiona): ma di constatare oggettivamente come un protagonista vissuto dalla sinistra come un ostacolo sia stato inseguito, braccato, perseguitato. È su questo che andrebbero interrogati quanti in queste ore versano lacrime che sembrano di coccodrillo: occorrerebbe far loro non domande su Berlusconi, ma sul metodo che loro - la sinistra - hanno applicato al nemico Berlusconi. E si tratta, come accennavo, di un armamentario che ora pare in via di esportazione negli Usa come un prodotto made in Italy: è il nostro export peggiore, quello di cui non possiamo proprio andar fieri.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)