2025-04-19
Fabrizi svelò il trucco della sua amatriciana grazie a delle...cipolle
Giuseppe Bepo Maffioli le cucinò prima di incontrare il grande attore che si sciolse quando sentì la «puzza» dell’ortaggio sui vestiti.In quella sorta di autobiografia dai tratti un po’ goliardici, ovvero Diario di un mangiomane, in cui Giuseppe Bepo Maffioli rese pubblico il suo progressivo dedicarsi alla missione di divulgatore e cultore dell’ars culinaria: l’evoluzione conseguente, una volta terminato il servizio militare, dove aveva perso diverse libbre sulla bilancia. «Cominciai a ridiscendere la china suadente, e tuttavia piena di consolazione, dell’obesità».Per una sorta di onestà calorica, confronta periodicamente, al di là della bilancia, il suo evolversi antropomorfo guardandosi allo specchio. Il giudizio è mediato anche da una profonda cultura nel campo dell’arte e della letteratura. Dapprima si riconosce «in una sorta di volto dipinto da Tiziano, anche se ultima maniera». Tenta di camuffare l’adipe delle gote facendo crescere barba e baffi, «con un profilo degno di Paolo Rubens». Alla fine, non c’è storia. Prevale la realtà tanto che «non trovai più giustificazioni nella storia dell’arte e l’immagine cui somigliavo di più era quella dell’omino delle gomme Michelin», una citazione non tanto automobilistica, ma riferita alla nota guida gommata, ambasciatrice della miglior cucina del tempo.Alterna la passione del teatro con quella dei fornelli e nel 1959, assieme all’allora assessore alla Cultura di Treviso, Dino De Poli (altra leggenda locale), dà vita al Festival della cucina trevigiana, il primo di tal genere a livello nazionale, assieme a un altro mito della Marca gioiosa (e golosa), Bepi Mazzotti, al tempo direttore dell’Ente provinciale per il turismo, il «papà» della resurrezione delle ville venete, uno dei simboli della civiltà Serenissima. Fu lo stesso «pontefice regnante», come lo definì Maffioli, a scrivere un’ampia e dotta introduzione, concludendo di sostanza: «Nella nostra terra la cucina rappresenta l’anima della sua gente, assieme alla dolcezza del paesaggio e alla serenità degli orizzonti». Tale fu il successo, fin dalla prima edizione, che sul Corriere della sera si guadagnò il titolo «La Marca Trevigiana, paradiso dei ghiottoni». All’interno della macchina organizzativa, Bepo Maffioli era il motore trainante. È lui quello che sa motivare cuochi e gestori di trattorie del tempo a sfidare la scena e proporre a un vasto pubblico i piatti della tradizione, ma anche a confrontarsi con altre realtà, come avvenuto nella terza edizione del 1961, con ospite d’onore la cucina yankee di New Orleans, cosicché «sui tacchini dipinti in ceramica hanno troneggiato, arrostiti e farciti, gli autentici tacchini degli allevatori americani», cosa che, fino ad allora, avevano potuto apprezzare solo quei trevigiani con la valigia di cartone, migranti che si staccavano dalle radici familiari alla ricerca di realizzare i sogni e le speranze di un benessere migliore.Ma la vera sfida arriva con la quarta edizione, nel 1962. In contemporanea si svolge la mostra di un grande maestro del Cinquecento, Cima da Conegliano. È l’occasione per attualizzare un’altra testimonianza di quel tempo, il ricettario di Cristoforo Messisbugo, il cuoco alla corte degli Estensi. Una sfida epocale, affidata in toto a Maffioli che coinvolge gli amici cuochi del tempo. «Dovevo far salire una tigre sull’elefante e poi farli passare sotto un arco di fuoco», cioè adattare le ricette di allora alla realtà dell’oggi. Ma il nostro ha tempra (e passione) da vendere e ha «sperimentato in corpore vili, cioè a casa mia, le varie ricette, scegliendo poi quelle che si potevano proporre dopo averle offerte alle “amichevoli cavie” (gli amici di sempre) a casa mia e da loro discusse e approvate».Da allora è giunto sino a noi il risotto alla cima, una rilettura del biancomangiare dei testi rinascimentali in cui, tra gli ingredienti, spicca un originale olio di vinaccioli, residuo della lavorazione della vite e da sempre presente nella tradizione trevigiana. Nella carta del menù di allora c’è il potaccio all’ungaresca, una sorta di goulash con mele cotogne e paprika, come la sopa zola all’imperiale, una crema di asparagi abbinata a mandorle, pistacchi, pinoli e zafferano che stimola le papille curiose solo a leggerne. Maffioli è pronto a spiccare il volo ed inizia a collaborare con La cucina italiana delle sorelle Gosetti. Una penna eclettica che si trasfigura con firme diverse. Tra le varie rubriche ce n’è una assolutamente intrigante e divertente «Gentleman chef», in cui il nostro esuberante cronista narra in diretta quella passione più o meno latente che anima volti noti al grande pubblico per eccellere nei più diversi settori.Si parte da Roma con Aldo Fabrizi. L’invito per l’intervista è a pranzo ma Maffioli passa la mattina in casa di amici a preparare per loro alcuni piatti. Il sentore di cipolla è dominante, il nostro cerca di mascherarlo con abbondanti effluvi di fragranza coprente. «Lei sa di lavanda, per fortuna che non dobbiamo sederci a tavola», disse Fabrizi. Pare bocciato ancor prima di cominciare ma poi «il commendator Fabrizi, con il suo fiuto infallibile, sotto la lavanda intuì il mio genuino odor di cipolla» e da qui fraternizzarono davanti ai fornelli complici. Fabrizi trasmette a Maffioli uno dei segreti della sua proverbiale amatriciana: «I pomodori devono cuocere poco, non disfarsi completamente, ma ridursi in fiocchi come foglie di papaveri». È, poi, il turno di Dario Fo: «Mingherlino, dagli occhi grandi, qualcosa tra il grillo che si allunga sulla cicala, con una apparente aria imbambolata». In realtà si ritrovano a tavola, affiancati dalla comune passione per il teatro, ma la deriva culinaria è dietro l’angolo. Invitato a Cernobbio, Maffioli assiste alla cottura del pollastro ruspante sul fornello di pietra con un giovanissimo Jacopo «che funge assai efficacemente da mantice per alimentare la fiamma e sembra, con le gote tutte enfiate, un angioletto di Luca della Robbia». Siamo in tempi di Guerra fredda e i due si inventano là per là la salsa russusa, un ideale ponte di pace che passa per la tavola a base di uova, salsa rubra e senape (americane) e barbabietola rossa e rafano (russe) con due cucchiate yankee di whisky e due di siberiana vodka.Altro teatro narrativo in diretta è l’incontro con il conte Giovanni Nuvoletti Perdomini, intellettuale eclettico, scrittore e, per dieci anni, presidente dell’Accademia italiana della cucina. «Di un’ironia affettuosa e gentile», ma con alcuni tratti non negoziabili. «Gourmet tra i più sapienti e dotati», amava regalare ad amici e conoscenti delle zucche che coltivava nel suo giardino, dono di monache missionarie in Polinesia, ma «dopo averle accuratamente ripulite dei semi» in quanto se ne considerava proprietario esclusivo. Tra i suoi piatti la granceola alla Radetzky, anche se «in realtà è un falso storico, l’ho inventata io», la citazione ammiraglia per darle quel tocco storico-aristocratico che non guasta mai. Viaggia lungo il Canal Grande a Venezia a bordo del Branzin, il piccolo peschereccio di Giancarlo Ligabue, la cui storica azienda di famiglia è stata regina delle forniture navali nazionali e non solo. Ambasciatore della cucina italiana all’estero, le capesante al cognac sono la sua invenzione più richiesta, ma testimone in patria di tante coccole golose apprese altrove, dalle seppie alla malese, sorta di stoccafissi all’orientale essiccati al vento, alle ostriche all’americana, grigliate e speziate, con pepe e cayenna e poi passate al forno con besciamella e parmigiano.