Se qualcuno non volesse affidarsi alla propaganda, che a proposito della guerra in Ucraina imperversa sulla maggior parte delle testate, e decidesse di capire come sta andando il conflitto e quale sia la concreta efficacia delle sanzioni decise contro Putin, dovrebbe per prima cosa dare un’occhiata all’andamento del rublo. All’inizio, quando i carrarmati di Mosca varcarono il confine per attaccare Kiev, la quotazione della moneta russa ebbe un crollo, fino a far immaginare che fosse diventata carta straccia. Per effetto delle misure decise dall’Occidente, con il blocco delle transazioni finanziarie e il congelamento delle riserve depositate in diverse banche centrali, il futuro dell’economia moscovita sembrava piuttosto incerto e il rublo, di conseguenza, ne seguiva l’andamento. Tuttavia, a distanza di oltre un mese dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la moneta russa è praticamente tornata ai livelli precedenti. Sulla base delle notizie fornite dagli organi di informazione occidentali, il fenomeno sembra abbastanza inspiegabile. I racconti e le analisi che si trovano su gran parte della stampa descrivono una Russia al collasso, ormai prossima al fallimento, impossibilitata a pagare i debiti a causa del sequestro delle ingenti riserve. A Mosca ci sarebbero le file al bancomat e agli istituti di credito. I supermercati avrebbero gli scaffali vuoti e mancherebbero prodotti come zucchero e farina (anche se la Russia è tra i primi esportatori dell’uno e dell’altra). Come possa essere compatibile una situazione pre fallimentare con un rublo che in poche settimane ha riguadagnato quasi per intero il terreno perso, è uno di quei misteri che nessun economista al momento è stato in grado di svelare.
A dire il vero, ci sono anche altri aspetti che attendono di essere chiariti. Nei giorni scorsi Putin ha annunciato che d’ora in poi i contratti per le forniture di gas non si regoleranno in dollari, ma in rubli, una mossa che di fatto consentirebbe allo zar del Cremlino di aggirare le sanzioni. Ma i Paesi europei, che sono i principali clienti della Russia, hanno replicato di non avere nessuna intenzione di saldare i conti in rubli, perché questa pretesa violerebbe accordi già sottoscritti. Mosca a questo punto avrebbe fatto marcia indietro, o per lo meno questo è ciò che l’altro ieri hanno riferito le agenzie di stampa. In pratica, secondo la versione ufficiale che circola in Occidente, la mossa di Putin sarebbe stata un flop. Peccato che ieri lo zar del Cremlino abbia firmato il decreto per convertire i contratti da dollari in rubli. Nessuno, neanche gli esperti di questo tipo di transazioni, è in grado di spiegare quale sia il gioco di Mosca e che cosa abbiano escogitato gli strateghi del Cremlino per uscire dall’angolo in cui le sanzioni li hanno cacciati. Due cose però sono certe: la prima è che il prezzo del metano è tornato a salire e la seconda è che l’operazione per disinnescare l’arma del blocco delle transazioni, con cui si colpisce Mosca nel portafogli più che sul terreno, non è tramontata. E se gli esperti ancora non sono in grado di comprenderla, potremmo scoprirlo presto con il blocco del gas o con lo sblocco delle sanzioni.
Del resto, che in questo conflitto non tutto sia chiarissimo e non tutti stiano, come apparirebbe leggendo i giornali, facendo la guerra alla Russia, lo si desume anche da altri aspetti. Uno di questi sono le sanzioni agli oligarchi. Bloomberg, agenzia americana di analisi economiche, ha scoperto che il trattamento contro gli uomini più ricchi di Mosca non è uguale per tutti. C’è chi è colpito dalle sanzioni e chi, pur essendo vicino al regime putiniano, non lo è. Che cosa provoca la differenza di trattamento? La risposta è semplice: ci sono alcuni oligarchi che sono cari agli Stati Uniti e sono stati tenuti fuori dalla lista dei collaboratori da colpire. Tanto per essere chiari, se si prendono i 20 oligarchi più ricchi, solo la metà è stata sanzionata. Non stiamo parlando di Roman Abramovich, a difesa del quale si è mosso lo stesso Volodymyr Zelensky. Parliamo di Vladimir Potanin, re dei metalli, di Vagit Alekperov, paperone del gigante Lokoil, di Alexey Mordashov, uno dei più grandi produttori di acciaio, di Leonid Mikhelson, padrone di un gruppo nel settore dell’energia, e di Vladimir Lisin, altro tycoon dell’acciaio. Di questi cinque, l’America non ha sanzionato nessuno, Europa e Gran Bretagna il solo Mordashov. Tra i primi dieci oligarchi, solo tre sono finiti nel mirino degli Stati Uniti. Se si considerano tutti e 20, quelli colpiti dagli Usa sono quattro. Curioso no? Qual è il criterio con cui l’Europa ha deciso di congelare i beni di dieci degli uomini più ricchi della Russia, lasciando in pace gli altri dieci, tra i quali quelli con più soldi, e la Casa Bianca si è limitata a quattro? Nessuno lo sa, ma è evidente che se l’intenzione è quella di isolare Putin o di spingere i suoi «amici» a ribellarsi, in questo modo è difficile raggiungere lo scopo.
C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare. Abbiamo scritto spesso che due terzi del pianeta, ossia la parte più popolata del globo, non sta affatto sostenendo le sanzioni a Mosca. La Cina se ne infischia e lo stesso fanno India, Turchia e un’altra serie di Paesi non proprio democratici. Già questo dovrebbe far pensare. Ma di recente, a uscire dai ranghi di un Occidente compatto contro Putin, è stato il Giappone. Prima il ministro dell’Economia ha annunciato che non avrebbe congelato i beni russi, perché la Costituzione non lo consente, poi ieri il premier nipponico ha fatto sapere che i lavori per la costruzione del gasdotto che unisce il Paese alla Russia proseguiranno. Tradotto: continueremo a fare affari con Mosca.
Per effetto della propaganda e della disinformatia è difficile distinguere il vero e il falso e capire l’andamento della guerra. Tuttavia, se si guarda al conflitto economico, alcune cose si comprendono e forse non coincidono con la narrazione ufficiale.