2020-05-31
Bastano sette passi per uscire dall’incubo e ritrovare sprazzi di saggezza congelata
Perché la bella donna dai capelli grigi si è tolta la vita? Ha senso chiederselo in questo mondo che oramai è solo figlio del caso?È trascorso l’intero inverno. Da quell’incontro col pugno di sangue che lo aveva riportato ai ricordi di una vita estinta. Mesi, una matassa di notti e di giorni, consumata ad assolvere la pretesa dei bisogni elementari. Immenso era soggiogato dal proprio corpo come mai gli era capitato nelle precedenti fasi della propria avventura personale. Tutta qui la vita selvaggia nei boschi? Tutto qui il fascino ascetico delle montagne? Ripararsi, nutrirsi, cercare in ogni modo di non indebolirsi, magari di non impazzire? Questo è il resto della vita che lo attende? L’inverno è la stagione della speculazione ma anche quella che sancisce il salto da uno stato mentale confuso a uno stato mentale compromesso. Una foresta di attese, un intrico di piccoli animali che rodono e ti sbirciano da qualsiasi anfratto, le anime che non sai riconoscere ma traspirano nelle fratture del muro o nelle brecce masticate dei tronchi degli alberi. L’unica persona che ogni quattro o cinque giorni incontra è Zen, ogni tanto viene lui, ogni tanto lo raggiunge.«Che cosa stai meditando?» gli chiede ogni volta.Zen ha una piccola biblioteca con sé. Casa sua è uno spazio quadrato, senza sedie, solo alcune stuoie che ha realizzato lui stesso unendo insieme radici e tralci di edera e canule da un canneto che circonda buona parte dello stagno, a un chilometro, giù, a valle. Un fornelletto da campo costituisce l’unico arredo della non cucina che ha allestito in un angolo. Due scodelle più volte rotte e aggiustate sono i piatti e i bicchieri. Due forchette ricavate dai rami di un ginepro secolare. Un cucchiaio di legno, scavato. E un coltello militare, unico oggetto, assieme ai libri, che lo hanno seguito quassù, quando era fuggito dalle maglie strette della guardia urbana. Ai cittadini delle città di vetro non piace che gli abitanti se ne vadano dove vogliono. I primi anni si favorì la dipartita degli insoddisfatti, gli «eretici» li chiamavano i giornali. Ma poi si temette una fuga troppo numerosa, la manodopera a basso costo, disperata, sconvolta, pronta a subire ulteriori ingiustizie, occorre in qualsiasi organizzazione sociale.Zen indossa sempre lo stesso lungo abito da monaco, una zimarra nerastra. Rattoppata, ovviamente. Sulla parete opposta rispetto l’ingresso ha sistemato nel muro alcuni rami a cui ha appeso i ripiani. Lì riposano gli esemplari in carta e inchiostro dei cinquanta libri che è riuscito a traghettarsi dietro. Una faticaccia, risalire fin qui, con tutta quella saggezza congelata. Confucio, Laotze, Dogen, Spinoza, Sant’Agostino, Linji, Eccardo, Platone, Suzuki, San Francesco e molti altri anziani pensatori dalla lunga barba. Nient’altro in questo cubo bianco. Il bagno è fuori, in un casotto ad alcune decine di metri, annegato nei prati. Zen dorme sulle stuoie che unisce e mette l’una sopra le altre. Il resto è preghiera, meditazione, cammino nel bosco.Di tanto in tanto però Zen ha dentro di sé un bambino. Parla anche in modo diverso, non il pacifico ramingo eremita consapevole del peso di ciascuna parola e ancor più di ogni silenzio, acceso fra una frase e l’altra. Come se fosse inaspettatamente posseduto da un fanciullo che gli dorme nel petto. Lì, assieme a lui, si alza, con lui si nutre di foglie e radici, con lui si addormenta sulle stuoie di canna, con lui sogna. E magari, di lui sogna. Chi sogna chi? È l’anziano meditante che sogna il bambino dispettoso oppure è il bambino che gli riposa nel petto che sogna di questo curioso uomo che gli sta intorno? Chi è Zen? Il bambino che tiene a bada o l’uomo di oggi, con tutti i suoi anni, le sue rughe, le sue paure inconfessate? O entrambi, uno stridere di materie che cercano di fondersi senza riuscire?«Immenso, come va? Sei riuscito ad uscire dal tuo rifugio? Com’è? Stai bene? O stai male? Quei tuoi brutti pensieri ti tormentano ancora, vengono a bussare alla tua porta? Eh, i ricordi brutti sono fatti così, finché non li hai soppressi acquistano sempre nuove forme e ti vengono a cercare».Talvolta basta un’esitazione, una mancata replica, perché la trasformazione si compia davanti ai suoi occhi.«Noi bambini siamo aria pura, leggera, ali e piume, denti da latte e risolii. Sai come funziona, ai bambini viene dato spazio, noi siamo il nuovo che è appena venuto al mondo e cerca di trovare una forma. Anche se mi devo accontentare di questo corpo non mio, lo spirito è forte, vivace, se non venissi fuori, ogni tanto, cosa farebbe questo vecchio che mi ospita? Come potrebbe rinnovarsi se restasse sempre lui, nelle sue ostinate convinzioni? No, che dici? Che dici? Che dici?!».«Caro, siamo tutti soli al mondo. Anche quelli che abitano laggiù, nella città di vetro, sono soli. Tutti nascono soli e vivono soli. E moriranno soli. Forse tu lo capirai, un giorno, quando chi ti ospita sarà giunto al suo termine. Non credi?» controbatte Immenso, oramai abituato a questi mutamenti di personalità.«Tu sei una persona saggia, Immenso, anche se fai scelte clamorose e sbagliate».«Non sei il primo che me lo dice».Zen è una personalità sdoppiata. Ma si rende conto del bambino che ospita? Il bambino si rende conto di essere un ospite nel corpo di un altro uomo, ma può accedere ai suoi pensieri? Oppure ogni tanto lo spia ed è tutto qui? Come guardare un pezzo di mondo dal buco della serratura? Immenso vorrebbe chiedere di più ma ha paura di scatenare reazioni violente. Lui vuole bene a Zen, soffrirebbe se gli succedesse qualcosa. Quindi tace. Osserva e ascolta il bambino che si manifesta, nella sua irruente e giocosa vitalità. Finché non smette di parlare, siede in ginocchio, incrocia le gambe, la sinistra sul polpaccio destro e il piede sinistro sulla gamba destra. Tace. Così Immenso se ne va.Stamane la temperatura si è fatta più morbida. L’uomo decide si risalire la via alla montagna gemella. Intende rivedere gli occhi che lo avevano trafitto. La donna dai lunghi capelli grigi. Come se fossero composti di ragnatela. Stirati, soffici, che si ha paura a toccare per non vederseli sfumare via. Ci vuole molta cura a custodire in ordine capelli composti di ragnatela, pensa Immenso, ridendosela per questo pensiero bislacco. Lei gli aveva detto che se proprio non poteva farne a meno sarebbe potuto passare a salutarla. «Ma non creda che la inviterò fuori a mangiare una pizza» aveva precisato. Una pizza. Non si ricorda nemmeno che gusto abbia una pizza.Mentre supera la carcassa di un cervo con le budella sparse per metri e metri, probabilmente sbranato da un lupo di passaggio, si chiede se il suo tornare da lei non sia in qualche modo legato a un desiderio sessuale. Fra eremiti il sesso non è un argomento presente. Chi abbandona la città sa che quella è probabilmente una parte della propria vita che va rimossa. Una preoccupazione in meno, un istinto da appagare che va semplicemente spento. Ma chi ha deciso tutto questo, probabilmente, non aveva una «vicina» di eremitaggio come Ana. O Claudia. O Juliana. Chissà come si chiama, non glielo disse, al loro primo incontro. Sollevando in alto le suole degli scarponi che scivolano dentro il fango, Immenso culla alcune immagini inavvertitamente pornografiche. Lui sopra di lei. Lei che lo bacia. Lui che le dice cose spinte. Scene di un vero film vietato ai minori. Chissà se i ragazzi della città li conoscono ancora i film a luci rosse… esisterà ancora un’industria della pornografia? Come potrebbe d’altro canto convivere coi rigidi dogmatismi della legge del vetro? Vita davvero noiosa, in caso contrario.Finalmente vede spuntare la casupola. Il vecchio rifugio per turisti alpini. I fiori che aveva visto alla base della facciata sono spariti. La porta, lo nota subito, non è chiusa. Si vede qualcosa dentro. Un buio che sa di abbandono. Possibile che la donna se ne sia già andata? Sarà forse stata rapita da qualche banda di pagani? Razziano spesso le borgate isolate, e non si fanno scrupoli nemmeno ad uccidere o a stuprare. Almeno da quel che si racconta.Dalla porta esce aria cattiva. Lo sente che c’è puzza di carne marcia. Un tanfo che a tratti lo investe e quasi lo fa svenire. Inizia a temere il peggio. E allora ripensa alla sua bella faccia, al suo corpo snello, ai suoi pantaloni aderenti. Al seno che aveva fissato quasi come se fosse il primo seno di donna che vedeva. E le sue parole, inerti, volte a raggelare ogni slancio emotivo. Con la punta della sua scarpaccia consegna un colpo alla base della porta. Il puzzo è talmente intenso che si deve fermare più volte per non farsi vincere dall’istinto di vomitare. Quando il suo corpo è dentro la vede, lì, appesa per il collo. La donna è morta. La sua carne gonfia e putrescente. Irriconoscibile. La riconosce grazie ai soli abiti che indossa, e la statura che coincide con quel che ricorda. Dalla bocca esce la lingua, un getto viola, polposo. Gli occhi sembrano addirittura scoppiati. Le mani sono tese, come se fossero appartenute ad una strega. La casa in ordine quindi non è stata impiccata dai pagani, o da qualcuno venuto da fuori ed entrato con forza. Le gira intorno. La corda è appesa ad un gancio lassù. Come ci è arrivata a metterlo? Nota poi, in fondo alla stanza, una piccola scala caduta a terra. Forse l’aveva piazzata lì e nel cadere l’aveva spinta lontano. Per non seguire l’istinto di salvarsi. Oppure… Sette passi. Sette passi bastano ad accompagnarlo fuori scena. Soltanto sette passi dividono un tragico e assurdo suicidio e questa visione del mondo aperto, delle montagne rocciose, i boschi, il cielo, il vento che sbatte sulla sua faccia invecchiata di tanti anni. Perché la donna si è tolta la vita? Cosa l’avrà annientata dentro, per portarla a quest’ultima azione? Serve poi chiederselo? Ha senso in questo mondo che oramai è soltanto figlio del caso?