2022-03-29
Per gli americani Biden è inadeguato. Il presidente ha bisogno di badanti
Il 71% degli statunitensi non lo ritiene in grado di affrontare la minaccia russa. Scaricato dai leader europei, subisce l’attacco del «Wsj»: «Le sue facoltà in affievolimento. Si affidi a consiglieri fuori dalla cerchia dem».Summit del segretario di Stato Usa con Israele, Eau, Bahrein, Marocco ed Egitto. Si parla di atomica iraniana e della crisi alimentare causata dall’intervento russo.Lo speciale contiene due articoli.Subito dopo la sconfitta di Donald Trump a novembre 2020, la battuta più ritwittata tra i progressisti di mezzo mondo era che finalmente gli «adulti fossero tornati nello Studio Ovale». Insomma, con l’elezione di Joe Biden finiva non solo quella che a sinistra era stata considerata come un’usurpazione da parte dell’odiato Trump, ma anche - si sosteneva - l’era dell’improvvisazione e dell’incompetenza. «Mi sto abbracciando da solo», recitava un indimenticabile tweet di Paolo Gentiloni scritto non dal tavolino di un bar ma dagli uffici della Commissione Ue. Dopo neanche un anno e mezzo da quelle sprezzanti espressioni di giubilo, è lecito tirare le somme. In patria, Biden è già percepito come un’anatra zoppa: sondaggi al minimo (secondo una rilevazione Nbc News, il 71% degli americani ha scarsa fiducia nella capacità del presidente di affrontare l’invasione russa) e sconfitta quasi certa (con relativa perdita della maggioranza parlamentare) alle elezioni di midterm nel prossimo novembre. Per sovrammercato, la sua vice Kamala Harris appare inadeguata e divisiva. E fuori, nello scenario internazionale? L’infortunio di sabato in Polonia è solo l’ultima - in ordine di tempo - delle disavventure di Biden. Una cosa resta incerta: se la frase riferita a Vladimir Putin («Per l’amor di Dio, quest’uomo non può rimanere al potere») fosse o non fosse inclusa nel testo ufficiale del discorso. Se non lo era, desta preoccupazione che il presidente degli Stati Uniti si sia fatto prendere la mano, aggiungendo a braccio una frase così esplosiva in una situazione tanto delicata. Se invece lo era (come chi scrive è orientato a credere), è ancora più grave che dopo pochi minuti sia giunta una rettifica da parte della stessa Casa Bianca, dando l’idea non di un commander in chief, ma di un uomo assistito da «badanti politici». Il risultato è comunque sotto gli occhi di tutti. In Europa, è partita (la Verità ve l’ha già raccontato ieri) la corsa a smarcarsi, da Emmanuel Macron a Olaf Scholz a Josep Borrell: in particolare a Parigi, non è parso vero di poter cogliere la prima occasione dopo molte settimane per tracciare una linea di politica estera non convergente con Londra e Washington. A Mosca, il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha invece colto la palla al balzo per accreditare la tesi delle relazioni tra Cina e Russia «al più forte livello di sempre», usando come argomenti il fatto che Pechino abbia ripetutamente criticato le sanzioni contro Mosca, che la Cina manterrà con la Russia normali relazioni economiche e commerciali, e che non ci sia stata una formale e pubblica condanna cinese dell’azione militare russa. Può darsi che Lavrov abbia esagerato con la propaganda, ma - dal suo punto di vista - era la giornata utile per farlo. Negli Usa, intanto, è da segnalare il durissimo editoriale di ieri del Wall Street Journal, che dall’inizio di questa crisi critica Biden nel modo più convincente, e cioè a partire da indefettibili argomenti atlantisti (non certo in base alle ambiguità europee). Nella prima parte del commento, si evocano testualmente le «facoltà in affievolimento» di Biden, occultate da tanti già in campagna elettorale solo per ostilità contro Trump. Poi, in mancanza di alternative praticabili («Volete davvero la vicepresidente Kamala Harris nello Studio Ovale?», domanda il Wsj ai lettori), il quotidiano chiede esplicitamente che sia a livello parlamentare sia a livello di consiglieri di politica estera, si vada oltre la cerchia dem («Biden ha bisogno di nuovi consiglieri e di aiuto dal Congresso per fare deterrenza contro la Russia e altre minacce crescenti»). Conclusione: «Il mondo sta entrando nel periodo più pericoloso dalla caduta dell’Urss, e forse addirittura dagli anni Trenta. La crisi del Covid ha oscurato la tendenza, ma i pericoli sono diventati ovvi nel momento in cui gli avversari hanno reagito a ciò che percepiscono come un declino americano, divisione e debolezza alle radici della debacle in Afghanistan. Biden deve sostenere le sue parole di Varsavia con un potenziamento della difesa e molto più realismo diplomatico per affrontare i grandi rischi che abbiamo davanti». Il catalogo è lungo. Primo: l’illusione, denunciata da Niall Ferguson, di ottenere il massimo risultato in Ucraina con il minimo sforzo. Secondo: il rischio di offrire troppo poco in termini energetici rispetto alle necessità europee. Terzo: il pasticcio dell’accordo con l’Iran, fonte di probabili ulteriori tensioni in Medio Oriente. Quarto: essersi fatti trovare in questo momento con le relazioni diplomatiche al minimo con l’Arabia Saudita. Quinto: lasciare che l’India sia sempre più in posizione terza. Su tutto questo, non servono parole esplosive, anzi. La battuta più efficace e amara l’ha fatta il direttore di Atlantico Federico Punzi, secondo cui Biden sta rovesciando la celebre frase attribuita a Theodore Roosevelt («Parla dolcemente e porta con te un grosso bastone»). La sensazione è che l’attuale inquilino della Casa Bianca faccia il contrario: durezza a parole, fragilità nei fatti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/americani-biden-inadeguato-presidente-badanti-2657054467.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="intanto-blinken-cerca-nuovi-alleati" data-post-id="2657054467" data-published-at="1648512169" data-use-pagination="False"> Intanto Blinken cerca nuovi alleati Aldilà delle dichiarazioni sopra le righe del presidente degli Stati Uniti Joe Biden a Washington D.C., a farla da padrone sono sempre il pragmatismo e l’interesse nazionale che sono il marchio di fabbrica del cosiddetto «Stato profondo» americano. Prova ne è il vertice denominato «Summit del Negev» tenutosi domenica 27 e lunedì 28 marzo a Sde Boker, nel sud di Israele dove si sono incontrate le massime autorità diplomatiche di Israele, Emirati Arabi, Bahrein, Marocco, Egitto e Stati Uniti. Attorno al tavolo voluto dal ministro degli esteri israeliano Yair Lapid si sono riuniti il segretario di Stato americano Antony Blinken, Abdullah bin Zayed Al Nahyan per gli Emirati Arabi, Abdullatif bin Rashid Al-Zayani per il Bahrein, Nasser Bourita per il Marocco e Sameh Shoukry per l’Egitto. «Questa nuova architettura - le capacità condivise che stiamo costruendo - intimidisce e scoraggia i nostri nemici comuni, in primo luogo l’Iran e i suoi delegati», ha affermato Lapid. Un vertice quanto mai necessario per discutere di cooperazione economica, di come rispondere alla crisi alimentare causata dal conflitto tra Russia e Ucraina, ma soprattutto per rassicurare Israele e quei paesi arabi che sospettano che un accordo nucleare con l’Iran consentirà al regime degli ayatollah di poter costruire una bomba atomica e di rafforzare l’esportazione del terrorismo e dell’instabilità in tutto il Medio Oriente fomentata da Teheran. Timori più che giustificati visto che l’Iran sta sponsorizzando la guerra dei ribelli Houthi in Yemen che solo pochi giorni fa hanno attaccato una raffineria a Jeddah in Arabia Saudita e lanciato missili contro gli Emirati Arabi Uniti. Gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali loro alleate ritengono il ripristino dell’accordo nucleare iraniano del 2015 come la migliore opzione possibile. Anche se, sempre a proposito di pragmatismo, Blinken ha offerto una serie di rassicurazioni agli alleati regionali di Washington nel caso in cui la diplomazia fallisse. «Come vicini e, nel caso degli Stati Uniti, come amici, lavoreremo insieme anche per affrontare le sfide e le minacce alla sicurezza comuni, comprese quelle provenienti dall’Iran e dai suoi delegati», ha affermato Blinken che è convinto che riproporre l’accordo nucleare del 2015 «è il modo migliore per rimettere il programma nucleare iraniano nella scatola in cui si trovava» pur ribadendo che gli Stati Uniti «continueranno a resistere all’Iran quando ci minaccia o quando minaccia i nostri alleati e partner». Domenica mattina il segretario di Stato Usa era stato ricevuto dal primo ministro israeliano Naftali Bennett con il quale ha discusso della crisi russo-ucraina ma non solo, l’amministrazione americana vorrebbe che Israele rilanciasse il processo di pace con i palestinesi che al momento, è fermo. Un tema che non è al momento nell’agenda a Gerusalemme visto che secondo il governo israeliano «le condizioni non sono adatte per alcun rinnovo della diplomazia con i palestinesi - che, da parte loro, hanno affidato l’onere a Israele». Concludendo i due giorni di discussioni nel deserto dove è sepolto il suo padre fondatore David Ben-Gurion, Israele ha affermato che «l’evento sarà ripetuto e ampliato man mano che costruisce legami commerciali e di sicurezza con stati arabi sunniti che la pensano allo stesso modo di noi». Mentre Blinken ha aggiunto: «Dobbiamo essere chiari sul fatto che questi accordi di pace regionali non sostituiscono il progresso tra palestinesi e israeliani». Gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco hanno normalizzato i legami con Israele nell’ambito dell’iniziativa americana nota come «Accordi di Abramo» del 2020, mentre l’Egitto già nel 1979 era stato il primo paese arabo a fare pace con Israele.
Il caffè di ricerca e qualità è diventato di gran moda. E talvolta suscita fanatismi in cui il comune mortale si imbatte suo malgrado. Ascoltare per credere.