2025-08-02
Assediati dai tifosi della morte: il fine vita ora è il vero scopo
Il caso della donna ricorsa al suicidio assistito in Svizzera, dopo tre dinieghi dell’Asl di Trieste, ha ridato slancio a un vivace show mediatico che brama leggi sul fine vita. E che infiamma le associazioni. Adesso aspettiamoci un pride per l’eutanasia.Il prossimo passo sarà il deaht pride, la parata della morte, l’orgoglio del suicidio assistito. C’è da avere i brividi, come è successo ieri mattina sfogliando alcuni quotidiani; l’addio alla vita di Martina Oppelli diventa un manifesto, una rivendicazione. Esce dalla sfera intima del male di vivere che è contrastato dal dolore di morire e diventa evento pubblico, rivendicazione politica. Già alcuni giorni fa la Stampa - il quotidiano di casa Elkann che però nulla dice sulla morte dei posti di lavoro della Iveco venduta agli indiani - con un fondo del direttore Andrea Malaguti a fronte del suicidio assistito di Laura Santi, una collega di Perugia che per anni aveva sofferto della Sla, aveva scritto: «È come se ci avesse riportati sulla terra risvegliandoci da una specie di ipnosi collettiva. Ho chiamato Vito Mancuso… volevo sapere che cosa ne pensa lui di questa enormità preistorica dalla quale chi guida l’Italia sembra non volerci liberare». L’enormità preistorica sarebbe il non dare a cuor leggero il via per legge all’eutanasia. Ma ieri la Stampa - e non solo il quotidiano torinese - è andata oltre dedicando due pagine alla scomparsa volontaria di Martina Oppelli. Come se nel mondo non ci fosse abbastanza morte: da ciò che succede in Ucraina, in Palestina, fino all’orrore di una madre che sgozza e fa a pezzi il proprio figlio. È accaduto - è il cinismo dei fatti - a Gemona in Friuli Venezia Giulia da dove veniva Martina Oppelli che per tre volte ha avuto il diniego della Asl di Trieste (da lei denunciata) al suicidio medicalmente assistito e che poi è andata in Svizzera. Scrive Elena Lowenthal rammentando che è ingiusto che non ci sia una legge e che Martina, immobilizzata, abbia dovuto lottare contro la burocrazia e sia dovuta emigrare per morire: «La malattia come battaglia è una similitudine tanto inappropriata quanto ingiusta perché appunta al petto di chi sopravvive la medaglia al vincitore mentre umilia chi perde morendo perché non ce l’ha fatta». Siamo completamente fuori strada. Si lotta per vivere e i medici lottano con il paziente perché, oltre al giuramento d’Ippocrate, è la ragione stessa della loro missione, hanno scelto di stare dalla parte della vita. Sullo stesso giornale Flavia Amabile racconta le ultime ore della signora Oppelli come fossero una favola bella. Il Corriere della Sera dedica a questo triste evento la foto centrale di prima pagina col titolo: «Martina: il suicidio assistito e l’appello» che sarebbe: dopo i tre no in Italia e il sì in Svizzera «fate una legge». Repubblica fa la stessa scelta e sotto una foto di Martina incarica Maria Novella De Luca di raccogliere il parere di Filomena Gallo che sentenzia: «Lo Stato l’ha lasciata sola e costretta ad emigrare per morire». La De Luca spiega che Martina in Svizzera ce l’hanno portata i volontari di «Soccorso civile», associazione del gruppo Coscioni per la disobbedienza civile sul fine vita. Già: fine vita. Come ci ha insegnato Dante - guarda te - nella Vita Nova: nomen sunt consequentia rerum. Scrivere fine vita vuol dire elevare la morte a scopo dell’esistenza. Perché in italiano il fine è il risultato a cui si tende, nella nostra lingua l’ultimo traguardo è la fine. Ma se si dice la fine, ecco che quel suono ultimativo risulta irrevocabile. Spiega il neuropsichiatra infantile Maurizio Pincherle che i ragazzi «oggi uccidono senza averne contezza perché drogati dai videogiochi, sono convinti che l’altro si rialza come nelle fiction». C’è in questo show del suicidio assistito una cultura veteromarxista che, come già il primo femminismo, ritiene che «il privato è politico» e che mettendolo in piazza si va incontro alla rivoluzione. E fa diventare i desideri diritti e pretende che i diritti siano diritto. Perfino la Corte Costituzionale, che pure esorta il Parlamento a legiferare sul punto, ha difficoltà ad ammettere che si possa somministrare il suicidio. Che si possa dare la morte. Di certo non se ne può fare spettacolo e rivendicazione. Da sempre si eseguono nel silenzio pratiche anche sanitarie che accompagnano la vita alla sua naturale conclusione. La sinistra ha eletto a suo monumento Michela Murgia che nel suo romanzo l’Accabadora evoca la figura dell’angelo della morte invocato dai parenti dei malati terminali. Le accabadore hanno agito forti del consenso della comunità. Da sempre nelle campagne si sono praticate le eutanasie. Ma fanno parte di quella sfera privatissima che tale deve rimanere. Lo Stato farebbe bene a non metterci bocca, semmai consentire ciò che si è fatto con la donazione di organi: l’attestazione in vita. Là dove si è ecceduto, i numeri terrorizzano: in Canda il 4,7% dei decessi sono per eutanasia. In Danimarca un medico su dieci pratica l’eutanasia. In Svezia ne fanno cinque al giorno, in Olanda è estesa a chiunque abbia un disagio di vivere. Sono i frutti della cultura woke. Che inchinandosi all’Africa per chiedere perdono del colonialismo ignora uno dei loro proverbi più diffusi: «Quando muore un vecchio, muore una biblioteca». In tempi di death pride anche i libri sono condannati a morte.
Sandro Mazzola (Getty Images)
Una foto di scena del fantasy «Snowpiercer» con Chris Evans e Tilda Swinton firmato dal coreano Bong Joon. Nel riquadro una tavola del fumetto