Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo stralci dal nuovo libro del giornalista e scrittore Antonio Socci (Dio abita in Toscana, Rizzoli, 416 pagine, 19 euro, in vendita da domani). Il testo è un «viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale»: un lungo percorso fatto di storia, arte, natura, geografia, bellezza, cucina e letteratura nei luoghi più fecondi e ricchi della Toscana. L’autore - senese, classe 1959 - coglie l’inestirpabile radice cristiana dell’essenza della civiltà universale fiorita nella regione. L’estratto proposto, tratto dal capitolo «Saliva e fango, lacrime e sangue», indaga un aspetto cruciale della cultura cristiana in salsa toscana: la corporeità, «figlia» dell’Incarnazione su cui si fonda il cristianesimo.
Al centro di tutto: il corpo. Il corpo di Dio. La sua carne e il suo sangue. Il cristianesimo non è una religione (se non in un senso tutto particolare): è un avvenimento storico, un uomo, Dio fatto carne. Per questo la grande civiltà cristiana fiorita in Toscana celebra la gloria dei corpi.
Gli artisti toscani hanno cercato di raffigurare, render presente, toccare il corpo stesso di Dio, la sua bellezza, quelle mani che guarivano tutti, quei piedi che hanno camminato e percorso i deserti per cercare e raggiungere tutti, quell’abbraccio che perdonava tutto e risollevava tutti. Il corpo di quell’uomo che è stato flagellato, macellato e crocifisso per noi. Quel corpo morto che è risorto ed è uscito dal sepolcro. Sono stati sue icone anche i santi perché loro - essendo gli amici di Gesù, come gli apostoli - lo rendevano presente nella loro carne (insieme alla carità della Chiesa) come luce e salvezza e anche come divina potenza di miracolo. [...]
I nostri progenitori, che vivevano immersi nella gravosa, faticosa e dolorosa materialità della vita, si aggrappavano a lui, al suo corpo, come naufraghi con tutte le loro pene, o come bambini con le loro speranze. Avrebbero voluto abbracciarlo - come la Madonna, come la Maddalena, come Pietro e Giovanni, come Francesco e Caterina, come i tanti malati, ciechi, lebbrosi, storpi dei Vangeli - perché guariva tutti: «E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano i malati nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello; e quanti lo toccavano guarivano» (Mc 5, 56).
Per quanto possa sorprendere, ripeto, il cristianesimo è anzitutto una storia di corpi, del corpo umano di Dio. Tanto che Tertulliano poteva affermare: «Caro salutis est cardo» («la carne è il cardine della salvezza»). Infatti i sacramenti sono segni materiali che ripetono i gesti concreti del Salvatore e che investono e toccano i nostri corpi, così come le mani di Gesù toccavano i malati (e li guarivano), così come le sue braccia avvolgevano nell’abbraccio e i suoi occhi perdonavano e conoscevano gli uomini fino in fondo all’anima e ne avevano misericordia.
Con l’Eucaristia, Cristo si fa addirittura nutrimento dei corpi e realmente si fa mangiare: entra nelle viscere con il suo corpo, il suo sangue, la sua anima e la sua divinità. Si fa assimilare dai mortali, impastandosi con la misera carne degli uomini, per assimilarli a lui. Non solo si è fatto uomo, ma ha voluto impastare sé stesso con la nostra stessa carne, malata e in putrefazione, per guarirla. Ecco perché l’«amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce» (Sacramentum caritatis, n. 35). Ecco perché è irresistibile. San Giovanni Crisostomo, da vescovo, dice al popolo di Costantinopoli: «Egli diede a coloro che lo desideravano non solo di vederlo ma di toccarlo, di assaporarlo, di mordere la sua carne […] Noi assaporiamo colui che è assiso nei cieli e adorato dagli Angeli, ed essi non osano mirarlo mentre noi ce ne cibiamo […] Ritorniamo dunque dalla mensa eucaristica come leoni spiranti fuoco dalle nari, fatti terribili al demonio».
I mistici portano allo zenit questa vertiginosa comunione fra l’umano e il divino perché è per l’estasi, per la felicità e per la divinizzazione, per «indiarsi» (Par. IV, 28), che l’uomo è stato creato, come mostra Dante nel suo Poema sacro; anche se è impossibile descriverne la felicità, perché «trasumanar significar per verba / non si porìa» (Par. I, 70). Così per santa Caterina - ha detto Benedetto XVI - «le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo […]. Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera 21)».
Anche l’appassionata carità della santa senese verso gli ammalati, gli abbandonati, i sofferenti, i disperati ha questa concretezza di carne e sangue investiti dalla potenza d’amore e dalla luce del Risorto. Sembra volerli «impastare» con la carne di Cristo - attraverso se stessa – per salvarli. Quando (lo racconta un affresco del Sodoma in San Domenico, a Siena) accompagna al disperato supplizio un giovane condannato a morte - convertendolo e facendolo innamorare di Gesù e di sé - lei gli tiene maternamente la testa e sente «uno odore del sangue suo» e poi, dopo che viene mozzata, il sangue di lui si riversa su di lei che il proprio sangue desidera «spandere per il dolce sposo Gesù».
Servendo giorno e notte i malati nel lebbrosario o nell’ospedale di Siena, Caterina si prese cura di derelitti con il corpo quasi in putrefazione o con piaghe purulente che emanavano un fetore ributtante e una volta - di fronte agli insulti e alle malignità di una di queste disperate -, dopo aver tutto sopportato per giorni, in silenzio, avendo lavato quelle sue piaghe, la convertì e arrivò - nella sua santa eppure lucidissima follia d’amore - a bere dalla scodella «la fetida lavatura della piaga insieme con la marcia» per superare la propria ripugnanza.
[...] Diversi episodi delle sue estasi mistiche hanno questo deciso carattere fisico. Per esempio, un giorno del 1370, mentre Caterina, nella basilica di San Domenico, pregava: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo» (Salmo 51), Gesù le appare e le toglie il cuore per «sostituirlo» con il suo, cosicché a lei rimane addirittura una cicatrice (testimoniata dalle compagne più intime) nel fianco sinistro.
Un suo figlio spirituale, il beato fiorentino Giovanni Dominici - una figura importante per Firenze, che visse negli anni di Masaccio - scrivendo a Natale su Gesù bambino alle suore del convento del Corpus Domini di Venezia usa queste stupefacenti parole: «Cercate [Cristo] fra voi, o alte menti compagne di Maria, quid regnum Dei intra vos est […]. Adoratevelo, abbracciatevelo, stringetevelo, baciatelo, nascondetelo […], ponetelo al petto della carità - pieno, solo a lui lasciate succiare tutto il vostro Amore». E poi, parlando alle «attive religiose» (le donne del popolo), dice: «State come il bue e l’asino […] or vi odorate questo dolce fiore tra voi nato, leccatelo, gioiatevi con esso».
È inevitabile, leggendo queste parole, ricordare san Francesco che nel Natale 1223, a Greccio, proprio per «vedere con gli occhi del corpo» i disagi a cui si sottopose il Figlio di Dio, neonato in una stalla, al freddo, fra gli animali, letteralmente «inventò» il presepio. Dove Dio, fattosi uomo, per infinita umiltà volle nascere come il più misero e povero dei bambini. E poi lo contemplò disprezzato e macellato sulla croce con eguale amore.
«Fino al tempo di Francesco,» scrive Thode «la natura umana di Cristo era rimasta celata sotto la natura divina, ma ora veniva decisamente in primo piano.» Auerbach ha rilevato «l’importanza» che ebbe «l’azione di san Francesco d’Assisi sul rinnovamento della fantasia e sulla rinascita dell’intuizione sensibile» e «la cosa,» sottolinea il grande filologo «è nota da gran tempo agli storici dell’arte figurativa».
La pittura di Giotto - che è all’inizio dell’arte fiorentina – sgorga proprio dalla spiritualità francescana. La Toscana è così il punto d’incontro fra i nostri due più grandi santi, la mistica Caterina da Siena, che viene dalla spiritualità domenicana, e Francesco. E non a caso Dante - che studiò con i domenicani di Santa Maria Novella e con i francescani di Santa Croce - è una sintesi mirabile di questi due splendidi mondi cristiani e di queste due teologie (lo mostra nel Poema sacro). Dunque - tornando all’anima toscana - questa tenera vicinanza fisica al Salvatore per generazioni è stata vissuta dal popolo cristiano davanti alle immagini degli artisti che hanno rappresentato dappertutto gli eventi della storia del Figlio di Dio fra noi.
Il nostro popolo - come san Francesco - desiderava «vederlo con gli occhi del corpo», trovare rifugio nelle sue piaghe come invitava a fare santa Caterina, contemplare la sua dolce e consolante presenza, il suo volto, toccare il suo corpo, perché il fatto stesso dell’Incarnazione di Dio, il suo stesso diventare uomo, carne umana come noi, è il prodigio sconvolgente che non finisce mai di stupire e che non si finisce mai di contemplare: «perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te», scrive sant’Agostino in quelle sue Confessioni così decisive per il padre dell’umanesimo, Francesco Petrarca (e quindi decisive per la nascita della poesia italiana, che da lui specialmente prenderà forma, essendo Dante un «unicum» inarrivabile).
«L’umanità di Cristo è la nostra felicità» […] È la frase con cui san Tommaso d’Aquino inizia la parte della Summa theologica in cui parla di Gesù. Dice proprio così: «Ad hunc finem beatitudinis / Al loro destino di felicità [perché questo, la felicità, è il destino dell’uomo: ad hunc finem beatitudinis] / homines reducuntur per humanitatem Christi / gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo».
Solitamente si addebita ad Adam Smith l'idea fondamentale della teoria economica contemporanea: la cosiddetta «mano invisibile» del mercato. Ma in realtà la sua dottrina era molto più complessa e quella che domina oggi il mainstream e piuttosto l'interpretazione ultraliberista che ne hanno dato i moderni. Anzitutto, però, vorrei sottolineare che lo stesso concetto che si racchiude nell'espressione «mano invisibile» del mercato e un'evidente laicizzazione mondana della nozione cattolica di Provvidenza. E lo stesso Adam Smith che suggerisce questa sovrapposizione, ma in realtà è una deformazione gnostica del concetto di Provvidenza.
In pratica tale teoria, che facciamo convenzionalmente risalire a Smith, celebra - per così dire - il «miracolo del mercato». Il presunto «miracolo» consiste in questo: l'operatore economico che, in un mercato di libera concorrenza, si muove ricercando esclusivamente il proprio interesse, automaticamente produce l'efficienza, l'ordine, lo sviluppo e la prosperità di tutti. Quindi la necessaria conseguenza inintenzionale dell'egoismo individuale - considerati i processi socio-economici da esso prodotti - e il bene generale, la prosperità generale.
Per questo - dice questa dottrina - occorre spazzar via lacci e limitazioni alla libera iniziativa e al libero commercio. Lo Stato deve limitarsi al minimo, in pochi settori (come la difesa), per non intralciare il dispiegarsi delle potenzialità del mercato. Ovviamente questa assoluta centralità del mercato non significa - spiegano i liberisti - assenza di regole, né di un quadro giuridico. Né, in riferimento a Smith, della morale.
Il problema, però, non è vedere quanto ciò sia vero, ma se sia giusto e veritiero l'assunto fondamentale. La crisi del 2007-2008 mostra che la ricerca esclusiva dell'interesse egoistico - lasciata massimamente libera di dispiegarsi in tutta la sua potenza - ha portato il mondo sull'orlo del baratro. La smentita della storia è dunque altrettanto clamorosa di quella subita dalla teoria marxista.
Il motivo è - appunto - quello che già nel 1985 il cardinale Ratzinger aveva individuato. L'allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede spiegava: «Per quanto questa concezione si fondi sulla libertà del singolo soggetto economico e pertanto possa essere considerata in quanto tale liberistica, tuttavia nella sua essenza essa e deterministica. Presuppone che il libero gioco delle forze di mercato, con questi uomini e in questo modo, spinga verso una sola direzione, cioè verso l'equilibrio tra offerta e domanda, verso l'efficienza economica e il progresso. Ma in questo determinismo - nel quale l'uomo, nonostante la sua apparente libertà, in realtà opera esclusivamente secondo le costringenti regole del mercato - è insito anche un altro forse ancor più sconcertante presupposto: che le leggi naturali del mercato - se posso cosi esprimermi - sono essenzialmente buone e conducono necessariamente al bene, senza dipendere dalla moralità della singola persona».
Si tratta dunque di un «determinismo» specularmente uguale a quello della dottrina marxista. Infatti, notava Ratzinger, rispetto al libero mercato capitalistico «l'economia centralizzata appare essere l'alternativa morale, alla quale ci si rivolge con una fiducia quasi religiosa e la sua forma diviene addirittura contenuto della religione. […] Tuttavia, nonostante questo contrasto fondamentale sui meccanismi economici concreti, esistono dei punti in comune nei principi filosofici di base. Il primo sta nel fatto che anche il marxismo e un determinismo e che esso promette la totale liberazione come frutto del determinismo. […] Pertanto, considerando i suoi fondamenti, è un errore pensare che il sistema centralizzato sia un sistema morale contrapposto al sistema meccanicistico dell'economia di mercato. Ciò risulta chiaro se si considera per esempio che Lenin aderiva alla tesi di Sombart, secondo cui nel marxismo non ci sarebbe assolutamente alcuna etica, ma solo norme economiche. Indubbiamente qui il determinismo è molto più radicale e profondo che nel liberalismo».
Sappiamo bene quale tragica smentita la storia abbia dato (anche) a questa ideologia che pretendeva di essere scientifica. In entrambi i casi siamo in un orizzonte ideologico gnostico che fa deterministicamente derivare la «salvezza» dell'umanità, cioè il bene, l'ordine e la felicita, da un meccanismo storico che elude il bisogno di una scelta morale dell'uomo e il mistero dell'imponderabile, ciò che eccede le capacità umane.
Si tratta in entrambi i casi di costruzioni ideologiche che - derivando dal protestantesimo - cercano di sfuggire alla drammatica avventura della libertà umana e della grazia (com'è nel cattolicesimo), rifugiandosi in un «sistema» che garantisca la salvezza, la felicita, il bene.
Purtroppo, però, il 1989 per gli uni e il 2007-2008 per gli altri rappresentano le smentite della storia. Da papa, Benedetto XVI, una volta scoppiata la crisi del 2007-2008, tornò sui temi dell'economia, della finanza e della globalizzazione con il messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio successivo (2009): è un testo complesso e profondo, dove il pontefice evidenziava tutti i drammi dell'umanità, da quello della povertà e della guerra, a quello delle politiche demografiche e sulla vita. Per questo Benedetto XVI forniva il punto di appoggio certo per ripartire, dopo le macerie del 1989 e del 2007, basando sui principi giusti le politiche economiche e sociali: la «legge naturale».
Il papa scriveva infatti: «È necessario un “codice etico comune", le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano. Non avverte forse ciascuno di noi nell'intimo della coscienza l'appello a recare il proprio contributo al bene comune e alla pace sociale?».
Benedetto XVI ricordava che già il suo predecessore, Giovanni Paolo II, aveva affermato che la globalizzazione «si presenta con una spiccata caratteristica di ambivalenza» quindi «va governata con oculata saggezza. Rientra in questa forma di saggezza il tenere primariamente in conto le esigenze dei poveri della Terra».
La necessita di governare la globalizzazione deriva dal fatto che «la globalizzazione da sola e incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti». Quindi nessuna «mano invisibile del mercato» può essere la salvezza.
Nelle stesse settimane del 2008 Giulio Tremonti fece riferimento all'antica conferenza del cardinale Ratzinger del 1985. La ricordò intervenendo all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica di Milano, nel novembre 2008. La riflessione di Tremonti, allora ministro dell'Economia, sulla crisi esplosa negli Usa che rimbalzava in Europa, si sviluppò poi in alcuni suoi libri, mettendo sotto i riflettori e sotto accusa «lo strapotere della finanza e in specie quello della speculazione finanziaria». Questo «nuovo tipo di capitalismo» che divora l'economia reale e - invece di beni - produce devastanti bolle speculative, veniva definito da Tremonti addirittura «fascismo finanziario». E «l'odierna dittatura del denaro» che tiene gli Stati alla sua mercé.
Ma - con la crisi del 2007-2008 - si è capita la causa del disastro? Tutt'altro. L'ex ministro dell'Economia spiegava che affrontando questa crisi l'Occidente ha fatto altri «tre tragici errori: non ha capito la differenza tra un normale ciclo economico e una crisi storica; ha pagato con denaro pubblico il conto dell'azzardo privato; ha scambiato regole false per regole vere. In sintesi, ha passivamente accettato la vittoria della finanza sulla politica». Inoltre il trasferimento «nei debiti pubblici» delle «perdite private» non ha comportato nemmeno delle correzioni nelle regole: «Nessuna nuova vera regola per la finanza e davvero entrata in vigore» e «l'élite finanziaria e rimasta a tenere le leve del potere e, evitato per ora il fallimento, somministra le sue lezioni morali e fallimentari ai giovani, ai popoli, ai governi. Da ultimo, non esitando nel ricorso alla presa diretta del potere».
Detto tutto questo, la globalizzazione vissuta nell'Unione europea è ancora più penalizzante. Spiega Tremonti: «A differenza degli Stati Uniti d'America e della Cina, l'Europa e dentro la globalizzazione, ma non come soggetto attivo, piuttosto come oggetto quasi totalmente passivo. […] Ciò riduce fortemente fino a comprimerlo il grado della sovranità democratica. […] L'Unione europea, con una popolazione maggiore di quella degli Usa (508 milioni rispetto a 321 milioni) e con un prodotto interno lordo in assoluto pure maggiore rispetto a quello degli Usa (circa 19 trilioni di dollari rispetto a 18 trilioni di dollari), ha invece privilegiato il mercato globale e con questo ha sacrificato e sottomesso le democrazie e gli Stati».
La strada che consiglia Tremonti è la stessa che abbiamo sommessamente prospettato in queste nostre pagine: «E arrivato il tempo di mettere di nuovo lo Stato sopra la finanza e la finanza sotto lo Stato. […] Farlo, finalmente, vuole dire chiudere un ciclo ventennale di prevalenza contronatura dell'interesse particolare sull'interesse generale». Lo stesso Benedetto XVI, nel messaggio del 1° gennaio 2009 che abbiamo citato, prospetta e suggerisce questa via: «La storia dello sviluppo economico del XX secolo insegna che buone politiche di sviluppo sono affidate alla responsabilità degli uomini e alla creazione di positive sinergie tra mercati, società civile e Stati». È in effetti la storia del trentennio d'oro dell'Italia (e dell'Europa), quello che va dal 1945 al 1975 e che ha rappresentato per il nostro Paese (come per tutta l'Europa occidentale) il più straordinario periodo di prosperità, di democrazia e di libertà.
Da una parte c'imbattiamo in qualcosa di indicibile, per proteggere il quale Benedetto XVI dà risposte poco comprensibili, astruse o ironiche, dall'altra lo stesso Papa emerito lascia sempre piccoli segnali che -per chi vuol intendere - fanno intuire qualcosa della verità.
È accaduto anche con le due lettere di risposta al cardinale Walter Brandmüller pubblicate dal giornale tedesco Bild nel settembre 2018. Il cardinale è da sempre un grande amico, estimatore e sostenitore di Joseph Ratzinger, ma essendo rimasto molto contrariato dalla sua rinuncia, in alcuni interventi - articoli e interviste - ha manifestato vigorosamente il suo disappunto. Lo ha fatto quasi imputando a lui la situazione disastrosa in cui la Chiesa si trova col pontificato di Jorge Mario Bergoglio (il quale però non è stato eletto da Benedetto XVI, ma proprio dai cardinali). Inoltre, Brandmüller ha pure contestato la qualifica di «Papa emerito» che -sostiene - «è estranea a tutta la tradizione canonistica teologica».
La critica all'amico è stata molto forte. Così Benedetto XVI gli ha risposto con due lettere private il 9 novembre e il 23 novembre 2017. Sono lettere dove traspare la sua amarezza, ma miti e gentili nel tono. È ovvio che il Papa emerito sa che ogni sua lettera scritta può diventare pubblica e spesso lo diventa. Quindi è sorvegliatissimo nell'esprimersi come se parlasse davanti a un uditorio.
Se qualcosa di significativo vuol trasmettere lo fa -per così dire - in codice, con espressioni che hanno diverse chiavi di lettura. Infatti, in queste due lettere, puntualmente diventate pubbliche - come dicevo - Benedetto XVI ricorre all'argomento paradossale, analogo a quello dell'unico vestito in guardaroba: precisamente dove dice che il suo problema era quello di restare «inaccessibile ai media», cosa che - a suo dire - non sarebbe stata possibile tornando cardinale.
Ratzinger sa benissimo che questo argomento è del tutto inconsistente […] perché ci sono porporati di Curia - come il cardinale Andrzej Maria Deskur - che hanno vissuto gli ultimi anni dentro le mura vaticane del tutto inaccessibili.
Lui poteva benissimo risiedere dove ora risiede senza essere Papa emerito. Fra le due cose (l'essere inaccessibili ai media e il titolo di Papa emerito) non c'è alcun rapporto. Infine, va pure detto che, da Papa emerito, ha fatto un libro intervista, ha concesso interviste, firmato prefazioni e messaggi, ha ricevuto e riceve molte persone. Quindi è difficile pensare che il problema fosse quello dell'inaccessibilità.
In quelle due lettere, poi, Benedetto prospetta argomenti che hanno una doppia interpretazione: una per i media e per la Curia (e allora sembrano espressioni innocue, anche se contraddittorie o incomprensibili); e una per chi può capire il messaggio.
Per esempio, dove il Papa emerito, a proposito dei Papi che in passato rinunciarono, si chiede: «Cosa sono stati dopo? Papa emerito? O cosa invece?». Dal punto di vista storico è una domanda che dovrebbe avere già una risposta chiara: ci fu chi tornò monaco come Celestino V e chi tornò cardinale come Gregorio XII. Ratzinger lo sa benissimo e sa che mai nella storia della Chiesa passata - fino a Giovanni Paolo II - si è parlato di «Papa emerito». Ma al- lora perché pone quelle domande? Per capirlo occorre leggere più avanti: «Non sappiamo se questo semplice ritorno al cardinalato sarebbe stato effettivamente possibile. Nel mio caso sicuramente non avrebbe avuto senso affermare semplicemente un ritorno al cardinalato».
Non sarà che Benedetto -attraverso queste strane considerazioni, che sembrano un po' assurde (dal punto di vista storico) - vuol ripeterci in realtà quello che disse nel suo ultimo discorso pubblico, ovvero che il munus petrino rimane «per sempre»? In effetti con questa interpretazione (che solo pochi possono cogliere) quelle domande acquistano un significato, diventano pertinenti e ragionevoli.
In un altro passo, Benedetto XVI si preoccupa perché - se fosse tornato cardinal - «in quel cardinale si sarebbe visto l'ex Papa» creando confusione. Ma non sarebbe stato forse un ex Papa? Qual era il problema in questo caso? Non voleva essere scambiato per uno che è ancora Papa oppure non voleva essere considerato «ex» Papa?
In concreto se uno vuole evitare malintesi e vuol far capire che non è più Papa, che non c'entra più nulla col papato, cosa deve fare: diventare cardinale e vestirsi da cardinale oppure definirsi Papa, col nome da Papa e con la veste da Papa? Parrebbe ovvio optare per la prima strada. Invece la scelta che Joseph Ratzinger ha fatto è la seconda e questo fornisce la vera chiave per capire quelle strane considerazioni e ciò che veramente pensa.
Infine, nelle due lettere ci sono alcune cose chiarissime e molto importanti. Anzitutto emerge, in entrambe, il suo giudizio allarmato sulla situazione attuale della Chiesa (sotto Bergoglio) tanto che Bild ha titolato proprio su questo: «Papa Benedetto XVI molto preoccupato per la sua Chiesa». Peraltro, Benedetto sapeva bene di scrivere a uno dei cardinali che più si sono esposti criticamente nei confronti di Bergoglio (è uno degli autori dei dubia, un documento di critica e richiesta di chiarimento rivolto a papa Francesco su Amoris laetitia e in particolare sulla comunione ai divorziati). Da quanto si legge nelle due lettere non c'è alcuna traccia di rimprovero per questo, né alcuna presa di distanza. C'è invece un giudizio preoccupato sul momento presente della Chiesa in generale che coincide con quello del cardinale.
Ma il «segnale» più significativo si trova in fondo alla seconda lettera perché - dopo aver risposto all'amico porporato - saluta scrivendo: «Con la mia benedizione apostolica». Chi può dare la benedizione apostolica? Solo il Papa. Certo, può darla pure - per delega generale che fu stabilita da Benedetto XIV - il vescovo titolare di una diocesi, ma non il vescovo emerito, a meno che non sia stato delegato. In ogni caso il vescovo titolare (che può anche suddelegare ai sacerdoti) può impartirla solo in certe festività solenni, seguendo un certo rituale e al massimo tre volte l'anno. E sempre «a nome del Romano Pontefice». Così pure quando viene data per certi riti e celebrazioni di sacramenti.
Allora, che pensare di quell'espressione contenuta nella lettera di Benedetto XVI? Impartire la benedizione apostolica così - come ha fatto Benedetto - significa semplicemente essere il Papa, perché quella è una prerogativa del Papa (non Papa emerito, ma Papa).
Egualmente - per fare un paragone - nell'ordinamento italiano il presidente della Repubblica può concedere la grazia. Ma non può farlo il presidente emerito della Repubblica. Occorre avere lo ius. Si può avere lo ius e non esercitarlo (e questo è probabilmente il caso di Benedetto XVI), ma non lo si perde se - semplicemente - si rinuncia a esercitarlo attivamente. Un cittadino italiano che ha diritto di voto può rinunciare a partecipare alle elezioni, ma non per questo perde lo ius, non diventa un ex elettore, ma solo un elettore che non esercita un suo potere. Forse allora il vero messaggio della lettera di Benedetto XVI è proprio quello racchiuso in quella benedizione apostolica... C'è molto da riflettere.
È assai significativa anche un'altra espressione che compare nel congedo: «Preghiamo invece, come lei ha fatto alla fine della sua lettera, perché il Signore venga in aiuto della sua Chiesa». Parole che di nuovo confermano il giudizio drammatico che Benedetto XVI ha sul momento presente della Chiesa, ma anche parole che fanno intuire qual è la missione di intercessione in cui egli è oggi impegnato.




