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2019-07-12
Alla fine ce l’hanno fatta a uccidere Lambert
Ansa
Ce l'hanno fatta, Vincent Lambert è morto, è stato fatto morire. Tribunali che amministrano norme nemiche degli uomini e medici che hanno cancellato dalla loro coscienza il giuramento di Ippocrate hanno condannato un uomo a una fine crudele. A nulla sono valsi, quindi, gli sforzi di Jean e Viviane, i suoi genitori, che hanno condotto una battaglia legale per impedire che al figlio fossero interrotte cure e alimentazione. Niente da fare: dal 2 luglio Lambert non era più alimentato e gli erano state sospese le cure. La legge ha consentito che in questi dieci giorni gli venissero solamente bagnate le labbra. A Cristo in croce appoggiarono una spugna imbevuta nel fiele, a Lambert un tampone con qualche goccia d'acqua. In fondo i carnefici francesi sono stati più magnanimi dei centurioni romani.
Adesso tutti scrivono che Lambert era un «simbolo della lotta contro l'eutanasia». Sbagliato. Vincent Lambert non è mai stato un simbolo, una rivendicazione, un «caso» da sollevare e agitare davanti all'opinione pubblica. Era un uomo, una persona di 42 anni che 11 anni fa era rimasto coinvolto in un grave incidente stradale ed era costretto su una sedia a rotelle. Come moltissime altre vittime di sciagure, sentiva, pensava e aveva bisogno di aiuto. Dipendeva in tutto dagli altri perché era un paziente cronico. Non era in coma e non era un malato terminale, benché fosse ricoverato in un reparto di cure palliative. Non era sottoposto a nessuna forma di accanimento terapeutico. Non aveva la Sla come Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, loro sì trasformati in bandiere pro eutanasia. Non sopravviveva in stato vegetativo permanente come Eluana Englaro. Non era intubato, respirava autonomamente, la notte dormiva e di giorno restava sveglio, reagiva agli stimoli esterni. Non che le persone prima citate meritassero la «morte dolce», sia chiaro. Ma per questo l'abominio che è stato perpetrato contro di lui nell'ospedale di Reims è ancora più orrendo.
Nella Francia di Emmanuel Macron, per meritare la morte basta essere un disabile, un povero cristo non autosufficiente, addirittura ricoverato in una struttura medica d'avanguardia, un policlinico universitario dotato di un reparto specialistico sia per la cura di queste infermità sia per le terapie palliative, cioè quelle che ultimamente venivano somministrate a Lambert. Cibo, acqua e gli altri supporti vitali sono considerati terapie. Il paziente, se vuole, può sospenderli. Potrebbe succedere anche in Italia dopo l'approvazione della legge sul biotestamento avvenuta nel 2017, presentata da un deputato del Movimento 5 stelle e votata da un asse trasversale con la sinistra del Pd e di Liberi e uguali riuniti in una maggioranza innaturale con i grillini della scorsa legislatura.
Questa vicenda segna una svolta perché contro Vincent Lambert si è scatenato un accanimento senza precedenti. O meglio, un precedente nella storia c'è, ed è quello dei nazisti che nei campi di concentramento trattarono i disabili come le altre minoranze da sterminare in nome della purezza della razza tedesca. «Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze»: è scritto nel Mein Kampf, autore Adolf Hitler. Accadde così prima ai bambini, poi agli adulti; prima cavie da laboratorio, poi prove generali per l'Olocausto degli ebrei. Dopo violenze e torture, le persone disabili vennero deportate nei campi e uccise nelle camere a gas: i medici tedeschi ritenevano che la morte fosse «subitanea e meno dolorosa». Che gente di cuore.
Quali colpe avevano i disabili tedeschi per subire violenze, torture, esperimenti disumani, e finire con una «morte dolce» che fu soltanto l'inizio dell'aberrante genocidio nazista? E quali colpe aveva Vincent Lambert? Quella di essere un disabile, un tetraplegico, un cerebroleso post-traumatico. Di avere gravi problemi motori e neurologici, che imponevano l'obbligo di assisterlo in centri medici con strutture adeguate. Quanti milioni di persone nel mondo vivono nella condizione di non essere autosufficienti, di essere costretti a una dipendenza cronica? Nemmeno l'essere ricoverati in strutture all'avanguardia della medicina e della ricerca è più garanzia di ottenere una cura.
La ragion di Stato che ha ucciso Vincent Lambert in una Francia che s'impanca a maestra di convivenza civile è un'ignominia ammantata di un falso umanitarismo che è una vera forma di eugenetica. In nome di una vita dignitosa, all'infermiere francese è stata inflitta una morte vergognosa e crudele sotto stretto controllo medico. In questo, Lambert ha subito la stessa sorte di Charlie Gard e di Alfie Evans, i bambini consegnati alla morte nonostante il ricovero in cliniche di altissima specializzazione. Non è la medicina a condannare un paziente: sono gli uomini. I parlamentari che approvano le leggi, i magistrati chiamati a farle applicare, i medici che prendono decisioni contrarie all'etica, i familiari spesso incapaci di reggere il dramma di una malattia inguaribile e di guardare negli occhi una persona che non si muove ma respira, palpita, vuole vivere e si lamenta. La madre l'ha testimoniato più volte: Vincent gemeva. Perché l'agonia è stata lentissima e dolorosa. E la sedazione cui era stato sottoposto non era nemmeno così profonda in quanto, secondo i medici, un'anestesia più pesante avrebbe potuto provocare attacchi epilettici. L'ultima, atroce beffa per Vincent Lambert.
Stefano Filippi
Esplode la rabbia dei genitori: «È stato un delitto dello Stato»
La vita di Vincent Lambert è finita. Lo hanno annunciato in una lettera ieri mattina i suoi genitori, Pierre e Viviane Lambert. «Vincent è morto ucciso dalla ragion di Stato e da un medico che ha rinunciato al suo giuramento di Ippocrate», ha scritto l'anziana coppia. «È il tempo del lutto e della contemplazione ma è anche il momento della meditazione su questo crimine di Stato». Parole forti che dimostrano, una volta di più, la dignità di una madre e di un padre, che si sono battuti fino in fondo per salvare il proprio figlio. Una dignità che si era vista già da martedì scorso, quando il primario dell'ospedale Chu di Reims, Vincent Sanchez, aveva stabilito la fine dell'idratazione e dell'alimentazione dell'ex infermiere psichiatrico.
Dopo la diffusione della notizia della sua scomparsa, ha preso la parola François Lambert, uno dei nipoti di Vincent, da sempre contrario al mantenimento in vita dello zio. Il giovane ha dichiarato che «dopo tutti questi anni di sofferenza, la sua morte è un sollievo. Non è una cosa triste, rimette in ordine le cose». Il nipote del tetraplegico francese spirato ieri ha auspicato che la vicenda resti privata: «I funerali saranno un momento forte e intimo».
Sul fronte politico, il socialista Alain Claeys - firmatario nel 2006 insieme a Jean Leonetti della legge francese sul fine vita - ha sottolineato che l'assenza di direttive anticipate «ha costituito tutta la tragica storia di Vincent Lambert». Marlene Schiappa - segretaria di Stato per le Pari opportunità - ha dichiarato ai microfoni di Franceinfo che «un'evoluzione della legge non è all'ordine del giorno». Nel frattempo il procuratore capo di Reims, Matthieu Bourrette, ha reso noto di aver aperto un'inchiesta, precisando però di non aver aperto un procedimento a carico del dottor Sanchez, contro il quale i genitori e alcuni membri della famiglia Lambert, hanno presentato una causa lo scorso venerdì.
Tra le reazioni, c'è stata anche quella della Conferenza episcopale francese ha preso posizione. Rispondendo al quotidiano cattolico La Croix, il portavoce Thierry Magnin ha usato parole dure: «Attraverso la strumentalizzazione dello strazio di una famiglia, è stata alimentata solo confusione, perché si è considerato il caso di Vincent Lambert come un caso di fine vita. Invece non era in fin di vita». Sempre in ambito ecclesiastico, la Santa Sede ha preso posizione in tre momenti diversi nella giornata di ieri. Il direttore ad interim della Sala Stampa Vaticana - Alessandro Gisotti - ha sottolineato quanto detto dal Santo Padre su questa vicenda: «Dio è l'unico padrone della vita dall'inizio alla fine naturale ed è nostro dovere custodirla sempre e non cedere alla cultura dello scarto. Abbiamo accolto con dolore la notizia della morte di Vincent Lambert» ha continuato il portavoce vaticano, aggiungendo: «Preghiamo affinché il Signore lo accolga nella sua casa ed esprimiamo vicinanza ai suoi cari e a quanti, fino all'ultimo, si sono impegnati ad assisterlo con amore e dedizione». Nel pomeriggio anche papa Francesco ha fatto sentire la propria voce, per mezzo di un tweet sull'account Pontifex. «Dio Padre accolga tra le sue braccia Vincent Lambert. Non costruiamo una civiltà che elimina le persone la cui vita riteniamo non sia più degna di essere vissuta: ogni vita ha valore, sempre». L'Osservatore Romano ha denunciato come la negazione di cibo e acqua significhi abbandonare la persona vulnerabile «in nome di un inaccettabile giudizio di valore sulla qualità della sua esistenza. La logica dello scarto, che impietosamente si accanisce sui deboli e sugli indifesi, non ha come misura solo la dignità della vita, ma anche la dignità della morte».
Verso la fine del pomeriggio di ieri, la salma di Vincent Lambert ha lasciato l'ospedale di Reims in direzione di Parigi dove sarà sottoposto, nella giornata di oggi, ad una autopsia disposta dal giudice Bourrette.
Matteo Ghisalberti
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Il tetraplegico francese ha cessato di vivere ieri, dopo un'agonia lentissima e dolorosa imposta dall'eugenetica che lo ha privato di cibo e acqua. Nel Paese di Emmanuel Macron per essere soppresso in una struttura medica d'avanguardia basta non essere autosufficiente.La Procura ha aperto un'inchiesta. Il Papa: «Ogni vita ha valore, sempre».Lo speciale contiene due articoliCe l'hanno fatta, Vincent Lambert è morto, è stato fatto morire. Tribunali che amministrano norme nemiche degli uomini e medici che hanno cancellato dalla loro coscienza il giuramento di Ippocrate hanno condannato un uomo a una fine crudele. A nulla sono valsi, quindi, gli sforzi di Jean e Viviane, i suoi genitori, che hanno condotto una battaglia legale per impedire che al figlio fossero interrotte cure e alimentazione. Niente da fare: dal 2 luglio Lambert non era più alimentato e gli erano state sospese le cure. La legge ha consentito che in questi dieci giorni gli venissero solamente bagnate le labbra. A Cristo in croce appoggiarono una spugna imbevuta nel fiele, a Lambert un tampone con qualche goccia d'acqua. In fondo i carnefici francesi sono stati più magnanimi dei centurioni romani.Adesso tutti scrivono che Lambert era un «simbolo della lotta contro l'eutanasia». Sbagliato. Vincent Lambert non è mai stato un simbolo, una rivendicazione, un «caso» da sollevare e agitare davanti all'opinione pubblica. Era un uomo, una persona di 42 anni che 11 anni fa era rimasto coinvolto in un grave incidente stradale ed era costretto su una sedia a rotelle. Come moltissime altre vittime di sciagure, sentiva, pensava e aveva bisogno di aiuto. Dipendeva in tutto dagli altri perché era un paziente cronico. Non era in coma e non era un malato terminale, benché fosse ricoverato in un reparto di cure palliative. Non era sottoposto a nessuna forma di accanimento terapeutico. Non aveva la Sla come Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, loro sì trasformati in bandiere pro eutanasia. Non sopravviveva in stato vegetativo permanente come Eluana Englaro. Non era intubato, respirava autonomamente, la notte dormiva e di giorno restava sveglio, reagiva agli stimoli esterni. Non che le persone prima citate meritassero la «morte dolce», sia chiaro. Ma per questo l'abominio che è stato perpetrato contro di lui nell'ospedale di Reims è ancora più orrendo.Nella Francia di Emmanuel Macron, per meritare la morte basta essere un disabile, un povero cristo non autosufficiente, addirittura ricoverato in una struttura medica d'avanguardia, un policlinico universitario dotato di un reparto specialistico sia per la cura di queste infermità sia per le terapie palliative, cioè quelle che ultimamente venivano somministrate a Lambert. Cibo, acqua e gli altri supporti vitali sono considerati terapie. Il paziente, se vuole, può sospenderli. Potrebbe succedere anche in Italia dopo l'approvazione della legge sul biotestamento avvenuta nel 2017, presentata da un deputato del Movimento 5 stelle e votata da un asse trasversale con la sinistra del Pd e di Liberi e uguali riuniti in una maggioranza innaturale con i grillini della scorsa legislatura. Questa vicenda segna una svolta perché contro Vincent Lambert si è scatenato un accanimento senza precedenti. O meglio, un precedente nella storia c'è, ed è quello dei nazisti che nei campi di concentramento trattarono i disabili come le altre minoranze da sterminare in nome della purezza della razza tedesca. «Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze»: è scritto nel Mein Kampf, autore Adolf Hitler. Accadde così prima ai bambini, poi agli adulti; prima cavie da laboratorio, poi prove generali per l'Olocausto degli ebrei. Dopo violenze e torture, le persone disabili vennero deportate nei campi e uccise nelle camere a gas: i medici tedeschi ritenevano che la morte fosse «subitanea e meno dolorosa». Che gente di cuore. Quali colpe avevano i disabili tedeschi per subire violenze, torture, esperimenti disumani, e finire con una «morte dolce» che fu soltanto l'inizio dell'aberrante genocidio nazista? E quali colpe aveva Vincent Lambert? Quella di essere un disabile, un tetraplegico, un cerebroleso post-traumatico. Di avere gravi problemi motori e neurologici, che imponevano l'obbligo di assisterlo in centri medici con strutture adeguate. Quanti milioni di persone nel mondo vivono nella condizione di non essere autosufficienti, di essere costretti a una dipendenza cronica? Nemmeno l'essere ricoverati in strutture all'avanguardia della medicina e della ricerca è più garanzia di ottenere una cura. La ragion di Stato che ha ucciso Vincent Lambert in una Francia che s'impanca a maestra di convivenza civile è un'ignominia ammantata di un falso umanitarismo che è una vera forma di eugenetica. In nome di una vita dignitosa, all'infermiere francese è stata inflitta una morte vergognosa e crudele sotto stretto controllo medico. In questo, Lambert ha subito la stessa sorte di Charlie Gard e di Alfie Evans, i bambini consegnati alla morte nonostante il ricovero in cliniche di altissima specializzazione. Non è la medicina a condannare un paziente: sono gli uomini. I parlamentari che approvano le leggi, i magistrati chiamati a farle applicare, i medici che prendono decisioni contrarie all'etica, i familiari spesso incapaci di reggere il dramma di una malattia inguaribile e di guardare negli occhi una persona che non si muove ma respira, palpita, vuole vivere e si lamenta. La madre l'ha testimoniato più volte: Vincent gemeva. Perché l'agonia è stata lentissima e dolorosa. E la sedazione cui era stato sottoposto non era nemmeno così profonda in quanto, secondo i medici, un'anestesia più pesante avrebbe potuto provocare attacchi epilettici. L'ultima, atroce beffa per Vincent Lambert.Stefano Filippi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/alla-fine-ce-lhanno-fatta-a-uccidere-lambert-2639165225.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="esplode-la-rabbia-dei-genitori-e-stato-un-delitto-dello-stato" data-post-id="2639165225" data-published-at="1765321196" data-use-pagination="False"> Esplode la rabbia dei genitori: «È stato un delitto dello Stato» La vita di Vincent Lambert è finita. Lo hanno annunciato in una lettera ieri mattina i suoi genitori, Pierre e Viviane Lambert. «Vincent è morto ucciso dalla ragion di Stato e da un medico che ha rinunciato al suo giuramento di Ippocrate», ha scritto l'anziana coppia. «È il tempo del lutto e della contemplazione ma è anche il momento della meditazione su questo crimine di Stato». Parole forti che dimostrano, una volta di più, la dignità di una madre e di un padre, che si sono battuti fino in fondo per salvare il proprio figlio. Una dignità che si era vista già da martedì scorso, quando il primario dell'ospedale Chu di Reims, Vincent Sanchez, aveva stabilito la fine dell'idratazione e dell'alimentazione dell'ex infermiere psichiatrico. Dopo la diffusione della notizia della sua scomparsa, ha preso la parola François Lambert, uno dei nipoti di Vincent, da sempre contrario al mantenimento in vita dello zio. Il giovane ha dichiarato che «dopo tutti questi anni di sofferenza, la sua morte è un sollievo. Non è una cosa triste, rimette in ordine le cose». Il nipote del tetraplegico francese spirato ieri ha auspicato che la vicenda resti privata: «I funerali saranno un momento forte e intimo». Sul fronte politico, il socialista Alain Claeys - firmatario nel 2006 insieme a Jean Leonetti della legge francese sul fine vita - ha sottolineato che l'assenza di direttive anticipate «ha costituito tutta la tragica storia di Vincent Lambert». Marlene Schiappa - segretaria di Stato per le Pari opportunità - ha dichiarato ai microfoni di Franceinfo che «un'evoluzione della legge non è all'ordine del giorno». Nel frattempo il procuratore capo di Reims, Matthieu Bourrette, ha reso noto di aver aperto un'inchiesta, precisando però di non aver aperto un procedimento a carico del dottor Sanchez, contro il quale i genitori e alcuni membri della famiglia Lambert, hanno presentato una causa lo scorso venerdì. Tra le reazioni, c'è stata anche quella della Conferenza episcopale francese ha preso posizione. Rispondendo al quotidiano cattolico La Croix, il portavoce Thierry Magnin ha usato parole dure: «Attraverso la strumentalizzazione dello strazio di una famiglia, è stata alimentata solo confusione, perché si è considerato il caso di Vincent Lambert come un caso di fine vita. Invece non era in fin di vita». Sempre in ambito ecclesiastico, la Santa Sede ha preso posizione in tre momenti diversi nella giornata di ieri. Il direttore ad interim della Sala Stampa Vaticana - Alessandro Gisotti - ha sottolineato quanto detto dal Santo Padre su questa vicenda: «Dio è l'unico padrone della vita dall'inizio alla fine naturale ed è nostro dovere custodirla sempre e non cedere alla cultura dello scarto. Abbiamo accolto con dolore la notizia della morte di Vincent Lambert» ha continuato il portavoce vaticano, aggiungendo: «Preghiamo affinché il Signore lo accolga nella sua casa ed esprimiamo vicinanza ai suoi cari e a quanti, fino all'ultimo, si sono impegnati ad assisterlo con amore e dedizione». Nel pomeriggio anche papa Francesco ha fatto sentire la propria voce, per mezzo di un tweet sull'account Pontifex. «Dio Padre accolga tra le sue braccia Vincent Lambert. Non costruiamo una civiltà che elimina le persone la cui vita riteniamo non sia più degna di essere vissuta: ogni vita ha valore, sempre». L'Osservatore Romano ha denunciato come la negazione di cibo e acqua significhi abbandonare la persona vulnerabile «in nome di un inaccettabile giudizio di valore sulla qualità della sua esistenza. La logica dello scarto, che impietosamente si accanisce sui deboli e sugli indifesi, non ha come misura solo la dignità della vita, ma anche la dignità della morte». Verso la fine del pomeriggio di ieri, la salma di Vincent Lambert ha lasciato l'ospedale di Reims in direzione di Parigi dove sarà sottoposto, nella giornata di oggi, ad una autopsia disposta dal giudice Bourrette. Matteo Ghisalberti
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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