2024-03-25
La lezione della «carne» in Toscana: il cristianesimo non è una religione
Il nuovo libro di Antonio Socci è un inno alla terra di Dante e Giotto. Nella quale arte e bellezza comunicano il cuore della fede cattolica. Che è anzitutto un fatto, l’Incarnazione, che ha reso possibile la gloria della corporeità.Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo stralci dal nuovo libro del giornalista e scrittore Antonio Socci (Dio abita in Toscana, Rizzoli, 416 pagine, 19 euro, in vendita da domani). Il testo è un «viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale»: un lungo percorso fatto di storia, arte, natura, geografia, bellezza, cucina e letteratura nei luoghi più fecondi e ricchi della Toscana. L’autore - senese, classe 1959 - coglie l’inestirpabile radice cristiana dell’essenza della civiltà universale fiorita nella regione. L’estratto proposto, tratto dal capitolo «Saliva e fango, lacrime e sangue», indaga un aspetto cruciale della cultura cristiana in salsa toscana: la corporeità, «figlia» dell’Incarnazione su cui si fonda il cristianesimo.Al centro di tutto: il corpo. Il corpo di Dio. La sua carne e il suo sangue. Il cristianesimo non è una religione (se non in un senso tutto particolare): è un avvenimento storico, un uomo, Dio fatto carne. Per questo la grande civiltà cristiana fiorita in Toscana celebra la gloria dei corpi.Gli artisti toscani hanno cercato di raffigurare, render presente, toccare il corpo stesso di Dio, la sua bellezza, quelle mani che guarivano tutti, quei piedi che hanno camminato e percorso i deserti per cercare e raggiungere tutti, quell’abbraccio che perdonava tutto e risollevava tutti. Il corpo di quell’uomo che è stato flagellato, macellato e crocifisso per noi. Quel corpo morto che è risorto ed è uscito dal sepolcro. Sono stati sue icone anche i santi perché loro - essendo gli amici di Gesù, come gli apostoli - lo rendevano presente nella loro carne (insieme alla carità della Chiesa) come luce e salvezza e anche come divina potenza di miracolo. [...]I nostri progenitori, che vivevano immersi nella gravosa, faticosa e dolorosa materialità della vita, si aggrappavano a lui, al suo corpo, come naufraghi con tutte le loro pene, o come bambini con le loro speranze. Avrebbero voluto abbracciarlo - come la Madonna, come la Maddalena, come Pietro e Giovanni, come Francesco e Caterina, come i tanti malati, ciechi, lebbrosi, storpi dei Vangeli - perché guariva tutti: «E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano i malati nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello; e quanti lo toccavano guarivano» (Mc 5, 56).Per quanto possa sorprendere, ripeto, il cristianesimo è anzitutto una storia di corpi, del corpo umano di Dio. Tanto che Tertulliano poteva affermare: «Caro salutis est cardo» («la carne è il cardine della salvezza»). Infatti i sacramenti sono segni materiali che ripetono i gesti concreti del Salvatore e che investono e toccano i nostri corpi, così come le mani di Gesù toccavano i malati (e li guarivano), così come le sue braccia avvolgevano nell’abbraccio e i suoi occhi perdonavano e conoscevano gli uomini fino in fondo all’anima e ne avevano misericordia.Con l’Eucaristia, Cristo si fa addirittura nutrimento dei corpi e realmente si fa mangiare: entra nelle viscere con il suo corpo, il suo sangue, la sua anima e la sua divinità. Si fa assimilare dai mortali, impastandosi con la misera carne degli uomini, per assimilarli a lui. Non solo si è fatto uomo, ma ha voluto impastare sé stesso con la nostra stessa carne, malata e in putrefazione, per guarirla. Ecco perché l’«amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce» (Sacramentum caritatis, n. 35). Ecco perché è irresistibile. San Giovanni Crisostomo, da vescovo, dice al popolo di Costantinopoli: «Egli diede a coloro che lo desideravano non solo di vederlo ma di toccarlo, di assaporarlo, di mordere la sua carne […] Noi assaporiamo colui che è assiso nei cieli e adorato dagli Angeli, ed essi non osano mirarlo mentre noi ce ne cibiamo […] Ritorniamo dunque dalla mensa eucaristica come leoni spiranti fuoco dalle nari, fatti terribili al demonio».I mistici portano allo zenit questa vertiginosa comunione fra l’umano e il divino perché è per l’estasi, per la felicità e per la divinizzazione, per «indiarsi» (Par. IV, 28), che l’uomo è stato creato, come mostra Dante nel suo Poema sacro; anche se è impossibile descriverne la felicità, perché «trasumanar significar per verba / non si porìa» (Par. I, 70). Così per santa Caterina - ha detto Benedetto XVI - «le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo […]. Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera 21)».Anche l’appassionata carità della santa senese verso gli ammalati, gli abbandonati, i sofferenti, i disperati ha questa concretezza di carne e sangue investiti dalla potenza d’amore e dalla luce del Risorto. Sembra volerli «impastare» con la carne di Cristo - attraverso se stessa – per salvarli. Quando (lo racconta un affresco del Sodoma in San Domenico, a Siena) accompagna al disperato supplizio un giovane condannato a morte - convertendolo e facendolo innamorare di Gesù e di sé - lei gli tiene maternamente la testa e sente «uno odore del sangue suo» e poi, dopo che viene mozzata, il sangue di lui si riversa su di lei che il proprio sangue desidera «spandere per il dolce sposo Gesù».Servendo giorno e notte i malati nel lebbrosario o nell’ospedale di Siena, Caterina si prese cura di derelitti con il corpo quasi in putrefazione o con piaghe purulente che emanavano un fetore ributtante e una volta - di fronte agli insulti e alle malignità di una di queste disperate -, dopo aver tutto sopportato per giorni, in silenzio, avendo lavato quelle sue piaghe, la convertì e arrivò - nella sua santa eppure lucidissima follia d’amore - a bere dalla scodella «la fetida lavatura della piaga insieme con la marcia» per superare la propria ripugnanza.[...] Diversi episodi delle sue estasi mistiche hanno questo deciso carattere fisico. Per esempio, un giorno del 1370, mentre Caterina, nella basilica di San Domenico, pregava: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo» (Salmo 51), Gesù le appare e le toglie il cuore per «sostituirlo» con il suo, cosicché a lei rimane addirittura una cicatrice (testimoniata dalle compagne più intime) nel fianco sinistro.Un suo figlio spirituale, il beato fiorentino Giovanni Dominici - una figura importante per Firenze, che visse negli anni di Masaccio - scrivendo a Natale su Gesù bambino alle suore del convento del Corpus Domini di Venezia usa queste stupefacenti parole: «Cercate [Cristo] fra voi, o alte menti compagne di Maria, quid regnum Dei intra vos est […]. Adoratevelo, abbracciatevelo, stringetevelo, baciatelo, nascondetelo […], ponetelo al petto della carità - pieno, solo a lui lasciate succiare tutto il vostro Amore». E poi, parlando alle «attive religiose» (le donne del popolo), dice: «State come il bue e l’asino […] or vi odorate questo dolce fiore tra voi nato, leccatelo, gioiatevi con esso».È inevitabile, leggendo queste parole, ricordare san Francesco che nel Natale 1223, a Greccio, proprio per «vedere con gli occhi del corpo» i disagi a cui si sottopose il Figlio di Dio, neonato in una stalla, al freddo, fra gli animali, letteralmente «inventò» il presepio. Dove Dio, fattosi uomo, per infinita umiltà volle nascere come il più misero e povero dei bambini. E poi lo contemplò disprezzato e macellato sulla croce con eguale amore.«Fino al tempo di Francesco,» scrive Thode «la natura umana di Cristo era rimasta celata sotto la natura divina, ma ora veniva decisamente in primo piano.» Auerbach ha rilevato «l’importanza» che ebbe «l’azione di san Francesco d’Assisi sul rinnovamento della fantasia e sulla rinascita dell’intuizione sensibile» e «la cosa,» sottolinea il grande filologo «è nota da gran tempo agli storici dell’arte figurativa».La pittura di Giotto - che è all’inizio dell’arte fiorentina – sgorga proprio dalla spiritualità francescana. La Toscana è così il punto d’incontro fra i nostri due più grandi santi, la mistica Caterina da Siena, che viene dalla spiritualità domenicana, e Francesco. E non a caso Dante - che studiò con i domenicani di Santa Maria Novella e con i francescani di Santa Croce - è una sintesi mirabile di questi due splendidi mondi cristiani e di queste due teologie (lo mostra nel Poema sacro). Dunque - tornando all’anima toscana - questa tenera vicinanza fisica al Salvatore per generazioni è stata vissuta dal popolo cristiano davanti alle immagini degli artisti che hanno rappresentato dappertutto gli eventi della storia del Figlio di Dio fra noi.Il nostro popolo - come san Francesco - desiderava «vederlo con gli occhi del corpo», trovare rifugio nelle sue piaghe come invitava a fare santa Caterina, contemplare la sua dolce e consolante presenza, il suo volto, toccare il suo corpo, perché il fatto stesso dell’Incarnazione di Dio, il suo stesso diventare uomo, carne umana come noi, è il prodigio sconvolgente che non finisce mai di stupire e che non si finisce mai di contemplare: «perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te», scrive sant’Agostino in quelle sue Confessioni così decisive per il padre dell’umanesimo, Francesco Petrarca (e quindi decisive per la nascita della poesia italiana, che da lui specialmente prenderà forma, essendo Dante un «unicum» inarrivabile).«L’umanità di Cristo è la nostra felicità» […] È la frase con cui san Tommaso d’Aquino inizia la parte della Summa theologica in cui parla di Gesù. Dice proprio così: «Ad hunc finem beatitudinis / Al loro destino di felicità [perché questo, la felicità, è il destino dell’uomo: ad hunc finem beatitudinis] / homines reducuntur per humanitatem Christi / gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo».
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