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2025-01-11
Autobianchi: storia di una casa sempre all'avanguardia
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Una Autobianchi «Bianchina» cabriolet (Getty Images)
Erano passati quarant’anni dalla sua fondazione quando, alla fine di ottobre del 1995, la Autobianchi scomparve dal mercato, lasciando il nome della sua ultima gloria, la «Y10», alla sorella Lancia. In quattro decenni, la casa lombarda aveva contribuito in modo determinante alla motorizzazione di massa del Paese, sin dagli albori del «boom» economico. L’avventura automobilistica del nuovo marchio, nato 10 anni dopo la fine della guerra, aveva origini più lontane. Prendeva il nome dalla Edoardo Bianchi, uno dei capisaldi dell’industria lombarda, che si era distinta inizialmente nella costruzione di biciclette tecnologicamente all’avanguardia (della Bianchi furono il primo freno anteriore e la trasmissione a cardano per i velocipedi) alle quali si sarebbero presto affiancati le motociclette, le automobili e i camion. La produzione della fabbrica milanese fu protagonista nelle due guerre con i mezzi militari e dal 1937 fu attiva anche nel nuovo stabilimento di Desio in Brianza. La sede storica di viale Abruzzi a Milano fu invece rasa al suolo dai bombardamenti alleati, venendo ricostruita solamente nel 1950. Nei primi anni dopo il conflitto, la produzione Bianchi era ripresa con le biciclette e le moto, nel crescente settore dei motori ausiliari dove la casa milanese si aggiudicò una buona fetta di mercato con l’«Aquilotto». La produzione di automobili, ancora antieconomica in quegli anni di crisi postbellica, fu invece abbandonata a favore di quella dei camion, che nei primi anni Cinquanta sfornò gli autocarri «Filarete», «Visconteo» «Sforzesco» e «Fiumaro». L’occasione per ritornare nel mondo dell’auto capitò nel 1955, esattamente a novant’anni dalla nascita del fondatore, l’orfano dei Martinitt e self-made man Edoardo Bianchi, scomparso in un incidente stradale nel 1946. Per iniziativa dell’ingegner Ferruccio Quintavalle, già noto per essere stato campione di tennis negli anni Trenta e nipote del grande architetto Piero Portaluppi, i vertici della Bianchi tra cui l’erede di Edoardo Giuseppe «Peppino» Bianchi, proposero a Fiat e Pirelli una joint-venture per la produzione di automobili utilitarie da affiancare nel futuro a quella già in produzione a Torino, la «600». Fiat e Pirelli aderirono con la prospettiva di poter ulteriormente allargare la propria fetta di mercato sia per l’offerta di modelli che per la fornitura di pneumatici. L’accordo fu formalmente siglato a Milano l’11 gennaio 1955 e la sede provvisoria di viale Abruzzi, dove sorgevano i primi stabilimenti della Edoardo Bianchi fu in seguito spostata in piazza Duca d’Aosta proprio di fronte al grattacielo Pirelli. La prima vettura con il marchio Autobianchi verrà presentata due anni dopo la firma dell’accordo, costruita sulla base meccanica della nuova utilitaria fiat «500» lanciata quell’anno, il 1957. La «Bianchina», battezzata così in onore della prima vettura Bianchi, fu disegnata nel reparto carrozzerie speciali della Fiat con l’apporto dell’ingegner Luigi Rapi. Il risultato fu eccellente. Quando fu svelata al pubblico nel settembre 1957 la prima vetturetta Autobianchi colpì per l’eleganza delle forme, per la cura degli interni, che la facevano assomigliare a una berlina di categoria superiore. Questa della piccola di Desio sarà la formula che accompagnerà gran parte della produzione di successo della Autobianchi: «piccola e bella», utilitaria ma raffinata e quasi snob. Spinta dal motore bicilindrico raffreddato ad aria della «500» prima serie da soli 15 Cv, la «Bianchina» non aveva certo velleità sportive ma sicuramente si distingueva dalla sorella che le aveva donato la meccanica. Simile a una mini auto americana nelle forme tipiche del decennio, come le pinne che inglobavano i gruppi ottici posteriori, ricca di cromature esterne ed interne, la piccola di Desio fu declinata in varie configurazioni durante gli anni di produzione dal 1957 al 1969. Alla berlinetta si affiancarono la trasformabile, quasi una piccola roadster, la convertibile cabriolet, la panoramica (quasi una mini station wagon), il furgoncino (anche nella versione a tetto alto).
Nasce la «Primula», fiore della tecnica del futuro
Il successo della «Bianchina», costruita in oltre 300mila esemplari nelle varie versioni che videro anche il propulsore aumentato alla potenza di 21 Cv durante la produzione, fu la base che consolidò il marchio sul quale l’azionista Fiat punterà per applicare innovazioni e sperimentare soluzioni che verranno poi utilizzate sui modelli della casa del Lingotto. Caso più evidente, quello della berlina media «Primula», un vero e proprio concentrato di innovazioni che diventeranno poi standard nella successiva produzione Fiat. Nata nel 1964 e simile per estetica alla inglese Austin A40, la nuova Autobianchi aveva la trazione anteriore. Questa soluzione era stata applicata sperimentalmente a Torino negli anni Trenta, ma a causa di un incidente in collaudo che coinvolse il fondatore della Fiat, Giovanni Agnelli senior, era stata accantonata. Trent’anni più tardi la casa torinese decise di provarla nuovamente sfruttando il marchio della controllata Autobianchi. La «Primula» montava il motore in senso trasversale e aveva il cambio a lato del propulsore all’anteriore, il che necessitava della nuova soluzione dei semiassi di lunghezza differente. Le sospensioni erano a ruote indipendenti del tipo McPherson e il motore inizialmente quello della Fiat 1100D. Ottime finiture interne completavano la nuova berlina di Desio, che fu offerta anche in versione «fastback» ossia con portellone posteriore, soluzione che sarà particolarmente apprezzata sul mercato francese. Dotata per prima dello sterzo a cremagliera, la nuova berlina era caratterizzata da una tenuta di strada nettamente superiore alle altre auto a trazione posteriore, la maggior parte di quelle in produzione all’eopca. Nel 1968 la motorizzazione ebbe un’evoluzione con l’adozione del propulsore delle «124» Fiat, sia da 1,2 che da 1,4 litri per 75Cv di potenza ad equipaggiare la Coupè S, versione sportiveggiante. La «Primula» rimase in produzione fino al 1970 per un totale di 75mila esemplari, ma fu soprattutto la sua eredità tecnica a rimanere come standard nella successiva produzione Fiat. La sua configurazione meccanica fu adottata nel 1967 da uno dei furgoni più diffusi sul mercato, il «238» e in seguito sul grande successo di vendite degli anni Settanta, la Fiat «128».
Lo spirito innovativo del marchio Autobianchi trovò realizzazione, nei primi anni Sessanta, in una piccola spider che prese gli organi meccanici della popolare Fiat «600D». Battezzata «Stellina», fu presentata ne 1963. La piccola scoperta era la prima vettura con carrozzeria in fiberglass, materiale plastico ancora in fase sperimentale nelle varie applicazioni. Prodotta in soli 500 esemplari, uscì di produzione appena due anni dopo il lancio in quanto fortemente penalizzata dalle scarse prestazioni del motore Fiat da soli 29 Cv, in contrasto con la linea sportiva della carrozzeria.
L’uscita della Pirelli, l’autunno caldo e la seconda vita di Autobianchi
Il 1968 fu in tutti i sensi uno spartiacque per la casa di Desio, con l’uscita della Pirelli dal capitale azionario che significò il controllo totale da parte di Fiat. Parallelamente, la lunga stagione di rivendicazioni dell’autunno caldo inizierà ad accompagnare la storia della fabbrica lombarda, che si apprestava ad entrare in una fase nuova non priva di successi commerciali ma caratterizzata da una sempre minore indipendenza dalla casa madre torinese. Tuttavia gli anni Settanta si apriranno con un nuovo grande successo Autobianchi. La «Bianchina» nel 1969 fu tolta dalla produzione essendo ormai un progetto obsoleto. Al suo posto, sulla stessa meccanica, la casa lombarda ereditò da fiat la «Giardiniera», una fiat «500» familiare o furgonata che fu prodotta nello stabilimento autobianchi fino al 1977. Sull’onda dell’innovazione tecnica varata dalla «Primula» (che fu sostituita per soli 4 anni dalla berlina A111) il marchio di Desio tornò all’assalto nel mercato delle utilitarie, avendo la necessità di contrastare il grande successo della «Mini» prodotta su licenza dalla Innocenti di Lambrate. Furono queste le premesse della nuova A112, una compatta citycar dalle velleità sportiveggianti che adottava la filosofia del «tutto avanti» a vantaggio di stabilità e abitabilità. Il propulsore fu ancora una volta innovativo, installato in grande serie sulla A112 prima di diventare uno dei motori più utilizzati dalla Fiat, il 903cc che sarà il cavallo di battaglia a partire dalla 127 del 1971. In linea con la filosofia del marchio, la piccola tre porte con portellone posteriore presentava finiture e accessori superiori alle concorrenti, in diversi allestimenti e motorizzazioni tra cui spiccherà la pepatissima Abarth, sogno dei giovani a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Prodotta in ben otto serie dal 1969 al 1986, la A112 costituì la spina dorsale produttiva della fabbrica brianzola alla quale la Fiat affiancò la produzione in linea della coeva Panda a partire dal 1980 in un’ottica di sfruttamento massimo delle risorse produttive, mentre l’innovazione tecnologica costituita dalla grande automatizzazione degli anni Ottanta non toccò se non marginalmente gli stabilimenti di Desio, creando progressive tensioni tra la dirigenza torinese e le maestranze Autobianchi che si protrassero fino alla chiusura degli impianti anni più tardi. La A112 fu prodotta senza sosta in oltre 1 milione e 200mila esemplari.
L’ultimo atto, dal 1986 al 1992 fu rappresentato a Desio dalla erede della A112, una «piccola chic» che ebbe un notevole successo di mercato non solo in Italia ma anche negli altri Paesi europei. E una volta ancora fu banco di prova per un motore che sarà assoluto protagonista negli anni Novanta, il «Fire» di 999cc. La Y10, per volontà del gruppo Fiat imparentata con Lancia (le lettere dell’alfabeto greco erano caratteristiche dei modelli di Chivasso) era una due volumi dalla forte linea a cuneo, caratterizzata da una coda tronca che permetteva un coefficiente aerodinamico ottimale. L’azienda puntò sul lusso, presentando la nuova nata come una piccola ammiraglia: strumentazione completa, accessori di serie, interni in lussuosa alcantara e nuovo propulsore economico e scattante. Commercializzata nel 1985, la nuova citycar inizialmente stentò a raggiungere i livelli della A112 a causa del prezzo troppo elevato di listino, gravato dalla presenza di accessori di categoria superiore. Fu così che poco dopo il lancio i vertici aziendali rividero la gamma semplificando ma non modificando la natura della piccola cittadina snob, lanciando parallelamente una nuova campagna il cui slogan «Y10: piace alla gente che piace» entrò nel lessico nazionale. Come nel caso della precedente A112 la Y10 ebbe molte versioni e altrettanti allestimenti legati a diverse motorizzazioni in tre serie e fu l’ultimo successo di Desio. Commercializzata in quasi tutti i mercati esteri con il nome di «Lancia Y10», vide anche una versione 4x4 su meccanica Panda (dalla quale la Y10 derivava il pianale) e una spintissima Turbo (da 85cv per 180 km/h). L’ultimo restyling fu realizzato nel 1992, quando il destino del marchio lombardo era ormai segnato. Nello stesso anno, dopo un lungo periodo di trattative e lunghi scioperi la Autobianchi di Desio chiuse per sempre i cancelli, ritenuta antieconomica per i vertici del Lingotto ormai proiettati verso un futuro fatto di delocalizzazione. La Y10 continuò ad essere prodotta ancora per tre anni nel vicino stabilimento Alfa Romeo di Arese. Nel 1995 ebbe un’erede, ma era marchiata Lancia e si chiamò solo Y. La grande «A» stilizzata, che aveva partecipato alla motorizzazione di massa con i suoi eleganti modelli, che aveva saputo innovare in modo decisivo la tecnica automobilistica della casa madre Fiat e che era sopravvissuta alla crisi energetica degli anni ’70 per rimanere protagonista nei «ruggenti» Ottanta, scompariva nella «scighera» di quella Brianza che l’aveva vista nascere ormai 70 anni fa.
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Riduci
L'11 gennaio 1955 nacque dal consorzio Bianchi-Fiat-Pirelli. Fu una fucina che il Lingotto usò come apripista per i suoi modelli di grande serie. A Desio nacquero «Bianchina», «A112» e «Y10». Sparì nel 1995.Erano passati quarant’anni dalla sua fondazione quando, alla fine di ottobre del 1995, la Autobianchi scomparve dal mercato, lasciando il nome della sua ultima gloria, la «Y10», alla sorella Lancia. In quattro decenni, la casa lombarda aveva contribuito in modo determinante alla motorizzazione di massa del Paese, sin dagli albori del «boom» economico. L’avventura automobilistica del nuovo marchio, nato 10 anni dopo la fine della guerra, aveva origini più lontane. Prendeva il nome dalla Edoardo Bianchi, uno dei capisaldi dell’industria lombarda, che si era distinta inizialmente nella costruzione di biciclette tecnologicamente all’avanguardia (della Bianchi furono il primo freno anteriore e la trasmissione a cardano per i velocipedi) alle quali si sarebbero presto affiancati le motociclette, le automobili e i camion. La produzione della fabbrica milanese fu protagonista nelle due guerre con i mezzi militari e dal 1937 fu attiva anche nel nuovo stabilimento di Desio in Brianza. La sede storica di viale Abruzzi a Milano fu invece rasa al suolo dai bombardamenti alleati, venendo ricostruita solamente nel 1950. Nei primi anni dopo il conflitto, la produzione Bianchi era ripresa con le biciclette e le moto, nel crescente settore dei motori ausiliari dove la casa milanese si aggiudicò una buona fetta di mercato con l’«Aquilotto». La produzione di automobili, ancora antieconomica in quegli anni di crisi postbellica, fu invece abbandonata a favore di quella dei camion, che nei primi anni Cinquanta sfornò gli autocarri «Filarete», «Visconteo» «Sforzesco» e «Fiumaro». L’occasione per ritornare nel mondo dell’auto capitò nel 1955, esattamente a novant’anni dalla nascita del fondatore, l’orfano dei Martinitt e self-made man Edoardo Bianchi, scomparso in un incidente stradale nel 1946. Per iniziativa dell’ingegner Ferruccio Quintavalle, già noto per essere stato campione di tennis negli anni Trenta e nipote del grande architetto Piero Portaluppi, i vertici della Bianchi tra cui l’erede di Edoardo Giuseppe «Peppino» Bianchi, proposero a Fiat e Pirelli una joint-venture per la produzione di automobili utilitarie da affiancare nel futuro a quella già in produzione a Torino, la «600». Fiat e Pirelli aderirono con la prospettiva di poter ulteriormente allargare la propria fetta di mercato sia per l’offerta di modelli che per la fornitura di pneumatici. L’accordo fu formalmente siglato a Milano l’11 gennaio 1955 e la sede provvisoria di viale Abruzzi, dove sorgevano i primi stabilimenti della Edoardo Bianchi fu in seguito spostata in piazza Duca d’Aosta proprio di fronte al grattacielo Pirelli. La prima vettura con il marchio Autobianchi verrà presentata due anni dopo la firma dell’accordo, costruita sulla base meccanica della nuova utilitaria fiat «500» lanciata quell’anno, il 1957. La «Bianchina», battezzata così in onore della prima vettura Bianchi, fu disegnata nel reparto carrozzerie speciali della Fiat con l’apporto dell’ingegner Luigi Rapi. Il risultato fu eccellente. Quando fu svelata al pubblico nel settembre 1957 la prima vetturetta Autobianchi colpì per l’eleganza delle forme, per la cura degli interni, che la facevano assomigliare a una berlina di categoria superiore. Questa della piccola di Desio sarà la formula che accompagnerà gran parte della produzione di successo della Autobianchi: «piccola e bella», utilitaria ma raffinata e quasi snob. Spinta dal motore bicilindrico raffreddato ad aria della «500» prima serie da soli 15 Cv, la «Bianchina» non aveva certo velleità sportive ma sicuramente si distingueva dalla sorella che le aveva donato la meccanica. Simile a una mini auto americana nelle forme tipiche del decennio, come le pinne che inglobavano i gruppi ottici posteriori, ricca di cromature esterne ed interne, la piccola di Desio fu declinata in varie configurazioni durante gli anni di produzione dal 1957 al 1969. Alla berlinetta si affiancarono la trasformabile, quasi una piccola roadster, la convertibile cabriolet, la panoramica (quasi una mini station wagon), il furgoncino (anche nella versione a tetto alto).Nasce la «Primula», fiore della tecnica del futuroIl successo della «Bianchina», costruita in oltre 300mila esemplari nelle varie versioni che videro anche il propulsore aumentato alla potenza di 21 Cv durante la produzione, fu la base che consolidò il marchio sul quale l’azionista Fiat punterà per applicare innovazioni e sperimentare soluzioni che verranno poi utilizzate sui modelli della casa del Lingotto. Caso più evidente, quello della berlina media «Primula», un vero e proprio concentrato di innovazioni che diventeranno poi standard nella successiva produzione Fiat. Nata nel 1964 e simile per estetica alla inglese Austin A40, la nuova Autobianchi aveva la trazione anteriore. Questa soluzione era stata applicata sperimentalmente a Torino negli anni Trenta, ma a causa di un incidente in collaudo che coinvolse il fondatore della Fiat, Giovanni Agnelli senior, era stata accantonata. Trent’anni più tardi la casa torinese decise di provarla nuovamente sfruttando il marchio della controllata Autobianchi. La «Primula» montava il motore in senso trasversale e aveva il cambio a lato del propulsore all’anteriore, il che necessitava della nuova soluzione dei semiassi di lunghezza differente. Le sospensioni erano a ruote indipendenti del tipo McPherson e il motore inizialmente quello della Fiat 1100D. Ottime finiture interne completavano la nuova berlina di Desio, che fu offerta anche in versione «fastback» ossia con portellone posteriore, soluzione che sarà particolarmente apprezzata sul mercato francese. Dotata per prima dello sterzo a cremagliera, la nuova berlina era caratterizzata da una tenuta di strada nettamente superiore alle altre auto a trazione posteriore, la maggior parte di quelle in produzione all’eopca. Nel 1968 la motorizzazione ebbe un’evoluzione con l’adozione del propulsore delle «124» Fiat, sia da 1,2 che da 1,4 litri per 75Cv di potenza ad equipaggiare la Coupè S, versione sportiveggiante. La «Primula» rimase in produzione fino al 1970 per un totale di 75mila esemplari, ma fu soprattutto la sua eredità tecnica a rimanere come standard nella successiva produzione Fiat. La sua configurazione meccanica fu adottata nel 1967 da uno dei furgoni più diffusi sul mercato, il «238» e in seguito sul grande successo di vendite degli anni Settanta, la Fiat «128». Lo spirito innovativo del marchio Autobianchi trovò realizzazione, nei primi anni Sessanta, in una piccola spider che prese gli organi meccanici della popolare Fiat «600D». Battezzata «Stellina», fu presentata ne 1963. La piccola scoperta era la prima vettura con carrozzeria in fiberglass, materiale plastico ancora in fase sperimentale nelle varie applicazioni. Prodotta in soli 500 esemplari, uscì di produzione appena due anni dopo il lancio in quanto fortemente penalizzata dalle scarse prestazioni del motore Fiat da soli 29 Cv, in contrasto con la linea sportiva della carrozzeria.L’uscita della Pirelli, l’autunno caldo e la seconda vita di AutobianchiIl 1968 fu in tutti i sensi uno spartiacque per la casa di Desio, con l’uscita della Pirelli dal capitale azionario che significò il controllo totale da parte di Fiat. Parallelamente, la lunga stagione di rivendicazioni dell’autunno caldo inizierà ad accompagnare la storia della fabbrica lombarda, che si apprestava ad entrare in una fase nuova non priva di successi commerciali ma caratterizzata da una sempre minore indipendenza dalla casa madre torinese. Tuttavia gli anni Settanta si apriranno con un nuovo grande successo Autobianchi. La «Bianchina» nel 1969 fu tolta dalla produzione essendo ormai un progetto obsoleto. Al suo posto, sulla stessa meccanica, la casa lombarda ereditò da fiat la «Giardiniera», una fiat «500» familiare o furgonata che fu prodotta nello stabilimento autobianchi fino al 1977. Sull’onda dell’innovazione tecnica varata dalla «Primula» (che fu sostituita per soli 4 anni dalla berlina A111) il marchio di Desio tornò all’assalto nel mercato delle utilitarie, avendo la necessità di contrastare il grande successo della «Mini» prodotta su licenza dalla Innocenti di Lambrate. Furono queste le premesse della nuova A112, una compatta citycar dalle velleità sportiveggianti che adottava la filosofia del «tutto avanti» a vantaggio di stabilità e abitabilità. Il propulsore fu ancora una volta innovativo, installato in grande serie sulla A112 prima di diventare uno dei motori più utilizzati dalla Fiat, il 903cc che sarà il cavallo di battaglia a partire dalla 127 del 1971. In linea con la filosofia del marchio, la piccola tre porte con portellone posteriore presentava finiture e accessori superiori alle concorrenti, in diversi allestimenti e motorizzazioni tra cui spiccherà la pepatissima Abarth, sogno dei giovani a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Prodotta in ben otto serie dal 1969 al 1986, la A112 costituì la spina dorsale produttiva della fabbrica brianzola alla quale la Fiat affiancò la produzione in linea della coeva Panda a partire dal 1980 in un’ottica di sfruttamento massimo delle risorse produttive, mentre l’innovazione tecnologica costituita dalla grande automatizzazione degli anni Ottanta non toccò se non marginalmente gli stabilimenti di Desio, creando progressive tensioni tra la dirigenza torinese e le maestranze Autobianchi che si protrassero fino alla chiusura degli impianti anni più tardi. La A112 fu prodotta senza sosta in oltre 1 milione e 200mila esemplari.L’ultimo atto, dal 1986 al 1992 fu rappresentato a Desio dalla erede della A112, una «piccola chic» che ebbe un notevole successo di mercato non solo in Italia ma anche negli altri Paesi europei. E una volta ancora fu banco di prova per un motore che sarà assoluto protagonista negli anni Novanta, il «Fire» di 999cc. La Y10, per volontà del gruppo Fiat imparentata con Lancia (le lettere dell’alfabeto greco erano caratteristiche dei modelli di Chivasso) era una due volumi dalla forte linea a cuneo, caratterizzata da una coda tronca che permetteva un coefficiente aerodinamico ottimale. L’azienda puntò sul lusso, presentando la nuova nata come una piccola ammiraglia: strumentazione completa, accessori di serie, interni in lussuosa alcantara e nuovo propulsore economico e scattante. Commercializzata nel 1985, la nuova citycar inizialmente stentò a raggiungere i livelli della A112 a causa del prezzo troppo elevato di listino, gravato dalla presenza di accessori di categoria superiore. Fu così che poco dopo il lancio i vertici aziendali rividero la gamma semplificando ma non modificando la natura della piccola cittadina snob, lanciando parallelamente una nuova campagna il cui slogan «Y10: piace alla gente che piace» entrò nel lessico nazionale. Come nel caso della precedente A112 la Y10 ebbe molte versioni e altrettanti allestimenti legati a diverse motorizzazioni in tre serie e fu l’ultimo successo di Desio. Commercializzata in quasi tutti i mercati esteri con il nome di «Lancia Y10», vide anche una versione 4x4 su meccanica Panda (dalla quale la Y10 derivava il pianale) e una spintissima Turbo (da 85cv per 180 km/h). L’ultimo restyling fu realizzato nel 1992, quando il destino del marchio lombardo era ormai segnato. Nello stesso anno, dopo un lungo periodo di trattative e lunghi scioperi la Autobianchi di Desio chiuse per sempre i cancelli, ritenuta antieconomica per i vertici del Lingotto ormai proiettati verso un futuro fatto di delocalizzazione. La Y10 continuò ad essere prodotta ancora per tre anni nel vicino stabilimento Alfa Romeo di Arese. Nel 1995 ebbe un’erede, ma era marchiata Lancia e si chiamò solo Y. La grande «A» stilizzata, che aveva partecipato alla motorizzazione di massa con i suoi eleganti modelli, che aveva saputo innovare in modo decisivo la tecnica automobilistica della casa madre Fiat e che era sopravvissuta alla crisi energetica degli anni ’70 per rimanere protagonista nei «ruggenti» Ottanta, scompariva nella «scighera» di quella Brianza che l’aveva vista nascere ormai 70 anni fa.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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