2024-12-06
Del glorioso asse francotedesco oggi restano soltanto le macerie
Angela Merkel, Emmanuel Macron (Ansa)
Solo cinque anni fa ad Aquisgrana, Parigi e Berlino sognavano di guidare l’Unione e di affossare la Nato. La prima ha perso però la sua influenza sull’Africa. Senza prevedere la guerra delle materie prime.Era quasi un anno prima del Covid. Era l’apice dell’asse francotedesco ed Emmanuel Macron firmava assieme ad Angela Merkel il nuovo trattato di Aquisgrana. L’obiettivo era dare nuova benzina a quell’alleanza siglata nel 1963 da Konrad Adenauer e Charles de Gaulle. I due Paesi convinti (e i dieci lustri precedenti sembravano dare loro ragione) di rimettere in moto l’Europa avviando un percorso di gestione degli altri Paesi all’interno di un quadro normativo burocratico pensato per regolare tutti, ma favorire soltanto pochi. Unione del mercato di capitali e dei consumi, a seguire e nel frattempo il tentativo da parte di Macron di affossare la Nato (considerata da lui un cadavere) per formare un’ulteriore alleanza militare sotto l’egida della bandiera blu con le stelle d’oro. D’altronde il disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa, dal Mediterraneo e dall’Africa avrebbero facilitato un buon 50% degli obiettivi. Invece, nonostante i numerosi adoratori della Légion d’honneur abbiamo usato chili d’inchiostro per elogiare il dogma dell’asse francotedesco, le cose sono andate un po’ diversamente. Il periodo di lockdown ha disgregato la filiera produttiva del Vecchio continente e causato l’iper indebitamento delle nazioni che non hanno investito in tecnologia ma speso per l’assistenza. L’Italia che è sempre stata accusato di essere la cicala d’Europa ha sopportato meglio la tempesta. La Germania ha cominciato a spendere ma non ha rafforzato la propria industria e poi con l’arrivo della guerra in Ucraina e la fine dell’ottimo gas russo a buon prezzo ha ricevuto il ko. Macron dal canto suo è finito vittima dei suoi veti. L’antitrust Ue - fino a ieri psicologicamente (e non solo) dipendente da Parigi - ha bloccato importanti operazioni di consolidamento (pensiamo Siemens-Alston e Fincantieri-Stx), con l’obiettivo di rallentare i concorrenti francesi. Non si è però accorto di minare il mercato stesso del Vecchio continente e indebolire l’industria che dopo il Covid e soprattutto la guerra in Ucraina si è ritrovata con le brache calate. Le catene della produzione interrotte e la dipendenza tecnologica dagli Usa (sulla questione militare) e dalla Cina (su auto, rinnovabili) sono diventate un boomerang. Francia e Germania si sono convinte di trasformare l’Europa nel Continente che regola e giudica la tecnologia degli altri. Una enorme distrazione che ha portato a un veloce il decadimento della forza all’interno del modello di Aquisgrana che ha rappresentato il pilastro militare e di controllo dell’accesso alle materie prime. Se lo sbando migratorio è palpabile ai nostri confini e nelle nostre città è certamente anche colpa dei francesi che, negli ultimi sei anni, hanno perduto i rapporti coloniali costruiti negli ultimi 150 anni. È però anche colpa dell’Unione europea che non riesce minimamente ad avere una politica estera unitaria e, ancora più a monte, non riesce a interpretare i cambiamenti del mondo. È da almeno tre anni palese a chiunque che Parigi non sarebbe più riuscita a mantenere gli equilibri del Sahel. I soli che ne hanno approfittato sono i russi, attraverso l’uso spregiudicato dei miliziani di Wagner, e i cinesi, attraverso gli accordi economici.I colpi di Stato si sono susseguiti e gli europei sono stati a guardare. Ben dieci in quattro anni. L’ultimo, in Niger, è il caso più emblematico. La precedente giunta è stata ribaltata, ma l’attuale ancora non si è schierata apertamente con i russi. Parigi ha sperato che al proprio ambasciatore venisse torto almeno un capello per avere la scusa di un intervento militare, l’Italia è stata sapientemente a guardare mentre Bruxelles si è girata letteralmente dall’altra parte. I prossimi due Paesi a rischio golpe potrebbero essere il Camerun e la Costa d’Avorio, che nel 2025 hanno in calendario le elezioni. La famiglia al comando è filo francese, in entrambi i Paesi. Il fatto che Macron abbia perduto il Sahel non è certo una buona notizia nemmeno per chi come l’Italia ha subito per anni lo strapotere de l’Armée. Il fatto è che i francesi non hanno visto arrivare i russi. Non hanno compreso la tremenda battaglia sulle materie prime. E adesso non hanno gli strumenti per recuperare il terreno perso. Il dramma è che il vuoto che lasciano viene subito riempito da chi sa usare soft power e forza. Mentre più che mai adesso servirebbe un nuovo progetto Nato che includa nel famoso 2% di spesa rispetto al Pil anche i fondi per benedire e lanciare le nostre private military company. Mercenari? No, ex militari che sotto i controlli Nato facciano all’estero ciò che gli eserciti non sono tenuti a fare. Fanta geopolitica? No solo realismo. Di certo un obiettivo molto più semplice dei problemi che ci spettano dentro l’Europa. Se infatti il vuoto di potere che si viene a formare in Africa qualcuno nel bene o nel male lo riempie, da noi il modello è diverso. Purtroppo il vuoto che l’asse di Aquisgrana si appresta a lasciare è molto difficile da riempire e rischia di diventare una voragine che risucchia il resto. I conti e le finanze della Francia sono sotto gli occhi di tutti. L’automotive è in crisi e il modello Airbus (frutto del medesimo asse) comincia a licenziare i dipendenti. Abbiamo davanti anni interessanti e molti Paesi si butteranno sugli accordi bilaterali con i Paesi extra Ue per diversificare il rischio.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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