La capa francese dell’Eurotower ha aperto il paracadute per i titoli di Stato del suo Paese: misura che fu fatta pagare carissima all’Italia nel 2018. Con 20 miliardi in pochi mesi, a Parigi è risparmiata una crisi da spread.
La capa francese dell’Eurotower ha aperto il paracadute per i titoli di Stato del suo Paese: misura che fu fatta pagare carissima all’Italia nel 2018. Con 20 miliardi in pochi mesi, a Parigi è risparmiata una crisi da spread. Italia-Francia si è ridotto ad appena 40 punti, un crollo di circa 90 punti rispetto a soli 12 mesi fa. Da allora la Bce, anziché riversare sul mercato almeno 25 miliardi di titoli francesi giunti a scadenza, ne ha ricomprati in misura massiccia, al punto che il rimborso netto di titoli alla Bce è stato di appena 4,5 miliardi, ben inferiore ai 38,7 della Germania e ai 24,1 dell’Italia.Tale risultato è stato ottenuto grazie a una quotidiana e inusuale presenza delle mani forti della Bce, in acquisto sui titoli francesi. Nessuno può dire con certezza cosa sarebbe accaduto senza questo sostegno, ma è innegabile che i volumi in acquisto mobilitati dalla Bce a partire proprio da giugno e, soprattutto, il solo fatto che Francoforte abbia manifestato la propria presenza, abbia fatto desistere molti investitori dal picchiare ancora più duramente in vendita sui titoli francesi. «Mai scommettere contro la banca centrale» è un vecchio adagio sempre valido sui mercati.Questa attività della Bce è legittima ed esplicitamente enunciata più volte dalla Lagarde, come prima linea di difesa presente all’interno della cassetta degli attrezzi a sua disposizione per affrontare eccessive turbolenze dei mercati. Anzi, il fatto stesso che la Bce abbia fatto ricorso all’utilizzo di questo strumento è l’ammissione abbastanza preoccupante della dimensione e della gravità della situazione creatasi sui titoli pubblici francesi da giugno in poi. Se non ci fossero stati problemi, non avremmo letto deviazioni così significative nella politica di intervento di Francoforte sui mercati. Un aiuto prezioso per le quotazioni dello stock dei titoli del debito pubblico francese, pari al 31 ottobre a 2.926 miliardi, contro i 2.546 dell’Italia.La Lagarde dovrebbe spiegare quali siano state le esigenze di tutela della stabilità finanziaria che hanno giustificato un intervento di tale entità. O se non fosse stato più opportuno lasciare che i mercati avessero fatto il loro lavoro, prezzando il debito francese in autonomia. Come accaduto ai titoli italiani, il cui spread a maggio 2018, poco prima delle elezioni, era intorno a 120, per poi lasciarlo in balia dei mercati fino a ottobre-novembre, quando sfiorò i 300 punti. Anche allora, come oggi, la Bce gestiva soltanto i rimborsi dei titoli in scadenza. Ma allora Francoforte scomparve dai terminali dei trader e il perché va chiesto a Mario Draghi, non alla Lagarde. Erano i mesi del governo giallo-verde Conte 1 e della famosa disputa sul deficit/Pil al 2,4%, ridottosi poi, dopo qualche settimana di «massaggio» di spread tra 280 e 300, al 2,04%. Inezie, rispetto al 6/7% della Francia del 2024 o anche rispetto al 5% promesso per il 2025. Se anche a Parigi nelle ultime settimane fosse stato riservato lo stesso severo trattamento, non avrebbe mai potuto permettersi una legge di bilancio come quella in discussione, peraltro a rischio bocciatura parlamentare. Avrebbe invece dovuto tagliare pensioni e investimenti, aumentare le tasse, in misura molto più consistente rispetto ai 60 miliardi che si prospettano. Una «cura Monti» che è stata parzialmente evitata alla Francia, perché la Bce ha calmato i mercati e la Lagarde ha fatto esattamente il contrario del famoso «non siamo qui per ridurre lo spread» del marzo 2020. Il grimaldello usato dalla capa della Bce è semplice, flessibile, efficace e di uso altamente discrezionale. I due programmi di acquisto di titoli Pspp (lanciato da Draghi nel 2015) e Pepp (lanciato dalla Lagarde nel 2020 per l’emergenza lockdown) sono terminati da tempo e la Bce gestisce solo i rinnovi dei titoli a scadenza o i rimborsi. Per il Pspp si tratta di circa 30/40 miliardi al mese e per il Pepp di 7,5 miliardi. La distribuzione di tali rimborsi (per il Pspp) e rimborsi e rinnovi (per il Pepp) tra i titoli dei vari Paesi dell’eurozona dovrebbe seguire, seppure non rigidamente, una base di ripartizione predefinita (la cosiddetta «capital key»). Per la Francia, pari al 20,4% e per l’Italia al 17%. Ovviamente le scadenze dei titoli non consentono di rispettare rigidamente questa ripartizione, per cui, per esempio, ogni mese i 25/30 miliardi netti di titoli rimborsati alla Bce dagli Stati sono ripartiti con modeste deviazioni rispetto alle percentuali predefinite. Fin qui tutto normale. Sta di fatto, però che, proprio da giugno, le deviazioni a favore delle Francia hanno assunto proporzioni inusuali. Non è più un caso attribuibile al calendario variabile delle scadenze dei titoli: da Francoforte è stata lanciata una ciambella di salvataggio per Parigi. Sommando i due programmi Pspp e Pepp, da giugno ad ottobre (domani avremo i dati di novembre) ci sono stati rimborsi netti per 120,1 miliardi: 38,7 di titoli tedeschi, 24,1 di titoli italiani e solo 4,5 di titoli francesi (contro i 29,6 miliardi dei cinque mesi precedenti: differenza abissale). Questi ultimi avrebbero dovuto essere almeno 24 miliardi e quindi ne mancano all’appello circa 20. Tutta minore pressione in vendita, che ha portato evidente sollievo alle quotazioni, perché si tratta di poco meno di un terzo delle emissioni nette del Tesoro francese del terzo trimestre (67 miliardi) che altrimenti avrebbe dovuto trovarsi altri compratori a tassi ragionevolmente più alti.Numeri che non possono passare inosservati e che mettono in luce, ancora una volta, il decisivo ruolo di natura politica dalla Bce. Al riparo della foglia di fico dell’indipendenza, la Bce è stata ed è attore decisivo nel mercato del debito pubblico francese e se il Paese non è in rivolta sociale, quella vera, Macron deve ringraziare la Lagarde.
Intervista con Barbara Agosti, chef di Eggs, la regina delle uova che prepara in ogni modo con immensa creatività
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Il Quirinale aveva definito «ridicola» la rivelazione sul piano anti-Meloni del dirigente. Peccato che egli stesso abbia confessato che era vera, sminuendo: «Solo chiacchiere tra amici...». Lui è libero di tifare chi vuole: non a fianco del presidente della Repubblica.
Qualche scafato cronista, indispettito per aver preso quello che in gergo giornalistico chiamiamo «buco», ieri ha provato a metterci una pezza e a screditare lo scoop della Verità sul consigliere chiacchierone e maneggione di Sergio Mattarella. Purtroppo per lui, dietro le nostre rivelazioni non c’è nessun anonimo: se abbiamo rivelato che Francesco Saverio Garofani vagheggiava un «provvidenziale scossone» per far cadere Giorgia Meloni, e la costituzione di una grande lista civica che la possa battere alle prossime elezioni, è perché delle sue parole abbiamo certezza.
Annalisa Cuzzocrea (Ansa)
Sulle prime pagine di ieri teneva banco la tesi della bufala. Smentita dall’interessato. E c’è chi, come il «Giornale», si vanta di aver avuto l’informazione e averla cestinata.
Il premio Furbitzer per il giornalista più sagace del Paese va senza dubbio a Massimiliano Scafi del Giornale. Da vecchio cronista qual è, infatti, lui ci ha tenuto subito a far sapere che quella «storia», cioè la notizia delle esternazioni del consigliere del Quirinale Francesco Saverio Garofani, lui ce l’aveva. Eccome. Gli era arrivata in redazione il giorno prima, nientemeno, e con un testo firmato Mario Rossi, nota formula usata dai più sagaci 007 del mondo quando vogliono nascondersi. C’era tutto. Proprio tutto.
Elon Musk e Francesco Saverio Garofani (in foto piccola) Ansa
Da responsabile dei temi per la Difesa, l’ex parlamentare dem avrebbe avuto un peso determinante nel far sfumare l’accordo tra il governo e l’azienda di Elon Musk.
Inizio 2025. Elon Musk - i suoi rapporti con Trump erano ancora in fase idillio - veniva considerato una sorta di alieno che si aggirava minaccioso nel cielo della politica italiana. C’era in ballo un accordo da 1,5 miliardi per dotare il governo di servizi di telecomunicazione iper-sicuri. Contratto quinquennale che avrebbe assicurato attraverso SpaceX e quindi Starlink un sistema criptato di massimo livello per le reti telefoniche e internet dell’esecutivo, ma l’intesa riguardava anche le comunicazioni militari e i collegamenti satellitari per le emergenze.






