2022-04-03
L’asse tra Mosca e Pechino si salda in Africa
Fotogrammi dal film russo Tourist (2021), sul training dell’esercito centrafricano (YouTube)
Mentre la Federazione organizza golpe nel continente, le due potenze s’incontrano nel Sahel: gli uomini di Xi Jinping riforniscono i mercenari di Wagner. Obiettivo: scalzare gli occidentali, già cacciati dal Mali. Intanto i miliziani privati dalla Libia muovono verso il Donbass.Una decina di giorni fa, vicino ad Aqaba, cittadina giordana che si affaccia sul mar Rosso, si è tenuto un incontro a porte chiuse tra i vertici militari locali, capi di stato maggiore di una dozzina di Paesi africani e gli inviati di Stephen J. Townsend, comandante di Africom, il comando militare statunitense per il continente nero. A presiedere, Abdullah, il re di Giordania, impegnato nell’ultima settimana anche a coordinare incontri con Egitto, Emirati e Iraq in vista del viaggio del segretario Usa, Antony Blinken, in Israele. Nel deserto, vicino ad Aqaba, si è parlato a lungo di Ucraina, ma anche dell’ordine del giorno: la presenza cinese nel Sahel e il rapporto sempre più stretto con i mercenari russi che operano sotto la bandiera di Wagner. Il gruppo fondato da Evgenji Prigozin registrava, sei anni fa, circa 1.000 dipendenti; da quanto risulta alla Verità, adesso i mercenari di Wagner sarebbero circa 250.000. Pur comprendendo addetti alla logistica e all’amministrazione, si arriva a un numero esorbitante, pari a quello di un esercito vero e proprio. Un dato che serve a comprendere come Vladimir Putin stia da tempo preparando una morsa sull’Africa e un ritorno agli schemi della guerra fredda. Nell’ultimo anno ci sono stati ben sette colpi di Stato. Cinque sono andati a segno. È accaduto in Sudan, in Mali, in Guinea, in Ciad e da ultimo in Burkina Faso. In almeno tre, la presenza dei russi è palesemente tracciabile, anche perché Mosca ha cominciato a usare i paramilitari per ampliare la dottrina del soft power. Non sono più soltanto tagliagole, ma servono a gestire i rapporti economici dei Paesi con i quali lavorano. Servono a distribuire medicine o ad assistere la popolazione locale, proteggendola dalle incursioni delle milizie avversarie. Si pone però il problema dei pagamenti. Stati tecnicamente falliti come il Mali tendono a pagare i militari privati direttamente con concessioni minerarie. I cui frutti vengono rivenduti immediatamente alla Cina, che sfrutta a quel punto la propria logistica ufficiale che va dall’Africa all’Asia. Al tempo stesso, stando a quanto emerso dal vertice ristretto di Aqaba, sfruttando la corsia inversa della logistica, sarebbe la stessa Cina a rifornire Wagner di armi, munizioni, mezzi e del necessario per muoversi in luoghi ostili. Un patto che salda la presa sul Sahel e permette ai due colossi di aggredire la presenza europea e occidentale. Permette anche alla Cina di superare le proprie difficoltà in loco. Pechino ha da sempre difficoltà a misurarsi militarmente con jihadisti o fazioni africane. Tende, infatti, a preferire l’approccio economico e la persuasione del potenziale arricchimento. Solo che non basta in Africa. Per affrontare società così fratturate ci vuole quella aggressività lucida dimostrata dalla lunga mano di Putin. Tanto più efficace perché è supportata in parallelo dai legami ufficiali. Da quando i francesi sono stati letteralmente cacciati dal Mali (anche i militari italiani della missione Takuba sono stati indotti a ripiegare in Niger), Mosca ha spinto il piede sull’acceleratore. Non mancano immagini di Antonov che atterrano nei pressi di Bamako per scaricare elicotteri russi e istruttori militari. Ovviamente, almeno per ora, non può esserci saldatura tra il mondo dei militari che indossano la divisa e quello dei mercenari, ma il rischio che accada grazie all’amicizia cinese è concreto. Nel frattempo il Sahel è luogo che garantisce anche la triangolazione della destabilizzazione. Secondo fonti di intelligence Uk e americane, già almeno un migliaio di operatori Wagner avrebbero lasciato la Libia per l’Ucraina via Siria. Sono segnalate anche società di sicurezza siriane (che operano per conto di Wagner) impegnate a organizzare voli da Benghazi fino in Siria e poi lo smistamento dei mercenari su voli civili. Si tratta di poche unità, anche perché le giunte militari del mali e del Burkina Faso avrebbero al momento dato parere negativo all’arruolamento di propri ex militari tra le file di Wagner. Il motivo è molto semplice. Non desiderano farsi immischiare nella guerra ucraina e finire nella morsa delle sanzioni Usa o dell’intelligence inglese. La domanda però è: per quanto tempo temeranno la reazione occidentale ed europea? La risposta è complessa. Da un lato dipende dalla nostra volontà di intervenire. Che la Russia e la Cina ormai siano nostri avversari in Africa è palese. La politica (compreso il governo italiano) si sveglierà soltanto quando Wagner avrà preso possesso di metà Libia e a quel punto forse sarà tardi. Invece bisognerebbe muoversi subito riorganizzando una presenza militare in Africa e poi con una politica ufficiale verso i Paesi africani che spezzi la catena delle materie prime. Se il fronte dell’Est si saldasse per via della crisi energetica e si interrompesse il flusso di gas facendo saltare il predominio del dollaro, Russia, Cina e India trasformerebbero l’Africa nel loro supermercato. È chiaro che cosa succederebbe a chi vive in Europa: povertà e flussi migratori fuori controllo.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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