2020-10-17
Battisti si lamenta del carcere duro ma continua a infrangere le regole
Dopo aver recriminato per qualità del cibo e rigidità dei controlli, per poi richiedere attenuamenti di pena l'assassino ha oltraggiato un agente di custodia e mentito su una chiamata al fratello: in linea c'era una donna. Alla lunga, il vero carattere di Cesare Battisti salta sempre fuori. Ai primi di settembre era stato premiato con 90 giorni di liberazione anticipata, un «regalo» del Tribunale di sorveglianza di Cagliari per la buona condotta osservata nella prigione di Massama, vicino a Oristano. Ma all'ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo sono bastati i primi 12 giorni di trasferimento nel carcere di Corigliano Rossano, vicino a Cosenza, per accumulare 37 giorni di punizione. Il 15 settembre, 24 ore esatte dopo essere arrivato in Calabria, Battisti ha oltraggiato un ispettore della Polizia penitenziaria. Risultato: 15 giorni di esclusione dalle attività comuni. Il 25 settembre Battisti si è poi caparbiamente rifiutato di uscire dalla sezione quarantena, dov'era stato collocato per «precauzione sanitaria» anti Covid, esattamente come accade a tutti i detenuti che vengono trasferiti: così gli agenti hanno dovuto portarlo via di peso, e s'è beccato altri 15 giorni di punizione. Il 26 settembre, dopo aver chiesto e ottenuto di poter fare una telefonata al fratello (ma soltanto a lui), è stato scoperto mentre in realtà parlava con una donna non meglio identificata: ancora sette giorni di punizione.Insomma, Battisti non pare affatto il classico detenuto modello. E la sua vicenda umana continua imperterrita a girare su sé stessa, tra mascheramenti e opportunismi. Condannato all'ergastolo per quatto brutali omicidi compiuti nel biennio 1978-1979, poi evaso nel 1981, per ben 37 dei suoi 65 anni l'ex terrorista ha sfacciatamente indossato i panni della vittima ed è riuscito a convincere prima i circoli intellettuali della gauche parigina e poi la sinistra governativa brasiliana di essere del tutto innocente, un povero perseguitato politico. L'ex presidente Inàcio Lula da Silva, ha ammesso l'errore soltanto due mesi fa: «Ho sbagliato a concedere l'asilo a Battisti», ha dichiarato, «perché ha commesso crimini orribili e ingannato molta gente. Chiedo scusa alle famiglie delle sue povere vittime». Quando poi nel gennaio 2019 il latitante dei record è stato finalmente consegnato dalla Bolivia alla giustizia italiana, in nove ore d'interrogatorio davanti al procuratore aggiunto milanese Alberto Nobili ha lasciato cadere la maschera e di colpo ha confessato tutte le sue responsabilità, omicidi, ferimenti e rapine: «Credevo fosse una guerra giusta», ha ammesso alla fine, «ma ora chiedo scusa alle mie vittime». Il voltafaccia è stato così drastico e svergognato da sollevare il sospetto di un calcolo teso a ottenere benefici. Da allora, Battisti è sempre stato rinchiuso nei reparti di «Alta sicurezza 2», quelli destinati ai condannati per motivi di terrorismo. E di certo sentendosi tradito nelle sue aspettative, a Oristano prima che a Corigliano il detenuto non ha fatto altro che contestare, agitarsi e chiedere solidarietà a destra e (soprattutto) a manca. Poi ha denunciato lo Stato per l'isolamento diurno cui veniva «costretto illegittimamente», ha protestato per il rischio coronavirus cui veniva esposto e per la scarsa qualità del cibo. Si è proclamato «prigioniero politico, sequestrato dallo Stato» e ha iniziato anche uno sciopero della fame. Da maggio uno dei suoi avvocati, aveva fatto istanza perché Battisti fosse collocato in un circuito detentivo di livello inferiore (da «alta» a «media sicurezza») e fosse trasferito a Milano o a Roma, e almeno in una prigione dove potessero vederlo i familiari, che non erano in grado di raggiungere la Sardegna. La Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, però, ha risposto negativamente. E forse il trasferimento in Calabria non sarà stato un miglioramento clamoroso, ma Battisti da quel momento ha ancora alzato il tono del suo dissenso e ora di Corigliano parla addirittura come della «Guantànamo italiana». Nel carcere calabrese, in effetti, è stata guerra da subito. Il primo casus belli è esploso con una lettera. Un mese fa, il Tribunale di sorveglianza di Cosenza ha stabilito che tutta la corrispondenza del detenuto dovesse essere attentamente controllata, in entrata e in uscita: così, quando un ispettore ha cominciato a verificare una busta che Battisti aveva appena indirizzato al fratello, il detenuto l'ha coperto d'insulti. E punito. Da allora Battisti lamenta di essere vittima della «feroce censura» applicata alle sue lettere, e definisce «vergognoso» il provvedimento che gli attribuisce «una fitta attività epistolare eversiva, alla quale nessuno può obiettivamente credere». Il motivo della persecuzione, a suo dire, avrebbe «il chiaro obiettivo di impedirmi di interagire con le istanze esterne, culturali e mediatiche, grazie alle quali starei guadagnando consensi democratici e garantisti, di fronte alla vendetta dello Stato». La seconda protesta è andata in scena quando Battisti s'è rifiutato di uscire dalla sezione quarantena del carcere di Cosenza, sostenendo che i detenuti jihadisti nel reparto di Alta sicurezza potrebbero ucciderlo per sue antiche dichiarazioni contro il velo islamico. Battisti lamenta comunque di vivere in «condizioni insostenibili». In un'ultima lettera, affidata a un secondo avvocato, chiede al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di trovargli «una sistemazione degna di un Paese civile, senza costringermi a riprendere lo sciopero della fame». Poi aggiunge, oscuro e minaccioso: «Anche se dovessero ridurmi al silenzio, i compagni e gli amici qui e altrove sapranno adoprarsi come hanno sempre fatto». Pare che a Parigi la solita confraternita della gauche stia raccogliendo firme in sua difesa. Ma gli intellò, si sa, hanno la testa dura.
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