
Da anni raccontiamo dei pericolosi ghetti dove si intrecciano stranieri, degrado, case occupate e criminalità. La risposta è sempre stata il vuoto ritornello: ci vuole più integrazione. Così ora ci ritroviamo con le banlieue.
Adesso tutti scoprono che pure Milano ha le sue banlieue e perciò sproloquiano di integrazione, accoglienza, percorsi educativi per giovani stranieri, eccetera. A far aprire gli occhi a forze politiche che li hanno sempre tenuti chiusi, preferendo non guardare il lato oscuro della luccicante capitale economica d’Italia, è stata la morte di un ragazzo di 19 anni. O meglio: le reazioni al suo decesso. Domenica mattina, due giovani a bordo di uno scooter si sono sottratti all’alt dei carabinieri. È cominciato un inseguimento lungo otto chilometri per le vie cittadine, poi il conducente, un tunisino di 22 anni senza permesso di soggiorno, ha perso il controllo della moto e il passeggero, un ragazzo egiziano poco più che maggiorenne, ha sbattuto la testa contro un muro ed è morto. In tasca ai due i carabinieri hanno trovato 1.000 euro e una collanina d’oro, che gli inquirenti considerano il bottino di una notte brava. Per questo, evidentemente, i due scappavano: perché non volevano essere arrestati.
La storia potrebbe finire qui, ma invece ha un seguito, perché gli «amici» della coppia organizzano un blocco stradale, dando fuoco a tutto ciò che trovano e aggredendo pure alcune persone che provano a forzare l’assembramento di manifestanti. La protesta, al grido di «Verità per Ramy» (il nome del ragazzo morto), non si ferma alle ore successive all’incidente, ma va avanti per qualche sera, con danneggiamento di un autobus, esplosione di bombe carta contro le forze dell’ordine e striscioni vari, in cui si accusano i carabinieri di avere ammazzato il giovane egiziano, come se si fosse trattato di un’esecuzione e non di un incidente in cui i militari non hanno altra colpa se non quella di aver dato la caccia a dei presunti malviventi.
Che il gruppo di scalmanati autori della rivolta milanese non abbia alcuna ragione è ai miei occhi piuttosto evidente. Se i due si fossero fermati all’alt della pattuglia, nessuno si sarebbe fatto male. E se anche l’auto dei carabinieri - cosa che al momento non risulta - avesse urtato la moto su cui la vittima e il suo complice fuggivano, la responsabilità continuerebbe a essere di chi ha ingaggiato una sfida con una gazzella dell’Arma. Ma invece, al posto di riconoscere che in certi quartieri periferici della metropoli lombarda come quello in cui sono avvenuti i fatti, c’è un intreccio di illegalità e di immigrazione, sono cominciate le analisi sociologiche sulle aree degradate, dove accoglienza e integrazione sarebbero impossibili. «Non chiamatela banlieue», spiegava ieri Repubblica attraverso la penna di uno scrittore come Gianni Biondillo, «al Corvetto (il nome del quartiere da cui proveniva il ragazzo morto, ndr) è la rabbia di una generazione che abbiamo abbandonato». Così, anche chi fugge all’alt delle forze dell’ordine, magari dopo aver compiuto una rapina, è giustificato dalla dotta riflessione sui sentimenti repressi dovuti alla società consumistica. Non è di chi commette il fatto la colpa, ma di chi non ha evitato che avvenisse, abbandonando un’intera generazione.
La realtà invece è un po’ più terra terra, anche perché non tutta la generazione di ventenni, grazie al cielo, si impegna in un inseguimento con le pattuglie dei carabinieri per dare sfogo alla propria rabbia. Quello che è accaduto, ma soprattutto ciò che abbiamo visto con la sommossa organizzata da una banda di scalmanati, è la logica conseguenza di anni di accoglienza dell’illegalità. Non c’entra nulla la rabbia di una generazione, ma il brodo di una cultura senza regole in cui alcuni giovani sono cresciuti e vivono. Ho ripreso tra le mani una vecchia copertina di Panorama, settimanale che dirigo dal 2018. Il titolo è semplice: «Ghetti d’Italia». Un’immagine di quella che sembra una discarica e invece rappresenta una strada della metropoli lombarda introduce un viaggio nei quartieri di Milano, sempre più simili a quelli francesi, con degrado urbano, criminalità in crescita, immigrazione fuori controllo, violenza diffusa. Una parte dell’inchiesta è dedicata proprio al Corvetto, con tanto di fotografia. Purtroppo, nella luccicante capitale economica d’Italia le banlieue, oltre a non vederle, non vogliono neppure che siano argomento di discussione. Preferiscono chiudere gli occhi di fronte allo spaccio e al degrado, voltando la testa di fronte agli striscioni degli antagonisti in cui si sostiene che gli unici stranieri del quartiere sono i fasci e gli sbirri. Ecco, questo è il quadro sociologico in cui sono avvenuti i fatti. Questo è lo scenario su cui si affaccia la rivolta, con case popolari occupate e sopraffazione da parte di pochi. E il sindaco, dopo aver taciuto per giorni, ieri si è fatto vivo con la seguente dichiarazione: «Capisco che alla destra piaccia fomentare queste situazioni, ma io sono qui oggi per continuare a dire che Milano resterà una città accogliente». Morale: se un ragazzo si schianta durante una fuga dai carabinieri e altri giovani bloccano un quartiere incendiando e distruggendo un autobus, la colpa è della destra. Chiamate l’ambulanza.





