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2025-04-03
Asse rom-maranza per ripulire i milanesi
Ansa
I predoni del suburbio milanese, quelli degli assalti in metropolitana, dei furti con strappo, delle rapine violente, spesso minorenni, romeni, egiziani, libici e marocchini di seconda generazione, per gli inquirenti che ieri mattina hanno deciso di contrastare il fenomeno dei maranza con una risposta muscolare sarebbero stati guidati da «un’associazione a delinquere». Diciotto arrestati, tutti minorenni. E tutti accusati di rapina aggravata. Trentadue fermati, tutti maggiorenni, otto dei quali accusati anche del reato associativo. Giovani, ma con curriculum criminali già pesanti. Molti di loro sono risultati irregolari sul territorio italiano, altri già noti alle forze dell’ordine per reati simili. Con un solo centro di ricettazione. Una vera e propria organizzazione criminale smantellata dalla Squadra mobile di Milano con un’operazione imponente, coordinata dalla Procura della Repubblica e dalla Procura per i minorenni. Nella documentazione giudiziaria, con una sequenza impressionante, vengono ricostruite le azioni, ripetute sempre nello stesso modo: gli indagati strappano una catenina o sfilano orologi e portafogli; oppure se li fanno consegnare. L’oro, facile da rivendere e semplice da camuffare, sarebbe finito in un mercato parallelo che ruoterebbe attorno a un unico centro di smistamento: un appartamento occupato abusivamente nel quartiere San Siro. A gestirlo, hanno scoperto gli investigatori, una famiglia di sette persone, tutte di origine romena. L’organizzazione, definita come «efficiente», funzionava come su un nastro trasportatore: i rapinatori consegnavano la refurtiva, gli intermediari si occupavano del giro d’affari, l’oro veniva lavorato, trasformato, nascosto e spedito in Romania. Il business, ormai consolidato, è stato stroncato dalla polizia dopo mesi di intercettazioni, telecamere nascoste, pedinamenti, controlli negli aeroporti e ai confini. Le indagini sono partite da un episodio chiave: la rapina di un orologio Cartier lo scorso luglio. Da lì, il lavoro incessante degli investigatori, guidati dal capo della Squadra mobile Alfonso Iadevaia, ha portato alla scoperta dell’appartamento di San Siro, monitorato con telecamere nascoste e microspie. Ogni fase della filiera criminale è stata documentata: l’arrivo della refurtiva, la sua trasformazione per cancellare segni distintivi, il trasporto verso la Romania. In due occasioni, i corrieri sono stati fermati a Orio al Serio con chili d’oro nelle tasche. La polizia ha ricostruito con certezza almeno 23 rapine. Ma il numero reale, spiega chi ha indagato, è probabilmente molto più alto. Altri chili d’oro sono saltati fuori durante le perquisizioni, oltre a 33.000 euro in contanti. Complesso anche il lavoro di identificazione dei predoni: gli investigatori hanno dovuto incrociare frame delle telecamere di videosorveglianza, foto segnaletiche, profili social. Infine, molte delle vittime hanno riconosciuto i sospettati quando gli investigatori hanno mostrato loro gli album fotografici. Dalle intercettazioni è emerso che i maranza seguivano «la borsa dei valori»: «È sceso, non è come prima», dice uno degli arrestati. La risposta di una delle donne rom indagate: «Sapeva già i prezzi… per questo non ha dato di più». Poco dopo, la stessa donna, comunica via WhatsApp: «Sono venuti pure gli zingari, hanno portato forse 26 grammi di oro e hanno preso gli orologi. Erano sei o sette e li venderanno al mercato». E per non dare nell’occhio sarebbero stati impiegati come corrieri anche i più piccoli della famiglia: «Li ho riempiti tutti d’oro, anche i bambini». Oppure bastava ficcare i monili «nel reggiseno». Non mancano i retroscena folk. Una delle indagate spiega alla madre che da un anello avrebbero tolto «la pietra nera», perché somigliava «a un occhio ed è contro il malocchio». Una delle operazioni però finisce male. Prima di imbarcarsi per la Romania all’aeroporto di Bergamo gli agenti si avvicinano a due indagate. «Sono stati attirati dalle borse Chanel e Vuitton, pure quelle rubate», commenta dopo il sequestro a telefono una delle due. Poi aggiunge: «Sarebbe stata la quantità più grossa mai portata». La madre, però, sarebbe riuscita a passarla liscia. Riuscendo a transitare con il carico. «Meno male che non hanno preso quello che avevi tu», commenta la figlia. Mentre uno degli egiziani, minorenne, hanno scoperto gli investigatori, usava ben 14 alias oltre al suo nome. E il suo curriculum criminale contava già otto precedenti di polizia. Compresa un’evasione da una casa famiglia di Priverno (Latina) dove era stato affidato in prova ai servizi sociali. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è subito complimentato per l’operazione: «È l’ennesima dimostrazione dell’impegno delle forze di polizia nel contrasto alla delinquenza e all’illegalità sulle nostre strade». Un colpo durissimo a un sistema che, per troppo tempo, ha prosperato nell’ombra. Ora Milano prova a rialzarsi. Nonostante un imbarazzante Beppe Sala che se ne è uscito con una dichiarazione surreale: «La prossima campagna elettorale a Milano si giocherà sui temi della sicurezza, pur non essendo i dati drammatici». Per poi aggiungere: «Anche se il Comune può fino a un certo punto». Subito dopo, infatti, si è lanciato in un discorso da vero equilibrista: «Io penso e spero che ci debba essere un atteggiamento fermo rispetto a questi ragazzi che da un lato vanno seguiti, educati, però dall’altro, quando sbagliano ripetutamente, e quelli fermati oggi hanno sbagliato ripetutamente, devono scontare la pena». Di tutt’altro avviso è il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana: «Non mi preoccupano gli arresti ma la diffusione di una criminalità sempre più invasiva e organizzata. È un problema che si faceva finta di non vedere, soprattutto da una certa parte politica. Adesso i nodi vengono al pettine e bisogna correre ai ripari». D’altra parte, se un’organizzazione criminale ha potuto prosperare indisturbata per anni, significa che chi doveva vigilare ha chiuso un occhio. O forse entrambi.
Inps, con le inchieste stabilizzati 49.000 posti
Fino a ieri erano lavoratori «invisibili», operai in balia dei cosiddetti serbatoi di manodopera, società responsabili di una vera e propria somministrazione illecita di forza lavoro. Ora non più. In base a quanto risulta dagli archivi del ministero del Lavoro, ben 49.000 lavoratori sono stati stabilizzati come conseguenza delle indagini che la Procura di Milano ha portato avanti su 19 società che ad oggi hanno permesso al fisco di recuperare oltre 552 milioni di euro.Da Dhl a Gls, da Schenker a Esselunga, da Bennet a Geodis, le società erano in grado di fornire manodopera a basso costo grazie ad una catena di appalti e un escamotage in particolare: la sistematica omissione del versamento di tasse e contributi Inps.
Il dato sulla messa in regola e stabilizzazione dei lavoratori è stato certificato dalla Direzione regionale Lombardia dell’Inps e arriva come il risultato concreto del lavoro della Procura di Milano che proprio ieri ha effettuato due maxi sequestri preventivi d’urgenza da circa 33 milioni di euro per evasione dell’Iva nei confronti del gruppo di supermercati Iperal e della multinazionale svizzera della logistica Kuehne+Nagel. Al centro delle indagini condotte dai PM Paolo Storari e Valentina Mondovì, l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e l’esternalizzazione dei servizi di logistica a «società filtro» che a loro volta si avvalevano di cooperative, le cosiddette società serbatoio in grado di offrire un costo del lavoro stracciato proprio perché inadempienti. Sistematica infatti l’omissione del versamento dell’Iva, degli oneri previdenziali e assistenziali. Un quadro di estremo sfruttamento vissuto dai lavoratori come sintetizzato dai magistrati. «In estrema sintesi», scrivono, «in tale approccio tayloristico gli operai appaiono mere appendici delle macchine», con le macchine che «hanno il più totale controllo dell’organizzazione e dei ritmi lavorativi». Tra i problemi riscontrati nel corso dell’inchiesta il costante peggioramento dell’attrezzatura fornita ai lavoratori, meno ore pagate rispetto al dovuto, controllo rigido attraverso telecamere interne e casi di licenziamenti avvenuti via mail.Un meccanismo che secondo gli inquirenti e i rilievi del Nucleo Per della Guardia di finanza di Milano, vedrebbe la piena consapevolezza da parte del committente rispetto alla situazione di sfruttamento dei lavoratori, e quindi la responsabilità amministrativa delle società in oggetto in base alla legge 231del 2001. Lo aveva ben spiegato Giuseppe Esposito, manager della Samag Holding logistics, società romana finita nell’inchiesta sulla logistica di GSL nel 2024. Secondo Esposito infatti sarebbe proprio il committente, a stabilire la tariffa e ad «imporre» alla società serbatoio di «trovare il modo» per fornire i servizi al costo desiderato. Il modo, neanche a dirlo, era sempre il mancato versamento dei contributi. Con buona pace, si fa per dire, dei lavoratori.
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La Mobile ha arrestato 18 minorenni, accusati di rapina aggravata per gli scippi sul metrò. In totale i fermati sono 50: saldatura tra romeni e nordafricani di seconda generazione. Sala si sveglia e cambia linea: «La prossima campagna si giocherà sulla sicurezza». I lavoratori regolarizzati erano gestiti dalle società «serbatoio» di manopodera. Lo speciale contiene due articoli.I predoni del suburbio milanese, quelli degli assalti in metropolitana, dei furti con strappo, delle rapine violente, spesso minorenni, romeni, egiziani, libici e marocchini di seconda generazione, per gli inquirenti che ieri mattina hanno deciso di contrastare il fenomeno dei maranza con una risposta muscolare sarebbero stati guidati da «un’associazione a delinquere». Diciotto arrestati, tutti minorenni. E tutti accusati di rapina aggravata. Trentadue fermati, tutti maggiorenni, otto dei quali accusati anche del reato associativo. Giovani, ma con curriculum criminali già pesanti. Molti di loro sono risultati irregolari sul territorio italiano, altri già noti alle forze dell’ordine per reati simili. Con un solo centro di ricettazione. Una vera e propria organizzazione criminale smantellata dalla Squadra mobile di Milano con un’operazione imponente, coordinata dalla Procura della Repubblica e dalla Procura per i minorenni. Nella documentazione giudiziaria, con una sequenza impressionante, vengono ricostruite le azioni, ripetute sempre nello stesso modo: gli indagati strappano una catenina o sfilano orologi e portafogli; oppure se li fanno consegnare. L’oro, facile da rivendere e semplice da camuffare, sarebbe finito in un mercato parallelo che ruoterebbe attorno a un unico centro di smistamento: un appartamento occupato abusivamente nel quartiere San Siro. A gestirlo, hanno scoperto gli investigatori, una famiglia di sette persone, tutte di origine romena. L’organizzazione, definita come «efficiente», funzionava come su un nastro trasportatore: i rapinatori consegnavano la refurtiva, gli intermediari si occupavano del giro d’affari, l’oro veniva lavorato, trasformato, nascosto e spedito in Romania. Il business, ormai consolidato, è stato stroncato dalla polizia dopo mesi di intercettazioni, telecamere nascoste, pedinamenti, controlli negli aeroporti e ai confini. Le indagini sono partite da un episodio chiave: la rapina di un orologio Cartier lo scorso luglio. Da lì, il lavoro incessante degli investigatori, guidati dal capo della Squadra mobile Alfonso Iadevaia, ha portato alla scoperta dell’appartamento di San Siro, monitorato con telecamere nascoste e microspie. Ogni fase della filiera criminale è stata documentata: l’arrivo della refurtiva, la sua trasformazione per cancellare segni distintivi, il trasporto verso la Romania. In due occasioni, i corrieri sono stati fermati a Orio al Serio con chili d’oro nelle tasche. La polizia ha ricostruito con certezza almeno 23 rapine. Ma il numero reale, spiega chi ha indagato, è probabilmente molto più alto. Altri chili d’oro sono saltati fuori durante le perquisizioni, oltre a 33.000 euro in contanti. Complesso anche il lavoro di identificazione dei predoni: gli investigatori hanno dovuto incrociare frame delle telecamere di videosorveglianza, foto segnaletiche, profili social. Infine, molte delle vittime hanno riconosciuto i sospettati quando gli investigatori hanno mostrato loro gli album fotografici. Dalle intercettazioni è emerso che i maranza seguivano «la borsa dei valori»: «È sceso, non è come prima», dice uno degli arrestati. La risposta di una delle donne rom indagate: «Sapeva già i prezzi… per questo non ha dato di più». Poco dopo, la stessa donna, comunica via WhatsApp: «Sono venuti pure gli zingari, hanno portato forse 26 grammi di oro e hanno preso gli orologi. Erano sei o sette e li venderanno al mercato». E per non dare nell’occhio sarebbero stati impiegati come corrieri anche i più piccoli della famiglia: «Li ho riempiti tutti d’oro, anche i bambini». Oppure bastava ficcare i monili «nel reggiseno». Non mancano i retroscena folk. Una delle indagate spiega alla madre che da un anello avrebbero tolto «la pietra nera», perché somigliava «a un occhio ed è contro il malocchio». Una delle operazioni però finisce male. Prima di imbarcarsi per la Romania all’aeroporto di Bergamo gli agenti si avvicinano a due indagate. «Sono stati attirati dalle borse Chanel e Vuitton, pure quelle rubate», commenta dopo il sequestro a telefono una delle due. Poi aggiunge: «Sarebbe stata la quantità più grossa mai portata». La madre, però, sarebbe riuscita a passarla liscia. Riuscendo a transitare con il carico. «Meno male che non hanno preso quello che avevi tu», commenta la figlia. Mentre uno degli egiziani, minorenne, hanno scoperto gli investigatori, usava ben 14 alias oltre al suo nome. E il suo curriculum criminale contava già otto precedenti di polizia. Compresa un’evasione da una casa famiglia di Priverno (Latina) dove era stato affidato in prova ai servizi sociali. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è subito complimentato per l’operazione: «È l’ennesima dimostrazione dell’impegno delle forze di polizia nel contrasto alla delinquenza e all’illegalità sulle nostre strade». Un colpo durissimo a un sistema che, per troppo tempo, ha prosperato nell’ombra. Ora Milano prova a rialzarsi. Nonostante un imbarazzante Beppe Sala che se ne è uscito con una dichiarazione surreale: «La prossima campagna elettorale a Milano si giocherà sui temi della sicurezza, pur non essendo i dati drammatici». Per poi aggiungere: «Anche se il Comune può fino a un certo punto». Subito dopo, infatti, si è lanciato in un discorso da vero equilibrista: «Io penso e spero che ci debba essere un atteggiamento fermo rispetto a questi ragazzi che da un lato vanno seguiti, educati, però dall’altro, quando sbagliano ripetutamente, e quelli fermati oggi hanno sbagliato ripetutamente, devono scontare la pena». Di tutt’altro avviso è il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana: «Non mi preoccupano gli arresti ma la diffusione di una criminalità sempre più invasiva e organizzata. È un problema che si faceva finta di non vedere, soprattutto da una certa parte politica. Adesso i nodi vengono al pettine e bisogna correre ai ripari». D’altra parte, se un’organizzazione criminale ha potuto prosperare indisturbata per anni, significa che chi doveva vigilare ha chiuso un occhio. 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In base a quanto risulta dagli archivi del ministero del Lavoro, ben 49.000 lavoratori sono stati stabilizzati come conseguenza delle indagini che la Procura di Milano ha portato avanti su 19 società che ad oggi hanno permesso al fisco di recuperare oltre 552 milioni di euro.Da Dhl a Gls, da Schenker a Esselunga, da Bennet a Geodis, le società erano in grado di fornire manodopera a basso costo grazie ad una catena di appalti e un escamotage in particolare: la sistematica omissione del versamento di tasse e contributi Inps.Il dato sulla messa in regola e stabilizzazione dei lavoratori è stato certificato dalla Direzione regionale Lombardia dell’Inps e arriva come il risultato concreto del lavoro della Procura di Milano che proprio ieri ha effettuato due maxi sequestri preventivi d’urgenza da circa 33 milioni di euro per evasione dell’Iva nei confronti del gruppo di supermercati Iperal e della multinazionale svizzera della logistica Kuehne+Nagel. Al centro delle indagini condotte dai PM Paolo Storari e Valentina Mondovì, l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e l’esternalizzazione dei servizi di logistica a «società filtro» che a loro volta si avvalevano di cooperative, le cosiddette società serbatoio in grado di offrire un costo del lavoro stracciato proprio perché inadempienti. Sistematica infatti l’omissione del versamento dell’Iva, degli oneri previdenziali e assistenziali. Un quadro di estremo sfruttamento vissuto dai lavoratori come sintetizzato dai magistrati. «In estrema sintesi», scrivono, «in tale approccio tayloristico gli operai appaiono mere appendici delle macchine», con le macchine che «hanno il più totale controllo dell’organizzazione e dei ritmi lavorativi». Tra i problemi riscontrati nel corso dell’inchiesta il costante peggioramento dell’attrezzatura fornita ai lavoratori, meno ore pagate rispetto al dovuto, controllo rigido attraverso telecamere interne e casi di licenziamenti avvenuti via mail.Un meccanismo che secondo gli inquirenti e i rilievi del Nucleo Per della Guardia di finanza di Milano, vedrebbe la piena consapevolezza da parte del committente rispetto alla situazione di sfruttamento dei lavoratori, e quindi la responsabilità amministrativa delle società in oggetto in base alla legge 231del 2001. Lo aveva ben spiegato Giuseppe Esposito, manager della Samag Holding logistics, società romana finita nell’inchiesta sulla logistica di GSL nel 2024. Secondo Esposito infatti sarebbe proprio il committente, a stabilire la tariffa e ad «imporre» alla società serbatoio di «trovare il modo» per fornire i servizi al costo desiderato. Il modo, neanche a dirlo, era sempre il mancato versamento dei contributi. Con buona pace, si fa per dire, dei lavoratori.
Lucio Caracciolo (Ansa)
Quest’ultimo, noto per le apparizioni televisive e per la militanza politica nell’area di Azione e +Europa, ha salutato con un post sui social: «Informo i pochi cui può interessare che sono uscito dal Consiglio Scientifico di Limes, per incompatibilità con la linea politica di mancato sostegno ai principi del Diritto Internazionale, stracciati dall’aggressione russa all’Ucraina», ha scritto.
Federico Argentieri ha invece rilasciato una corposa intervista all’AdnKronos. «Siamo in una fase cruciale, probabilmente la più difficile per l’Ucraina dall’inizio della guerra, non tanto sul piano militare quanto su quello diplomatico e internazionale. Con gli Stati Uniti che si svincolano dalla Nato, che attaccano l’Unione europea apertamente, e con un allineamento sempre più evidente tra America e Russia, questo è il momento in cui bisogna fare scelte chiare, senza ambiguità», ha detto. «In questo contesto ho ritenuto che non fosse più ammissibile che il mio nome comparisse nel tamburino di Limes. Non si tratta di opportunismo né di saltare sul carro del vincitore, anche perché l’Ucraina oggi non è certo il vincitore. È una scelta di coerenza. Io ho scritto poco per Limes, anche perché il suo approccio geopolitico - centrato quasi esclusivamente sui rapporti di forza - non mi è mai stato del tutto congeniale. Ma il punto non è questo. Il vero problema è il pregiudizio strutturale che la rivista ha nei confronti dell’Ucraina da oltre vent’anni».
Curioso: il professore non è d’accordo con la linea editoriale da vent’anni ma è rimasto lo stesso nella rivista. Come mai? «Per una combinazione di fattori. Perché si potevano trovare anche analisi condivisibili, perché nessuno ha mai messo in discussione la mia presenza. I legami personali, come spesso accade, sono duri a morire. E poi c’era sempre la speranza, forse ingenua, di un cambio di rotta. Cambio che non c’è mai stato, anzi: dal 2014 in poi le cose sono peggiorate».
Insomma, alla fine a quanto pare gli conveniva restare. Anche se Caracciolo gli ha fatto uno sgarbo personale difficile da dimenticare. «La svolta è chiarissima: 2004, la rivoluzione arancione», racconta Argentieri. «Da lì in poi Limes assume una postura costantemente diffidente, se non apertamente ostile, verso l’Ucraina. È lo stesso momento in cui esce in Italia Raccolto di dolore di Robert Conquest sulla carestia staliniana, libro che ho curato e prefato dopo averlo letteralmente fatto uscire da un cassetto dove era stato relegato per anni. E cosa fa Limes? Pubblica a puntate - poi per fortuna solo una - L’autobus di Stalin di Antonio Pennacchi: un’orrenda apologia cinica del dittatore, mascherata da allegoria grottesca. Un bravo scrittore che conosce bene le dinamiche dell’Agro pontino ma ben poco quelle sovietiche, che si inerpica in un esercizio davvero incomprensibile». Viene da dire che Pennacchi era un autore di una certa fama e di un certo rilievo, e di sicuro non era un difensore delle dittature, ma Argentieri se l’è legata al dito e vent’anni dopo ha deciso di arrivare al redde rationem. Se ne va, e lancia palate di fango, spiegando che la linea di Limes «è una nube tossica mediatica che avvelena il pubblico e finisce per influenzare anche la politica. Limes e Caracciolo hanno una responsabilità maggiore di tanti ciarlatani televisivi proprio perché il loro livello culturale è elevato. Quando una fonte autorevole contribuisce alla disinformazione, il danno è più grave. Negli altri paesi europei, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, non c’è la carrellata di figure improponibili che oggi trovano grande spazio in certi programmi. Neanche Fox News è così schierata, solo in Russia si vedono le trasmissioni che ci sono in Italia. I miei colleghi stranieri sono stupefatti davanti a questa, chiamiamola, unicità».
Capito? Altrove sono più bravi di noi. Sono tutti militarizzati, ripetono le cose giuste, tengono la linea corretta. Curioso che Argentieri non abbia detto mezza parola sulla marea di stupidaggini, bufale e previsioni sbagliate che altri esperti (evidentemente a lui più congegnali di quelli di Limes) hanno scodellato in tutti questi anni. I nostri finissimi analisti geopolitici non ne hanno azzeccata una, e infatti la Russia è ancora lì che combatte e la guerra non è finita.
Ovvio: tutti gli studiosi e i tecnici di cui sopra hanno il sacrosanto diritto di andarsene dalla rivista che non gradiscono più. Le loro motivazioni tuttavia fanno riflettere. Se la prendono con una delle poche voci che hanno dimostrato di avere un legame con la realtà e non hanno ceduto alla propaganda occidentale (perché esiste pure quella). Limes, in questi anni, ha pubblicato analisi dettagliate, ha ospitato punti di vista diversi e non si è limitata a ripetere a pappagallo le tesi dei commentatori catodici più in voga. Con tutta evidenza, questo atteggiamento ha infastidito Camporini, Argentieri e gli altri. È, appunto, la sindrome di Zerocalcare: accetto le opinioni di tutti bastano che siano concordi con la mia.
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«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
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