Un tribunale statunitense ha incolpato un rappresentante con sede in Cina della Foreign Trade Bank di due accuse relative al riciclaggio di proventi crittografici illeciti a beneficio del programma di armi nucleari e missili balistici della Corea del Nord. Ma si tratta solo dell’ultimo episodio che vede protagonisti i criminali informatici di Pyongyang.
Un tribunale statunitense ha incolpato un rappresentante con sede in Cina della Foreign Trade Bank di due accuse relative al riciclaggio di proventi crittografici illeciti a beneficio del programma di armi nucleari e missili balistici della Corea del Nord. Ma si tratta solo dell’ultimo episodio che vede protagonisti i criminali informatici di Pyongyang.Lo scorso 24 aprile il tribunale del Distretto di Columbia (Stati Uniti) ha accusato Sim Hyon Sop, un cittadino nordcoreano di 39 anni, «di aver cospirato con dei commercianti in Cina per riciclare le criptovalute rubate dagli hacker della Corea del Nord acquistando beni tramite società di facciata con sede a Hong Kong».Inoltre, Sim Hyon Sop è accusato «di aver gestito un complesso schema di riciclaggio dei proventi del lavoro di vari specialisti IT nordcoreani, che sotto false identità hanno ottenuto un impiego presso società crittografiche statunitensi». Dal settembre 2021 fino ad oggi Sim avrebbe ricevuto decine di milioni di dollari di valuta virtuale. Secondo l'assistente procuratore generale della Divisione penale del dipartimento di giustizia Kenneth Polite «le accuse annunciate oggi evidenziano i modi in cui gli operatori nordcoreani hanno innovato il loro approccio per eludere le sanzioni sfruttando le caratteristiche tecnologiche delle risorse virtuali per facilitare pagamenti e profitti e prendendo di mira le società di valuta virtuale per il furto». La rete di riciclaggio di criptovalute costruita dal cittadino nordcoreano si è avvalsa di Wu Huihui, un commerciante cinese residente nella città di Jinan situata a circa 400 chilometri a Sud di Pechino e di Cheng Hung Man, commerciante con sede a Hong Kong e un utente del quale si conosco solo il nickname online «Live:jammychen0150». Come si legge nell’atto di accusa, Sim avrebbe anche cospirato per riciclare fondi generati da lavoratori IT nordcoreani che hanno ottenuto un impiego illegale nel settore tecnologico e delle criptovalute. Questi lavoratori IT hanno utilizzato identità false per ottenere il lavoro in aziende con sede negli Stati Uniti, e poi hanno chiesto di essere pagati in criptovalute, come Stablecoin, Usd Tether (Usdt) e Usd Coin (Usdc), che sono ancorate al dollaro USA. Dopo aver ricevuto il pagamento, hanno incanalato i loro guadagni in Corea del Nord tramite Sim. Wu Huihui è stato anche accusato di aver gestito un'attività di trasferimento di denaro senza licenza tramite un cambio di valuta virtuale con sede negli Stati Uniti. Già nel 2019 il Security Council delle Nazioni Unite in un rapporto aveva lanciato l’allarme sul fatto che la Corea del Nord raccoglie fondi per i suoi programmi missilistici e nucleari (circa 2 miliardi di dollari), attraverso i crimini informatici e sottraendo i salari degli ingegneri informatici nordcoreani che svolgono un lavoro legittimo all'estero. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti introdotto sanzioni contro Sim, Wu e Cheng «per aver fornito supporto alla Corea del Nord attraverso finanziamenti illeciti e attività informatiche dannose». Negli Usa il riciclaggio di denaro è punibile fino a 20 anni di carcere ma né Sim né Wu andranno sotto processo visto che gli Stati Uniti non hanno un trattato di estradizione con la Cina. La Corea del Nord gestisce un vero e proprio esercito di hacker che negli ultimi anni è diventato sempre più abile nel furto di criptovalute. Solo nel 2022, secondo recenti stime, gli hacker nordcoreani hanno rubato criptovalute per un valore stimato di 1,7 miliardi di dollari. Secondo i documenti del tribunale del Distretto di Columbia, il Reconnaissance General Bureau (RGB) è la principale unità di intelligence e operazioni clandestine della Corea del Nord, nota per avere una capacità informatica che è diventata nota all'interno della comunità della sicurezza informatica sia come Lazarus Group che come Advanced PersistentThreat 38 (APT38). APT38 è un gruppo sostenuto dal regime nordcoreano responsabile di condurre attacchi informatici distruttivi almeno dal 2014 per generare entrate per i suoi programmi di missili balistici e armi di distruzione di massa. In particolare, questi hacker nordcoreani hanno lavorato di concerto per condurre attacchi informatici contro vittime situate negli Stati Uniti e in tutto il mondo, inclusi attacchi contro istituzioni finanziarie e fornitori di servizi di asset virtuali Una parte dei proventi di tali schemi di furto e frode di valuta virtuale è stata inviata all'indirizzo di valuta virtuale 1G3Qj4Y4trA8S64zHFsaD5GtiSwX19qwFv, che Sim e i suoi cospiratori di trader OTC hanno utilizzato per finanziare i pagamenti per le merci per la Corea del Nord.Discorso diverso merita l’unità Cyber Warfare Guidance Unit, o Bureau 121 che secondo gli investigatori americani è «l’organizzazione principale responsabile della guerra informatica che già nel 2010 controllava almeno 1.000 hacker d’élite che si sono concentrati sui sistemi informatici di altri Paesi». Si stima che oltre 6.000 membri appartengano al Bureau 121, ma molti di loro operano da paesi terzi tra cui la Bielorussia, la Cina, l’India, la Malesia e la Russia. Impossibile o quasi saperne di più visto che la Corea del Nord è un Paese ermeticamente chiuso tuttavia, secondo qualificate fonti dell’intelligence americana il Bureau 121 si arricchisce ogni anno di circa 100 nuovi hacker che ogni anno arrivano dal Mirim College. Si tratta di un'Università militare con corsi di disturbo radar, guida e difesa missilistica, informatica e comunicazioni. In origine era il Kim Il Military College, fino a quando non è stato riorganizzato in un'università e un istituto di ricerca sulla guerra elettronica. È subordinato allo Stato Maggiore del Ministero delle Forze Armate Popolari. Il nome «Mirim» risale alla fondazione del College, quando si trovava a Mirim-dong, nel distretto di Sadong a Pyongyang. In anni più recenti, è stato trasferito a Chesan-ri, distretto di Hyeongjesan, Pyongyang, e ha subito una serie di cambi di nome: prima Command Automation College of the Chosun People's Army, e poi nel 2000 Kim Il Political Military University. Tuttavia, il suo nome ufficiale è il campo militare n. 144 dell'esercito popolare di Chosun. Per la maggior parte delle persone, è noto come un «Collegio segreto» o, in alternativa, «Collegio per persone di talento», poiché è destinato a produrre e coltivare i soldati più talentuosi dell'Esercito popolare. Un disertore nordcoreano, identificato come Cheong, arrivato nella Corea del Sud nel 2009 raccontò al The Daily NK che i corsi di base richiedono cinque anni per essere completati e ci sono circa 120 studenti per ogni classe. Si compone di due percorsi educativi: un percorso universitario di cinque anni e un corso di ricerca di tre anni, che è simile a un master. Nella prima traccia, le autorità selezionano studenti modello tra i diplomati delle prime scuole medie superiori - scuole superiori speciali per studenti di talento - e reclutano anche giovani studiosi esemplari che frequentano la Kim Il Sung University e il Pyongsung College of Science. Per il corso di ricerca vengono reclutati anche studenti della National Defense University e dell'Hamheung College of Mathematics. Ci sono cinque Dipartimenti professionali: ingegneria elettronica, automazione dei comandi, programmazione, ricognizione tecnica e informatica. In particolare, il Dipartimento di automazione del comando insegna programmazione difensiva e offensiva e tattiche di hacking in un corso intitolato «Il sistema di allerta precoce di South Chosun e come rispondere ad esso». Dopo la laurea, gli studenti vengono inviati agli uffici n. 32, 101 e 121, che esistono sotto l'Ufficio generale di ricognizione del Ministero delle forze armate popolari. Inoltre, i laureati del Mirim College sono spesso assegnati come ufficiali del personale della tecnologia, in cui ricercano la guerra di automazione per le due brigate di guerra elettronica, istituite nel 1992.Come descritto in precedenza per generare entrate per il regime, la Corea del Nord impiega anche lavoratori IT per ottenere un impiego nel settore delle cripto valute e lo schema utilizzato è questo; i nordcoreani fanno domanda per lavori di sviluppo IT da remoto senza rivelare di essere nordcoreani, poi aggirano i controlli di sicurezza attraverso l'uso fraudolento di documenti di identità e altre strategie di offuscamento, come le reti private virtuali per nascondere la loro vera posizione ai facilitatori dei pagamenti online e alle piattaforme di assunzione. I lavoratori IT richiedono il pagamento per i loro servizi in valuta virtuale e quindi restituiscono i loro guadagni alla Corea del Nord tramite, tra gli altri metodi, rappresentanti Ftb come Sim Hyon Sop.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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