Uno studio smonta la retorica dell'immigrazione come panacea del calo demografico e spinta per la crescita. Dalla seconda generazione in poi, il contributo straniero alle nascite crolla. Per la produttività è meglio puntare sulla formazione degli italiani.
Uno studio smonta la retorica dell'immigrazione come panacea del calo demografico e spinta per la crescita. Dalla seconda generazione in poi, il contributo straniero alle nascite crolla. Per la produttività è meglio puntare sulla formazione degli italiani. Bankitalia si occupa del contributo della demografia alla crescita economica del Paese. Lo fa con uno studio sintetico e dalla mentalità aperta e scevra di pregiudizi. Tant'è che i risultati ne sfatano più di uno, a cominciare dal ruolo benefico (sbandierato dalla sinistra) che gli immigrati svolgono per il nostro sistema Paese e dal contributo che portano alla crescita del Pil, dei consumi e della produttività. Innanzitutto nell' occasional paper di Palazzo Koch, firmato da Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellini e Paolo Piselli, si spiega che il dividendo demografico è rimasto sostanzialmente positivo fino al 2010. Natalità e tasso di mortalità hanno consentito un trend positivo fino a otto anni fa. A quel punto si apre una forbice tra i due tassi che è destinata ad accentuarsi nel futuro: le proiezioni dell'Istat indicano per il prossimo cinquantennio un rialzo dei tassi mortalità, «dinamica su cui incide la composizione per età che vede una quota di popolazione anziana sempre più consistente. La natalità rimarrà, invece, sui livelli attuali eccezionalmente bassi». Ne segue che «i flussi migratori previsti limiteranno l'ampiezza di tale contributo negativo», anche se «non saranno in grado di invertirne il segno». A pagina 18 del documento si comprende numericamente il senso dell'affermazione. «Nel decennio 2001-2011, con una popolazione straniera residente che supera i 4,5 milioni (7,7% del totale), il contributo demografico degli immigrati è considerevole (1,1%) e compensa parzialmente il dividendo demografico negativo che origina dalla popolazione italiana (-4,2%). Nell'ultimo difficile quinquennio, il contributo degli stranieri si attesta su un più modesto 0,2%». In pratica, la componente dell'immigrazione vale solo nel breve termine. Esaurito l'effetto della prima generazione, le nuove comunità si adeguano anche ai trend demografici autoctoni «depressi». INFOGRAFICA !function(e,t,n,s){var i="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName(t)[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(s)&&(s=d+s),window[i]&&window[i].initialized)window[i].process&&window[i].process();else if(!e.getElementById(n)){var a=e.createElement(t);a.async=1,a.id=n,a.src=s,o.parentNode.insertBefore(a,o)}}(document,"script","infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js"); A pagina 19 del paper i tre economisti lo scrivono chiaramente: «L'apporto specifico dell'immigrazione sarebbe favorevole nei prossimi tre decenni, ma partire dal 2041 anche il contributo dell'immigrazione diverrebbe negativo». Una frase che da sola smonta tutte le teorie sostenute dal governo uscente e pure dal numero uno dell'Inps, Tito Boeri, ovvero che senza immigrati non ci sarà sostenibilità economica e il Paese non sarà in grado di pagare le pensioni. Su quale dato numerico ha fatto leva la sinistra per sostenere l'immigrazione di massa? Il paper contiene anche questo aspetto e lo spiega bene. «A partire dal 2001», si legge, «il Pil pro capite senza la componente straniera avrebbe subito un calo del 3%, invece dell'1,9% effettivamente registrato». Aggiungendo il fatto che nel periodo tra il 2016 e il 2061, se si togliessero dall'Italia tutti gli immigrati, il Pil calerebbe molto più del 50% contro un meno 24% e lo stesso di può dire sul reddito. Il problema è che il bilanciamento attuale avrà un'inversione di tendenza dal 2041. È chiaro che puntare tutto sulla sostituzione demografica, oltre a creare una bomba culturale, non risolverà nel lungo termine la tenuta economica del Paese. Idem per l'idea di chi immagina flussi costanti di immigrati clandestini che entrino in Italia per fornire manodopera a basso prezzo. La teoria sostenuta da Emma Bonino, ad esempio, avrebbe l'effetto di evitare l'integrazione e quindi tenere alto il dividendo demografico, ma causerebbe un continuo calo degli stipendi e di conseguenza un drammatico depotenziamento del potere d'acquisto e dei consumi. Di qui l'invito dei tre curatori dello studio a intervenire su estensione della vita lavorativa, aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e incremento nei livelli di istruzione per «contrastare i puri effetti contabili legati all'evoluzione nella struttura per età». L'estensione della vita lavorativa fino a 69 anni, ad esempio, ridurrebbe di sette punti percentuali la flessione del Pil pro capite (-9,2% rispetto a -16,2%) dovuta all'evoluzione demografica sull'orizzonte 2016-2061. Portare il tasso di occupazione al 70% per gli uomini e al 60% per le donne come previsto dall'Agenda di Lisbona conterrebbe al 2,9% il calo del Pil pro capite. Senza dimenticare il tema della produttività. Il nostro Paese necessità di un tasso almeno dello 0,3% annuo e a fare la differenza sarà anche la formazione professionale e scolastica. Più qualità e meno quantità. Il contributo alla crescita economica della modifica nella composizione per età della popolazione, affermano i ricercatori, «può essere significativo. Paesi la cui popolazione mostra, ad esempio, una quota di giovani in crescita hanno le potenzialità per raccogliere un dividendo dall'evoluzione demografica attraverso l'aumento dell'offerta di lavoro per quantità e qualità. Gli aumenti della popolazione giovane in età da lavoro, influiscono anche sulla composizione per età degli occupati producendo, oltre agli effetti diretti sulla crescita economica attraverso l'aumento dei tassi di occupazione e l'incremento dei livelli di efficienza, effetti indiretti sulla dinamica della produttività innanzitutto attraverso l'impatto sull'innovazione e l'imprenditorialità. La flessione nei dependency ratio (rapporto tra la popolazione in età non lavorativa e la popolazione in età lavorativa) ha di per sé effetti benefici sulla crescita economica. In pratica, attraverso un aumento del livello medio di istruzione per occupato tale per cui l'Italia raggiungerebbe nel 2061 il livello che la Germania avrebbe nel 2040 (14,3 anni), il Pil pro capite aumenterebbe di quasi 10 punti percentuali rispetto al livello attuale. Lo studio lascia aperte numerose strade. Immaginare che gli italiani debbano lavorare fino a 69 non è però così semplice da un punto di vista sociale. E scopre il fianco all'enorme problema dell'occupazione giovanile. Si potrebbe però partire da questi numeri per rivedere l'intero sistema fiscale creando un nuovo impianto che favorisca la natalità e i criteri familiari come accade in Francia. E al tempo stesso rivedere tutte le leggi sul lavoro abolendo gli incentivi nel breve e medio termine che risultano soltanto un doping economico e stimolare l'integrazione tra scuola e mondo del lavoro a partire dall'apprendistato e la formazione di altissimo livello. In Germania da qualche anno Airbus paga l'università ai migliori studenti dei licei scientifici. Li forma e li fa crescere. Troppo difficile farlo da noi?
Ansa
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(IStock)
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