2020-04-29
Arcuri pasticcia sui 50 cent
a mascherina poi si irrita
e manda al diavolo le Regioni
Il commissario, subissato dalle critiche, perde il controllo. Prima dichiara guerra ai «liberisti da divano», poi dà buca alle Regioni che lo aspettavano in riunione. Infine aumenta il caos sulle protezioni: «Ho fissato il prezzo massimo di vendita, non d'acquisto».Domenico Arcuri è molto arrabbiato. Il commissario straordinario per l'emergenza coronavirus in Italia lo ha fatto intendere durante la conferenza stampa di ieri, dove se l'è presa «con i liberisti che emettono sentenze quotidiane da un divano con un cocktail in mano». Ma non c'è solo questo. Sono passati quasi due mesi dalla nomina a commissario. E a una manciata di giorni dall'inizio della fase 2 manca ancora l'applicazione per il tracciamento su smartphone. Non si sa quando arriverà (a inizio o fine maggio?), né quale sarà il livello di privacy. Manca poi la nuova autocertificazione per la fine del lockdown. Restano infine i problemi per l'acquisto e il reperimento dei dispositivi di protezione. Basti pensare che su 60 milioni di mascherine - in arrivo grazie agli appalti Consip dei primi di marzo - ne sono arrivate solo 3 milioni. Un fallimento, considerando un contratto annullato per il casellario giudiziario di un'azienda e persino un'inchiesta per turbativa d'asta della Guardia di finanza su un'altra. Del resto, la giornata di ieri non era partita nel migliore dei modi per l'uomo scelto dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per fronteggiare l'emergenza sanitaria. Arcuri è ormai talmente vicino al premier che alcuni lo hanno soprannominato «il Conte bis» o «il Conte 2». Ieri il commissario ha deciso di non partecipare alla videoconferenza quotidiana con le Regioni per fare il punto sugli approvvigionamenti. Ha dato forfait. È stato il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, ad annunciarne l'assenza, spiegando che Arcuri si era risentito («è arrabbiato») perché alcuni suoi virgolettati durante la riunione di lunedì mattina erano stati riportati sui quotidiani. È stata La Verità a riferire come il commissario aveva annunciato ai delegati regionali il nuovo prezzo fisso a 50 centesimi delle mascherine chirurgiche. Un atto di trasparenza, quello del nostro quotidiano, che ha anche riportato come Arcuri avesse tranquillizzato tutti quanti sulla possibilità che nel giro di due giorni i prezzi si sarebbero allineati. Sta di fatto che proprio durante la conferenza stampa il commissario ha in parte corretto il tiro, dicendo una frase risultata a tanti incomprensibile. «Ho emanato un'ordinanza in cui ho fissato il prezzo massimo di vendita al consumo delle mascherine chirurgiche, non ho mai pensato di fissare il prezzo massimo di acquisto». Il problema è che intorno al prezzo di 50 centesimi circolano ancora troppe incognite, sia sull'Iva, sia sulle spese di spedizione e distribuzione. Per questo le imprese che hanno convertito la produzione a inizio a emergenza sono sul piede di guerra. Per questo le Regioni, che le acquistano, hanno chiesto chiarimenti, come anche i farmacisti che le vendono. Arcuri però sostiene che nessuna impresa sia contraria al suo provvedimento. «Lo Stato deve incentivare la produzione italiana, come con il Cura Italià: abbiamo rassicurato i produttori che compreremo tutto quello che produrranno. In 105 ci hanno ringraziato, solo uno ha avuto qualche dubbio». Eppure Confcommercio ha lanciato l'allarme, come anche Federmoda. D'altra parte, come insegnano le più semplici regole economiche, quando vengono fissati i prezzi da parte dello Stato a fiorire non è tanto il calmieramento quanto il mercato nero. O in tempi di globalizzazione le mascherine vengono comprate all'estero, nei mercati cinesi e indiani. «Avrei tanta voglia di parlare dalla trincea in cui da 40 giorni mi trovo con il dottor Borrelli e i nostri collaboratori, di parlare dei liberisti che emettono sentenze quotidiane da un divano con un cocktail in mano», ha spiegato ancora Arcuri in conferenza stampa. «Ma non lo farò, il mio dovere è lavorare. Chi dice che il prezzo delle mascherine lo fa il mercato, sorseggiando i loro centrifugati». Poi ha rassicurato: «Da lunedì potremmo distribuire 12 milioni di mascherine al giorno, tre volte l'attuale fornitura. Dal mese di giugno arriveremo a 18 milioni, dal mese di luglio 25 milioni e quando inizieranno le scuole a settembre potremmo distribuire 30 milioni di mascherine al giorno, undici volte quel che distribuivamo all'inizio dell'emergenza». Arcuri ha anche dato certezze sui tamponi, spiegando che l'Italia ne fa di più di tutti gli altri Paesi europei e ha provato a sedare le polemiche sulla app Immuni, scomparsa dai discorsi del premier. A quanto pare sarà operativa a maggio, ma sui tempi non c'è una data. Come non si capisce ancora chi gestirà i dati sanitari dei cittadini italiani. Di sicuro Arcuri non è l'unico arrabbiato. Nel suo doppio ruolo da amministratore delegato di Invitalia si ritrova a gestire un'altra questione di non poco conto. La Lega ha presentato un'interrogazione parlamentare dove si denuncia il pericolo di fallimento di centinaia di aziende giovanili create con le misure Resto al Sud e Selfemployment, un programma lanciato dall'agenzia per lo sviluppo. Invitalia, infatti, non ha pensato a una deroga o a una proroga per chi ha deciso di fare investimenti nella fase precedente al coronavirus: ora sono realtà imprenditoriali che rischiano di chiudere.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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