2022-12-01
Aula e Giorgetti allontanano il ricatto Mes
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
La Camera approva, col parere positivo del governo, la mozione che chiede di non ratificare (per ora) la riforma del Salvastati. Una mossa sacrosanta, anche perché il sì rafforzerebbe i parametri del Patto di stabilità che tutti dicono di voler cambiare.Il pressing sul Mes per ora è saltato. Malgrado i numerosi «pizzini» dall’estero e dall’interno del Paese per la ratifica alla riforma del Fondo cosiddetto Salvastati, ieri la maggioranza ha impegnato il governo consolidando la posizione già espressa nelle scorse settimane dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: fermi tutti. Se l’esponente leghista aveva chiarito che non aveva senso procedere in pendenza del pronunciamento della Corte di Karlsruhe, il mandato dell’Aula chiede all’esecutivo di «non ratificare il disegno di legge di ratifica della riforma del Trattato istitutivo del Mes alla luce dello stato dell’arte della procedura di ratifica in altri Stati membri e della relativa incidenza sull’evoluzione del quadro regolatorio europeo». Un testo - sottoscritto da tutte le forze della maggioranza - cauto che, evitando posizioni muscolari contro le istituzioni europee, marca un «no» inequivoco.Il tema resta paradossalmente inattuale e caldissimo: lo dimostra anche il confuso assedio che soprattutto Iv e Azione hanno mosso chiedendo una surreale adozione del «Mes sanitario», favoleggiando di una pioggia di miliardi che ci verrebbero regalati se solo - come sostengono Matteo Renzi e i suoi - l’Italia non avesse un atteggiamento «ideologico». Qui occorre fare chiarezza: le pressioni sull’Italia non sono per l’adozione delle linee di credito del Mes (che comunque implicherebbero condizioni e vigilanza aggiuntive rispetto a quelle - già onerose - del Pnrr), ma per la ratifica della sua riforma. Un processo apertosi anni fa, e il dissidio sul quale fu uno dei punti di rottura tra Lega e M5s nel 2019. Successivamente, l’asse Pd-M5s permise di arrivare a una ambigua risoluzione parlamentare in base alla quale l’allora ministro Roberto Gualtieri di fatto diede l’assenso del nostro Paese mentre Giuseppe Conte parlava di una «logica di pacchetto» i cui doni - Unione bancaria anzitutto - restarono lettera morta. In cosa consiste questa riforma? Per farla breve, rende i fondi del Mes utilizzabili come «backstop», cioè garanzia, per le banche in crisi: per questo, polemizzando, l’ex ministro Giulio Tremonti denunciava su queste colonne la possibile trasformazione in «salva banche». Ma la condizione per l’utilizzo è che le finanze dei Paesi siano in linea con i parametri del Patto di stabilità. Ciò spaccherebbe gli Stati in serie A e B, con evidenti ripercussioni sulla tenuta dei debiti che aprirebbe al rischio di una devastante ristrutturazione degli stessi. Un rischio che venne denunciato non da pericolosi anti europeisti ma da un certo Ignazio Visco, che in un convegno ebbe a tal proposito a denunciare: «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere bilanciati con il rischio enorme che il semplice annuncio di una sua ristrutturazione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default, le quali potrebbero rilevarsi autoavveranti».Dal punto di vista della coerenza politica, dopo la torsione grillina della scorsa legislatura (il M5s aveva l’abolizione del Mes nel programma e sostenne la sua ratifica peggiorativa), va salutato come positivo in sé l’allineamento tra la posizione sempre dichiarata dal centrodestra (Giorgia Meloni in testa) e le conseguenti azioni al governo e in Aula. Ieri a Montecitorio il sottosegretario al Mef di Fdi, Lucia Albano, ha spiegato: «Esprimiamo la nostra contrarietà alla ratifica perché riteniamo che le condizioni di accesso all’assistenza finanziaria siano eccessivamente stringenti. L’organizzazione intergovernativa e le sue regole devono essere oggetto di una riflessione comune, anche in considerazione delle mutate condizioni del quadro macroeconomico europeo». A rendere particolarmente opportuna una pausa c’è un altro fattore: come spiegato l’altro ieri in Aula dall’onorevole leghista Alberto Bagnai, la riforma del Mes incorporerebbe tra i criteri di vigilanza e condizionamento degli Stati che ne facessero ricorso proprio quei parametri del Patto di stabilità e crescita che tutti ora dicono di voler modificare. Discorso finito, dunque? Per ora. Il voto della Camera è un passaggio cruciale, ma il pressing non finirà qui, specie se Karlsruhe non dovesse bloccare la ratifica di Berlino. Il Mes ha un solo scopo possibile - piazzare i suoi fondi, ai quali l’Italia ha contribuito con decine di miliardi di capitale versato - e finché può ci proverà. Ma i movimenti politici su di esso saranno moneta di scambio per altre partite. Un primo esempio potrebbe essere proprio la fresca nomina del nuovo direttore generale, il lussemburghese Pierre Gramegna. Come ha ricostruito lo Handelsblatt, a sbloccare la pratica è stata la rimozione del veto da parte del governo italiano e del ministro Giorgetti. Se la stessa persona che avalla Gramegna dice di non voler ratificare il Mes, è lecito ipotizzare che l’intenzione sia quella di aprire un credito (politico) con Berlino, che di Gramegna è sempre stata sostenitrice (l’ex ministro è un asset di Christian Lindner, titolare liberale delle Finanze tedesche). Il calcolo è giusto? Lo vedremo presto, ma su altri tavoli.