True
2021-07-11
Azzurri e Berrettini: obiettivo zero rimpianti
Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la battaglia di Rocroi, scrive il Manzoni nell'incipit del secondo capitolo dei Promessi Sposi, e lo fa per sottolineare la calma olimpica di chi, strategicamente, sa di possedere i mezzi necessari per prevalere nella disputa con l'avversario, a differenza del povero curato don Abbondio, destinato a trascorrere una nottata di «angosciose consulte» perché cacciatosi in un ginepraio inestricabile. L'auspicio per le battaglie che attendono oggi la nazionale italiana di calcio nella finale di Euro 2020 e Matteo Berrettini a Wimbledon è quello di imitare il nobile comandante navarrino: scendere in campo con la leggerezza di chi fa della consapevolezza nelle proprie doti un privilegio stilistico, mettendo da parte i tentennamenti nascosti dall'incombenza di un traguardo visibile. La discriminante non sarà tra vincere o perdere. Sarà tra l'aver tentato tutto il possibile per prevalere e l'essersi lasciati scappare l'occasione di rifilare una zampata letale per scarsa audacia. Di solito la soddisfazione sportiva arriva quando la partecipazione ne è il conseguente esercizio di coerenza. In parole povere: lunedì mattina sia la squadra di Roberto Mancini, sia il tennista romano saliranno sull'aereo per Fiumicino e saranno ricevuti dal presidente Sergio Mattarella, i rimpianti non saranno compresi nel prezzo del volo. Le due situazioni hanno diversi punti in comune. Entrambe costituiscono la rinascita di due movimenti da un po' di tempo bistrattati. La Nazionale di pallone arriva dal disastro della mancata partecipazione ai Mondiali 2018, un'onta passata in cavalleria grazie alla ricostruzione spensierata di Mancini. In queste settimane, l'Italia ha giocato un calcio leggero, organizzato, strutturato su attori giovani e affamati, accompagnati da pochi uomini d'esperienza e di mestiere. I gironi preliminari hanno certificato l'efficacia del nuovo corso, gli ottavi di finale sono stati il primo scalino ostico contro un'Austria che aveva eretto barricate per compensare l'evidente inferiorità tecnica, i quarti contro il Belgio hanno rappresentato lo scatto decisivo. Superare i Diavoli Rossi e le loro individualità formidabili ha garantito ai tifosi una certezza: l'Italia è tornata a livello che le compete. Battere la Spagna di Luis Enrique ha fatto il resto. E gli inglesi, temibili e granitici, non sono superiori agli spagnoli. È vero, il match si giocherà a Wembley, una bolgia di 60.000 spettatori quasi tutti schierati per i beniamini di casa, con il primo tifoso britannico, il premier Boris Johnson, gran sodale del plenipotenziario Uefa Aleksander Ceferin dopo averlo aiutato a disinnescare l'insidia politica della Superlega. La squadra di Gareth Southgate poi ha incassato un solo gol, in semifinale e su punizione. Ma, come ci si ricorda dai Mondiali 2006, giocare in uno stadio ostile dominato dai padroni di casa è uno stimolo esaltante. Matteo Berrettini godrà poi di una leggerezza ancora maggiore. In molti se lo immaginano travestito da Rocky Balboa quando, in piena fregola edonista reaganiana, si trovò di fronte il colosso Ivan Drago che lo fulminò con il leggendario: «Ti spiezzo in due». Per palmares e solidità di gioco, il trentaquattrenne serbo Novak Djokovic è un Drago infarcito del supporto di una nazione, la Serbia, dove siede alla destra del santo patrono: è il tennista che ha trascorso il maggior numero di settimane da numero uno al mondo nella storia, ha vinto Wimbledon 5 volte, un mese fa ha portato a casa il Roland Garros superando il terraiolo per eccellenza Rafa Nadal e sconfiggendo, non senza qualche grattacapo, proprio Berrettini nei quarti di finale. In più, sa recuperare palle improbabili rispedendole al mittende con traiettorie metafisiche. E però Matteo è approdato laddove nessun italiano della racchetta è mai giunto prima. Mai nessuno dei nostri ha vinto sull'erba del Queen's, tanto meno ha raggiunto una finale a Wimbledon servendo 100 ace nel torneo, sbarazzandosi con relativa facilità di avversari insidiosissimi. Per lui non si tratterà di avere qualcosa da perdere, ma di aver molto da guadagnare. A patto di sfoderare quella fluidità tipica non di un match decisivo, ma di una partita normale, di piazzare le prime di servizio con la stessa, impressionante percentuale di efficacia della semifinale con Hurkacz, quasi a dimenticarsi di essere un esordiente nel mondo delle finali del Grande Slam. Il resto lo farà la sorte. Non dimenticando qualche episodio goloso: sull'erba inglese, nel 1991, un semi sconosciuto Michael Stich prevalse sul connazionale Boris Becker, facendo saltare il banco di quotisti e allibratori. Ma anche: agli US Open 2000, il granatiere russo Marat Safin fece letteralmente impazzire lo strafavorito Pete Sampras, liquidandolo in tre set grazie al tennis, parole sue, «più lieve e libero da condizionamenti di sempre». A riprova, manco a dirlo, che è su Djokovic a pesare il fardello di non poter fallire. Così come è sulla nazionale inglese che si concentreranno tutte le attenzioni della polveriera di Wembley.
Formazione confermata in blocco. Il ct: «Vogliamo divertirci ancora»
L'ora della verità è arrivata: stasera l'Italia alle 21 scende in campo a Wembley contro l'Inghilterra per la finale degli Europei. Si gioca nella tana del lupo, con tutti i pronostici contro: situazione ideale per gli azzurri di Roberto Mancini, che dovrebbe, per la prima volta in questo torneo, schierare la stessa formazione della gara precedente, la semifinale vinta ai rigori contro la Spagna. Salvo imprevisti, quindi, sarà questo il 4-3-3 di partenza: Donnarumma tra i pali; Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini e Emerson in difesa; Barella, Jorginho e Verratti a centrocampo; Chiesa, Immobile e Insigne davanti. Gareth Southgate si affiderà invece al 4-2-3-1: Pickford in porta; Walker, Stones, Maguire e Shaw in difesa ; Rice e Philips in mezzo al campo; Saka, Mount e Sterling alle spalle di Kane. Arbitrerà il fischietto olandese Bjorn Kuipers, classe 1973, coadiuvato dai connazionali Sander van Roekel e Erwin Zeinstra, mentre il quarto uomo sarà lo spagnolo Carlos del Cerro Grande. Al Var ci sarà il tedesco Bastian Dankert.
Dopo la positività al Covid di Alberto Rimedio, la Rai ha assegnato la telecronaca della finale a Stefano Bizzotto, con il commento tecnico di Katia Serra. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sarà a Wembley come annunciato nei giorni scorsi. Gli azzurri hanno effettuato la rifinitura ieri sera, nel centro sportivo del Tottenham, non appena si è conclusa la conferenza stampa di Mancini: «Da giocatore azzurro», ha detto il mister, «non ho avuto la fortuna di vincere quel che avremmo meritato, né con l'Under 21 né al Mondiale 1990: spero di togliermi domani da ct quelle soddisfazioni che in nazionale mi sono mancate. Se i ragazzi vogliono divertirsi ancora, abbiamo gli ultimi 90 minuti per farlo. Ho definito all'inizio questa Italia divertente: lo ripeto oggi, e aggiungo sostanziosa. Non è mai stata facile, e i ragazzi l'hanno affrontata con grande forza. Possiamo giocare bene, fare una grande partita. Spero che la data possa essere importante per una seconda volta per gli italiani», ha aggiunto Mancini, «riferendosi alla conquista del Mondiale dell'Italia di Bearzot, l'11 luglio 1982 a Madrid. «Dobbiamo essere tranquilli. Sarà difficile, per tanti motivi», ha sottolineato Mancini, «ma dobbiamo esser concentrati sul nostro gioco e cercare di attuarlo al meglio. L'avversario? Gli inglesi hanno grande passione per il calcio come l'Italia, hanno sempre avuto grandi squadre come adesso. Sarà una bella gara davanti a uno stadio pieno e questo è meraviglioso per chi ama il calcio. Sarà un bel giorno per giocare una partita, sappiamo delle loro grandi qualità».
L’odissea della seconda dose per gli ex malati
Ieri avevo la seconda dose di vaccino Pfizer da fare, ma non mi sono presentata al centro dove ero prenotata per la somministrazione. No, non ho cambiato l'idea che mi sono fatta in questi mesi sui vaccini. Sono ancora sicura che siano l'unica strada per uscire da questa pandemia e fino a pochi giorni fa non vedevo l'ora di completare il vaccino per sentirmi più sicura, sia per me che per gli altri. Qualche giorno fa però ho avuto l'idea di farmi un test sierologico per misurare, con un semplice prelievo del sangue, la quantità di anticorpi contro il Covid-19 presenti nel mio corpo.
Con una spesa di 35 euro scopro con mia grande soddisfazione di averne tanti, anzi tantissimi: 805,5 S-rbd. Quando ritiro il referto il medico mi dice «beata lei ne ha una tonnellata». Per capirci, molti sanitari che hanno fatto la doppia dose di Pfizer qualche mese fa, ora ne hanno 45/50 S-rbd. Mi spiegano che essendomi ammalata di Covid ad agosto dell'anno scorso e avendo fatto una dose di vaccino il mio organismo ne ha sviluppati molti altri. Bene penso, ma ora la seconda dose la devo fare o no? E qui inizia la mia odissea per trovare la risposta. Chiamo prima il numero verde di Regione Lombardia dedicato al coronavirus. L'operatore mi dice di sentire il Cts, il comitato tecnico scientifico per l'emergenza Covid, che a sua volta mi rimanda al numero verde. Quando richiamo, questa volta mi dicono di sentire il mio medico di famiglia. Chiamo allora il mio dottore di base, gli spiego che ho tantissimi anticorpi e gli pongo la fatidica domanda, devo o non devo fare la seconda dose? Mi consiglia di chiedere al centro vaccinale, mi dice che non può essere lui a decidere. Faccio così l'ennesima chiamata sperando sia quella che mi darà la soluzione definitiva. Un gentile dottore mi dice che sì, ho molti anticorpi ma che le linee guida della casa farmaceutica, nel mio caso Pfizer, dicono che una dose è prevista solo per i guariti nei 6 mesi precedenti al vaccino. Io sono guarita da un annoPoi aggiunge: «Detto tra noi, può avere un senso dal punto di vista clinico non farlo, ma non troverà mai nessun medico vaccinatore che si assuma la responsabilità di dirle “ok non facciamo la seconda dose perché dagli esami che mi ha portato vedo che non ne ha bisogno perché ha molti anticorpi"».
Insomma io devo farmi un secondo vaccino non perché ne ho bisogno ma perché non ci sono delle linee guida che dicano di portare un test sierologico alle persone che hanno già avuto la malattia? Ma la sorpresa arriva alla fine perché mi dice: «Non fare la seconda dose genera una serie diproblematiche per quanto riguarda le prenotazioni. Se lei salta la dose il sistema non la riconosce più e si generano delle problematiche dal punto di vista burocratico e comunque non le rilasciano il green pass». Ora non so più che fare ma per fortuna mi ricordo che per lavoro ho il numero di un virologo di grande fama, così chiamo il professor Massimo Galli, responsabile malattie infettiveall'ospedale Sacco di Milano. Lui conciso mi dice: «Non lo faccia, non né ha bisogno». Dopo un'intera giornata di chiamate ho avuto finalmente una risposta definitiva e solo perché avevo il telefono della persona giusta. Il numero verde dedicato al Covid fornisce tante opzioni: la possibilità di cambiare la data per la prima dose, informazioni per la seconda ma solo per gli insegnanti. Insomma il mio caso non è contemplato anche se, come me, ci sono tante persone guarite che forse del secondo richiamo non ne hanno bisogno. Dimenticavo, quando ho cercato di disdire il mio appuntamento, per lasciare il posto ad un'altra persona, mi è stato detto che non è possibile cancellare. «Se uno non vuole andare semplicemente non si presenta», mi è stato risposto. Il test sierologico privatamente costa circa 30 euro, capisco che forse, far passare questoesame a tutti i guariti dal Covid-19 prima del vaccino, potrebbe essere dispendioso per lo Stato, ma così si stanno vaccinando persone che non ne hanno bisogno. Alla fine non mi sono fatta iniettare la seconda dose, non avrò però il mio agognato green pass e per il richiamo in autunno, che forse dovremmo fare, io finirò in fondo alla lista perché per lo Stato sono una rinunciataria.
Continua a leggereRiduci
La squadra di Mancini dovrà vedersela con Wembley stracolmo di inglesi, mentre il tennista romano è alla sua prima sfida valida per uno slam contro un rivale che, solo a Wimbledon, ha già cinque trionfi. Non c'è nulla da perdere, vietato avere pauraStessi 11 che hanno battuto gli spagnoli. La Rai sostituisce Alberto Rimedio con Stefano BizzottoDopo il primo Pfizer anticorpi alle stelle: effetto della guarigione dal virus. Capire cosa fare è un'impresaLo speciale contiene tre articoli Si racconta che il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la battaglia di Rocroi, scrive il Manzoni nell'incipit del secondo capitolo dei Promessi Sposi, e lo fa per sottolineare la calma olimpica di chi, strategicamente, sa di possedere i mezzi necessari per prevalere nella disputa con l'avversario, a differenza del povero curato don Abbondio, destinato a trascorrere una nottata di «angosciose consulte» perché cacciatosi in un ginepraio inestricabile. L'auspicio per le battaglie che attendono oggi la nazionale italiana di calcio nella finale di Euro 2020 e Matteo Berrettini a Wimbledon è quello di imitare il nobile comandante navarrino: scendere in campo con la leggerezza di chi fa della consapevolezza nelle proprie doti un privilegio stilistico, mettendo da parte i tentennamenti nascosti dall'incombenza di un traguardo visibile. La discriminante non sarà tra vincere o perdere. Sarà tra l'aver tentato tutto il possibile per prevalere e l'essersi lasciati scappare l'occasione di rifilare una zampata letale per scarsa audacia. Di solito la soddisfazione sportiva arriva quando la partecipazione ne è il conseguente esercizio di coerenza. In parole povere: lunedì mattina sia la squadra di Roberto Mancini, sia il tennista romano saliranno sull'aereo per Fiumicino e saranno ricevuti dal presidente Sergio Mattarella, i rimpianti non saranno compresi nel prezzo del volo. Le due situazioni hanno diversi punti in comune. Entrambe costituiscono la rinascita di due movimenti da un po' di tempo bistrattati. La Nazionale di pallone arriva dal disastro della mancata partecipazione ai Mondiali 2018, un'onta passata in cavalleria grazie alla ricostruzione spensierata di Mancini. In queste settimane, l'Italia ha giocato un calcio leggero, organizzato, strutturato su attori giovani e affamati, accompagnati da pochi uomini d'esperienza e di mestiere. I gironi preliminari hanno certificato l'efficacia del nuovo corso, gli ottavi di finale sono stati il primo scalino ostico contro un'Austria che aveva eretto barricate per compensare l'evidente inferiorità tecnica, i quarti contro il Belgio hanno rappresentato lo scatto decisivo. Superare i Diavoli Rossi e le loro individualità formidabili ha garantito ai tifosi una certezza: l'Italia è tornata a livello che le compete. Battere la Spagna di Luis Enrique ha fatto il resto. E gli inglesi, temibili e granitici, non sono superiori agli spagnoli. È vero, il match si giocherà a Wembley, una bolgia di 60.000 spettatori quasi tutti schierati per i beniamini di casa, con il primo tifoso britannico, il premier Boris Johnson, gran sodale del plenipotenziario Uefa Aleksander Ceferin dopo averlo aiutato a disinnescare l'insidia politica della Superlega. La squadra di Gareth Southgate poi ha incassato un solo gol, in semifinale e su punizione. Ma, come ci si ricorda dai Mondiali 2006, giocare in uno stadio ostile dominato dai padroni di casa è uno stimolo esaltante. Matteo Berrettini godrà poi di una leggerezza ancora maggiore. In molti se lo immaginano travestito da Rocky Balboa quando, in piena fregola edonista reaganiana, si trovò di fronte il colosso Ivan Drago che lo fulminò con il leggendario: «Ti spiezzo in due». Per palmares e solidità di gioco, il trentaquattrenne serbo Novak Djokovic è un Drago infarcito del supporto di una nazione, la Serbia, dove siede alla destra del santo patrono: è il tennista che ha trascorso il maggior numero di settimane da numero uno al mondo nella storia, ha vinto Wimbledon 5 volte, un mese fa ha portato a casa il Roland Garros superando il terraiolo per eccellenza Rafa Nadal e sconfiggendo, non senza qualche grattacapo, proprio Berrettini nei quarti di finale. In più, sa recuperare palle improbabili rispedendole al mittende con traiettorie metafisiche. E però Matteo è approdato laddove nessun italiano della racchetta è mai giunto prima. Mai nessuno dei nostri ha vinto sull'erba del Queen's, tanto meno ha raggiunto una finale a Wimbledon servendo 100 ace nel torneo, sbarazzandosi con relativa facilità di avversari insidiosissimi. Per lui non si tratterà di avere qualcosa da perdere, ma di aver molto da guadagnare. A patto di sfoderare quella fluidità tipica non di un match decisivo, ma di una partita normale, di piazzare le prime di servizio con la stessa, impressionante percentuale di efficacia della semifinale con Hurkacz, quasi a dimenticarsi di essere un esordiente nel mondo delle finali del Grande Slam. Il resto lo farà la sorte. Non dimenticando qualche episodio goloso: sull'erba inglese, nel 1991, un semi sconosciuto Michael Stich prevalse sul connazionale Boris Becker, facendo saltare il banco di quotisti e allibratori. Ma anche: agli US Open 2000, il granatiere russo Marat Safin fece letteralmente impazzire lo strafavorito Pete Sampras, liquidandolo in tre set grazie al tennis, parole sue, «più lieve e libero da condizionamenti di sempre». A riprova, manco a dirlo, che è su Djokovic a pesare il fardello di non poter fallire. Così come è sulla nazionale inglese che si concentreranno tutte le attenzioni della polveriera di Wembley.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/azzurri-e-berrettini-obiettivo-zero-rimpianti-2653743385.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="formazione-confermata-in-blocco-il-ct-vogliamo-divertirci-ancora" data-post-id="2653743385" data-published-at="1625989757" data-use-pagination="False"> Formazione confermata in blocco. Il ct: «Vogliamo divertirci ancora» L'ora della verità è arrivata: stasera l'Italia alle 21 scende in campo a Wembley contro l'Inghilterra per la finale degli Europei. Si gioca nella tana del lupo, con tutti i pronostici contro: situazione ideale per gli azzurri di Roberto Mancini, che dovrebbe, per la prima volta in questo torneo, schierare la stessa formazione della gara precedente, la semifinale vinta ai rigori contro la Spagna. Salvo imprevisti, quindi, sarà questo il 4-3-3 di partenza: Donnarumma tra i pali; Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini e Emerson in difesa; Barella, Jorginho e Verratti a centrocampo; Chiesa, Immobile e Insigne davanti. Gareth Southgate si affiderà invece al 4-2-3-1: Pickford in porta; Walker, Stones, Maguire e Shaw in difesa ; Rice e Philips in mezzo al campo; Saka, Mount e Sterling alle spalle di Kane. Arbitrerà il fischietto olandese Bjorn Kuipers, classe 1973, coadiuvato dai connazionali Sander van Roekel e Erwin Zeinstra, mentre il quarto uomo sarà lo spagnolo Carlos del Cerro Grande. Al Var ci sarà il tedesco Bastian Dankert. Dopo la positività al Covid di Alberto Rimedio, la Rai ha assegnato la telecronaca della finale a Stefano Bizzotto, con il commento tecnico di Katia Serra. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sarà a Wembley come annunciato nei giorni scorsi. Gli azzurri hanno effettuato la rifinitura ieri sera, nel centro sportivo del Tottenham, non appena si è conclusa la conferenza stampa di Mancini: «Da giocatore azzurro», ha detto il mister, «non ho avuto la fortuna di vincere quel che avremmo meritato, né con l'Under 21 né al Mondiale 1990: spero di togliermi domani da ct quelle soddisfazioni che in nazionale mi sono mancate. Se i ragazzi vogliono divertirsi ancora, abbiamo gli ultimi 90 minuti per farlo. Ho definito all'inizio questa Italia divertente: lo ripeto oggi, e aggiungo sostanziosa. Non è mai stata facile, e i ragazzi l'hanno affrontata con grande forza. Possiamo giocare bene, fare una grande partita. Spero che la data possa essere importante per una seconda volta per gli italiani», ha aggiunto Mancini, «riferendosi alla conquista del Mondiale dell'Italia di Bearzot, l'11 luglio 1982 a Madrid. «Dobbiamo essere tranquilli. Sarà difficile, per tanti motivi», ha sottolineato Mancini, «ma dobbiamo esser concentrati sul nostro gioco e cercare di attuarlo al meglio. L'avversario? Gli inglesi hanno grande passione per il calcio come l'Italia, hanno sempre avuto grandi squadre come adesso. Sarà una bella gara davanti a uno stadio pieno e questo è meraviglioso per chi ama il calcio. Sarà un bel giorno per giocare una partita, sappiamo delle loro grandi qualità». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/azzurri-e-berrettini-obiettivo-zero-rimpianti-2653743385.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="lodissea-della-seconda-dose-per-gli-ex-malati" data-post-id="2653743385" data-published-at="1625989757" data-use-pagination="False"> L’odissea della seconda dose per gli ex malati Ieri avevo la seconda dose di vaccino Pfizer da fare, ma non mi sono presentata al centro dove ero prenotata per la somministrazione. No, non ho cambiato l'idea che mi sono fatta in questi mesi sui vaccini. Sono ancora sicura che siano l'unica strada per uscire da questa pandemia e fino a pochi giorni fa non vedevo l'ora di completare il vaccino per sentirmi più sicura, sia per me che per gli altri. Qualche giorno fa però ho avuto l'idea di farmi un test sierologico per misurare, con un semplice prelievo del sangue, la quantità di anticorpi contro il Covid-19 presenti nel mio corpo. Con una spesa di 35 euro scopro con mia grande soddisfazione di averne tanti, anzi tantissimi: 805,5 S-rbd. Quando ritiro il referto il medico mi dice «beata lei ne ha una tonnellata». Per capirci, molti sanitari che hanno fatto la doppia dose di Pfizer qualche mese fa, ora ne hanno 45/50 S-rbd. Mi spiegano che essendomi ammalata di Covid ad agosto dell'anno scorso e avendo fatto una dose di vaccino il mio organismo ne ha sviluppati molti altri. Bene penso, ma ora la seconda dose la devo fare o no? E qui inizia la mia odissea per trovare la risposta. Chiamo prima il numero verde di Regione Lombardia dedicato al coronavirus. L'operatore mi dice di sentire il Cts, il comitato tecnico scientifico per l'emergenza Covid, che a sua volta mi rimanda al numero verde. Quando richiamo, questa volta mi dicono di sentire il mio medico di famiglia. Chiamo allora il mio dottore di base, gli spiego che ho tantissimi anticorpi e gli pongo la fatidica domanda, devo o non devo fare la seconda dose? Mi consiglia di chiedere al centro vaccinale, mi dice che non può essere lui a decidere. Faccio così l'ennesima chiamata sperando sia quella che mi darà la soluzione definitiva. Un gentile dottore mi dice che sì, ho molti anticorpi ma che le linee guida della casa farmaceutica, nel mio caso Pfizer, dicono che una dose è prevista solo per i guariti nei 6 mesi precedenti al vaccino. Io sono guarita da un annoPoi aggiunge: «Detto tra noi, può avere un senso dal punto di vista clinico non farlo, ma non troverà mai nessun medico vaccinatore che si assuma la responsabilità di dirle “ok non facciamo la seconda dose perché dagli esami che mi ha portato vedo che non ne ha bisogno perché ha molti anticorpi"». Insomma io devo farmi un secondo vaccino non perché ne ho bisogno ma perché non ci sono delle linee guida che dicano di portare un test sierologico alle persone che hanno già avuto la malattia? Ma la sorpresa arriva alla fine perché mi dice: «Non fare la seconda dose genera una serie diproblematiche per quanto riguarda le prenotazioni. Se lei salta la dose il sistema non la riconosce più e si generano delle problematiche dal punto di vista burocratico e comunque non le rilasciano il green pass». Ora non so più che fare ma per fortuna mi ricordo che per lavoro ho il numero di un virologo di grande fama, così chiamo il professor Massimo Galli, responsabile malattie infettiveall'ospedale Sacco di Milano. Lui conciso mi dice: «Non lo faccia, non né ha bisogno». Dopo un'intera giornata di chiamate ho avuto finalmente una risposta definitiva e solo perché avevo il telefono della persona giusta. Il numero verde dedicato al Covid fornisce tante opzioni: la possibilità di cambiare la data per la prima dose, informazioni per la seconda ma solo per gli insegnanti. Insomma il mio caso non è contemplato anche se, come me, ci sono tante persone guarite che forse del secondo richiamo non ne hanno bisogno. Dimenticavo, quando ho cercato di disdire il mio appuntamento, per lasciare il posto ad un'altra persona, mi è stato detto che non è possibile cancellare. «Se uno non vuole andare semplicemente non si presenta», mi è stato risposto. Il test sierologico privatamente costa circa 30 euro, capisco che forse, far passare questoesame a tutti i guariti dal Covid-19 prima del vaccino, potrebbe essere dispendioso per lo Stato, ma così si stanno vaccinando persone che non ne hanno bisogno. Alla fine non mi sono fatta iniettare la seconda dose, non avrò però il mio agognato green pass e per il richiamo in autunno, che forse dovremmo fare, io finirò in fondo alla lista perché per lo Stato sono una rinunciataria.
In alto a sinistra una «Rettungsboje» tedesca. Sotto, la boa Asr-10 inglese e i rispettivi esplosi
Nei mesi della Battaglia di Inghilterra, iniziata nel luglio 1940 dopo la rapida caduta della Francia, la guerra aerea fu l’essenza della strategia da entrambe le parti. La Luftwaffe, con i suoi 2.500 velivoli in condizioni operative, superò inizialmente la Royal Air Force, che in quel periodo iniziò un enorme sforzo industriale per cercare di ridurre il «gap» numerico e tecnologico (nacquero in quel periodo i fortissimi caccia Hawker «Hurricane» e Supermarine «Spitfire» che saranno decisivi per l’esito finale della battaglia). Se le fabbriche sfornavano centinaia di velivoli al mese (i tedeschi con i Messerschmitt Bf 109, gli Heinkel 111 e i Dornier Do17), i comandi delle due aviazioni non potevano formare altrettanti piloti in così poco tempo, rendendo la figura dell’aviatore un bene preziosissimo da preservare il più possibile viste le ingenti perdite in battaglia. Un aspetto così delicato in un momento così drammatico per l’esito della guerra fu affrontato per primo dagli alti comandi della Luftwaffe. La necessità era quella di salvare il più alto numero di equipaggi in un teatro di operazioni principalmente localizzato nello specchio di mare della Manica, sopra il quale nel picco dei combattimenti dell’agosto 1940 volavano quotidianamente oltre 1.500 aerei.
La soluzione per il salvataggio degli aviatori in caso di ammaraggio con sopravvissuti venne da un ex asso della Grande Guerra, il generale di squadra aerea Ernst Udet. L’ufficiale, secondo solamente al «Barone Rosso» Manfred von Richtofen per numero di abbattimenti, era stato da poco nominato responsabile per la logistica e gli appalti della forza aerea del Terzo Reich. Fu nel picco delle operazioni dell’estate 1940 che Udet sviluppò la sua idea: una boa «abitabile», posizionata nei tratti di mare statisticamente più soggetti agli ammaraggi e ancorata al fondale. I piloti potevano leggerne la posizione sulle carte aeronautiche in dotazione. Di forma esagonale, la «Rettungsboje» (letteralmente boa di soccorso) aveva una superficie abitabile di 4 metri quadrati. Lo scafo aveva un’altezza di 2.5 metri ed era sovrastato da una torretta finestrata di ulteriori 1,8 metri. Verniciata in giallo, presentava una visibile croce rossa (standard della Convenzione di Ginevra) sui lati della torretta. All’interno dello scafo potevano trovare alloggio sicuro quattro aviatori, con due cuccette a castello ancorate alla struttura per rimanere stabili nel mare agitato. Riscaldata da una stufa ad alcool, la boa offriva razioni d’emergenza e acqua ma anche cognac, sigarette e carte da gioco. Negli armadi erano presenti il kit di primo soccorso ed abiti asciutti, mentre le comunicazioni erano fornite da una radio ricetrasmittente. All’interno c’erano anche una pompa per eventuali falle e un canotto per raggiungere i soccorsi una volta giunti nei pressi della boa. Completavano l’equipaggiamento razzi di segnalazione e una macchina per i fumogeni di emergenza. Il personale ospitato dalle boe poteva resistere protetto dall’ipotermia e dai marosi anche per una settimana nell’attesa che un idrovolante di soccorso o una nave li raggiungesse.
Circa 50 furono le «Rettungsbuoje» dislocate nella Manica, contribuendo al salvataggio di un numero imprecisato di aviatori. Gli inglesi realizzarono un mezzo simile nello stesso periodo, seppure molto differente nella forma. La boa ASR-10 (Air Sea Rescue Float) assomigliava molto ad un motoscafo, seppur priva di propulsore. Era studiata per facilitare l’accesso da parte dei naufraghi in balia delle onde, con la poppa digradante verso l’acqua. L’equipaggiamento era molto simile a quello della boa tedesca. Dipinta in rosso e arancio vivaci, fu realizzata in 16 esemplari ancorati nel braccio di mare tra Inghilterra e Francia tra il 1940 ed il 1941. Oggi un esemplare è conservato presso lo Scottish Maritime Museum.
Le boe tedesche, dopo la fine della Battaglia di Inghilterra, furono spostate presso le Channel Islands, il piccolo arcipelago occupato temporaneamente dai tedeschi e utilizzate come punti di vedetta o di difesa dopo essere state munite di una mitragliatrice. A causa della loro vulnerabilità furono quasi tutte affondate dagli aerei della Raf. Un esemplare recuperato nel 2020 dopo essere rimasto per decenni arenato e insabbiato a Terschelling nelle isole Frisone occidentali è conservato al «Bunkermuseum» dell’isola olandese.
Ernst Udet, dopo l’esito infausto della Battaglia d’Inghilterra per la Luftwaffe, già in preda all’alcolismo cadde in depressione. Si tolse la vita a Berlino il 17 novembre 1941, forse anche per le conseguenze della pressione psicologica che Hermann Göring esercitò sull’ufficiale dell’aeronautica addossandogli la responsabilità della sconfitta.
Continua a leggereRiduci
Stanno comparendo in diverse città italiane, graditi soprattutto alle giunte di centro sinistra e in particolare ai fanatici delle zone con limitazione di traffico a 30kmh. Basta una nottata e grazie a una serie di tasselli inseriti nell’asfalto l’installazione è fatta. Tutto bello? Non proprio: a ben guardare la normativa riguardante tale soluzione è Incompleta, poiché In Italia non sono previsti nel dettaglio dal Codice della Strada e questo rende la loro adozione più complicata sul pano della burocrazia. In pratica, per ora la loro installazione avviene solo tramite sperimentazione autorizzata dal Ministero dei Trasporti. Ci sono poi alcune questioni tecniche: andrebbero installati soltanto sulle strade con bassa densità di traffico e, appunto, laddove il limite è già 30 km/h, e questo giocoforza li rende una soluzione praticabile soltanto in alcune zone. Inoltre, i cuscini berlinesi devono essere posizionati a una distanza tale da curve e incroci per permettere ai veicoli più grandi di potersi raddrizzare completamente dopo aver effettuato la svolta prima di valicarli. Il peggio però è altro: se chi è distratto da aver superato di poco il limite, finendoci sopra rischia di danneggiare la vettura e ciò accadrà ancora di più se essa è poco rialzata da terra. Ma se la distrazione o le condizioni psicofisiche del conducente sono alterate al punto che egli non si sta rendendo conto della sua velocità, e questa è elevata, egli può facilmente perdere il controllo, ad andare bene finendo per sbattere contro altri mezzi, peggio finendo per travolgere delle persone. E non mancano neppure i problemi di manutenzione, poiché nel tempo si usurano a causa delle pressioni ma anche dell’irraggiamento solare e degli sbalzi di temperatura. Laddove sono stati applicati in modo diffuso è in Francia e nel Regno Unito, nazioni che ne hanno definito le specifiche riprendendo a loro volta quelle tedesche. Il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito già nel 1984 aveva fissato la pendenza massima degli elementi al 12,5% per le rampe longitudinali di ingresso e di uscita dai cuscini, ed il rapporto del 25% per le rampe trasversali laterali. Stando a quanto si trova online, la Francia prevede rampe longitudinali con pendenze molto più elevate: le rampe devono essere lunghe 20 cm per cuscini alti 5 cm (con una pendenza del 25%), 25 cm per cuscini alti 7 cm (con una pendenza del 28%). Rampe così ripide devono essere adottate con cautela: indagini condotte dal Dipartimento dei trasporti britannico hanno mostrato che, con rampe longitudinali dalla pendenza maggiore del 17%, i veicoli rischiavano di toccare il con il fondo riportando seri danni: dalla distruzione dell’impianto di scarico fino alla rottura della coppa dell’olio con annesso sversamento del fluido e inquinamento. Di conseguenza essi devono essere particolarmente ben segnalati – tipicamente con verniciature gialle – ma anche tale caratteristica tende ovviamente a degradarsi con il tempo. E stante il livello di manutenzione delle nostre strade è facile prevedere che dovremo confidare nell’attenzione di chi guida e nell’illuminazione pubblica. Una delle questioni è anche come gli automobilisti reagiscono quando si accorgono in ritardo della loro presenza: frenate improvvise e repentine deviazioni di traiettoria sono all’ordine del giorno. Stando ai dati raccolti dalle municipalità che in Europa li stanno utilizzando da tempo la velocità media di superamento dei cuscini berlinesi di è di poco superiore ai 22 km/h per larghezze di 1,9 metri, mentre sale a 30 km/h per quelli più stretti, che quindi provocano nei conducenti meno apprensione per l’impatto sotto gli pneumatici. E di conseguenza illudono che l’effetto di un attraversamento accelerato sia inferiore. Invece il botto è garantito. Pur sapendo che taluni lettori non saranno d’accordo, chi scrive pensa che la sicurezza (stradale in primis), nasca dalla cultura della consapevolezza e non dalle costrizioni. E che più una strada è sgombra, più ridotto è il rischio di fare incidenti.
Continua a leggereRiduci
Giovanni Malagò (Getty Images)
Adesso si trova in Campania, dopo esser passata tra Lazio, Umbria Toscana, Sardegna, Sicilia e Calabria. Molte regioni verranno ripercorse di nuovo, in lungo e in largo. Il 26 gennaio tornerà invece, dopo 70 anni esatti dalla Cerimonia d’Apertura dei Giochi, a Cortina d’Ampezzo e concluderà il suo tragitto a Milano facendo il suo ingresso allo Stadio di San Siro, la sera di venerdì 6 febbraio 2026. 10.000 tedofori la stanno conducendo tra volti noti e persone comuni. I primi volti noti dello spettacolo e dello sport sono il cantante Achille Lauro, Flavia Pennetta, icona del nostro tennis, vincitrice degli US Open 2015 e di 4 Billie Jean King Cup e Francesco Bagnaia, due volte campione del mondo di MotoGP e una in Moto2. Tantissimi altri ancora e altri ce ne saranno. Anche perché la storia del Viaggio della Fiamma è piena di leggende, come Muhammad Alì ad Atlanta 1996, Cathy Freeman a Sydney 2000 e poi ancora la fondista Stefania Belmondo, ultima tedofora di Torino 2006 vent’anni fa nell’ultima edizione invernale italiana, dopo le frazioni di altri campioni olimpici azzurri come Alberto Tomba, Manuela Di Centa, Silvio Fauner e Deborah Compagnoni (nella foto di copertina). Quattro anni prima, invece, l’intera squadra statunitense di hockey maschile del “Miracolo sul ghiaccio” di Lake Placid 1980 che accese il braciere di Salt Lake City 2002 tra la commozione del pubblico statunitense.
La fiamma olimpica nasce con le prime olimpiadi nell'antica Grecia, dove il fuoco sacro ardeva in onore degli dèi durante i Giochi originali. La tradizione moderna è stata reintrodotta con l'accensione del braciere ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928 e la prima staffetta della torcia a Berlino nel 1936. Le torce di #MilanoCortina2026 sono un omaggio al design italiano con uno stile che mette al centro la fiamma. Eleganti. Iconiche. Sostenibili. Si chiamano Essential e portano con sé lo spirito dei Giochi che verranno.
La fiamma paralimpica partirà invece il 24 febbraio 2026 e si concluderà il 6 marzo 2026, giorno della cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici all’Arena di Verona. Sfilerà nelle mani di 501 tedofori per 2.000 chilometri in 11 giorni. “La fiamma paralimpica verrà accesa il 24 febbraio a Stoke Mandeville in Inghilterra, storico luogo di nascita dello sport Paralitico - dichiara Maria Laura Iascone, Ceremonies Director di Fondazione Milano Cortina 2026 -. L’arrivo in Italia coinciderà con l’inizio di un viaggio che focalizzerà l’attenzione e l’entusiasmo verso le Paralimpiadi, amplificandone i messaggi di rispetto e inclusività, e generando un volano di entusiasmo, attesa e partecipazione intorno agli atleti paralimpici”. Dopo l'accensione nel Regno Unito, la fiamma paralimpica animerà 5 Flame Festival dal 24 febbraio al 2 marzo a Milano, Torino, Bolzano, Trento e Trieste, con la cerimonia di unione delle Fiamme il 3 marzo a Cortina d’Ampezzo. Dal 4 marzo, la fiamma raggiungerà Venezia e Padova, per fare il suo ingresso il 6 marzo all’Arena di Verona per la cerimonia di apertura dei Giochi paralimpici.
Continua a leggereRiduci
iStock
Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
Continua a leggereRiduci