2022-03-11
Al vertice turco si apre uno spiraglio per un incontro tra Putin e Zelensky
Sergej Lavrov, a destra (Ansa)
Sergej Lavrov e Dmytro Kuleba non s’intendono sulla tregua, ma confermano futuri colloqui e l’ipotesi di un confronto tra i presidenti. Emmanuel Macron e Olaf Scholz chiedono al Cremlino il cessate il fuoco. E Gerhard Schröder vede Vladimir Putin a Mosca.È un risultato in chiaroscuro quello dell’incontro, avvenuto ieri in Turchia, tra il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, e l’omologo ucraino, Dmytro Kuleba. Passi avanti nel concreto - chiariamolo subito - non si sono verificati: in particolare, non è stato raggiunto alcun tipo di accordo sul cessate il fuoco. Tuttavia questo vertice non deve essere neppure considerato un completo fiasco. Si sono infatti registrati alcuni segnali che vale la pena sottolineare. Innanzitutto Kuleba si è detto «pronto a un nuovo incontro con Lavrov in questo formato, se ci sono le prospettive per una discussione sostanziale e per trovare soluzioni». Il ministro degli Esteri russo, dal canto suo, ha aperto all’eventualità di un vertice tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin. A una domanda specifica sul tema in conferenza stampa, Lavrov ha risposto: «Penso che tutti sappiano bene che il presidente Putin non rifiuta mai i contatti. Vogliamo solo che questi contatti siano organizzati non solo per il gusto di farlo». «A proposito, oggi abbiamo toccato questo argomento», ha proseguito Lavrov, «il signor Kuleba ha menzionato l’argomento e gli ho fatto notare che siamo sempre favorevoli all’incontro, se possiamo ottenere un valore aggiunto e risolvere un problema». Che questo vertice possa aprire a delle svolte è stato auspicato anche dal capo dell’ufficio di Zelensky, Mykhailo Podolyak, il quale - a colloquio concluso - ha twittato: «Il vertice dei ministri Dmytro Kuleba e Lavrov, mediato dalla parte turca, è fondamentale affinché i vertici politici della Federazione Russa abbiano un’idea più obiettiva e adeguata della situazione in Ucraina e nel mondo». Insomma, la diplomazia sembra essersi (ancorché timidamente) messa in moto, per quanto il quadro complessivo resti al momento complicato. La situazione sul campo continua a rivelarsi drammatica, mentre non è stata ancora decisa una data per il nuovo round di colloqui negoziali tra la delegazione russa e quella ucraina. In tutto questo, Putin ieri è tornato ad attaccare le sanzioni occidentali. «Non ho dubbi che queste sanzioni sarebbero state comunque imposte in un modo o nell’altro, proprio come lo sono state nei molti anni passati», ha detto. «Ma noi, proprio come abbiamo fatto negli anni precedenti, anche ora supereremo queste difficoltà», ha aggiunto.Se Mosca e Kiev oscillano tra senso di ostilità e timide aperture, continuano intanto a muoversi i Paesi che stanno cercando di intestarsi la mediazione. Troviamo innanzitutto la Turchia che, come detto, ha ospitato il vertice di ieri. Ankara intrattiene stretti legami con l’Ucraina, ma ha anche significative connessioni con la Russia (dall’energia alla Difesa, passando per la non sempre semplice collaborazione in aree come la Siria e la Libia). Inoltre è un membro della Nato e, proprio oggi, il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, si recherà nel Paese, per incontrare Recep Tayyip Erdogan. Ankara insomma ha molti interessi in ballo ed è per questo che punta a ritagliarsi il ruolo di principale mediatore nella crisi ucraina. Un fattore che può anche essere incoraggiante, ma fino a un certo punto (soprattutto alla luce della ben nota spregiudicatezza del presidente turco). Un’altra mediazione all’opera è quella di Francia e Germania. Ieri Emmanuel Macron e Olaf Scholz hanno avuto un colloquio telefonico con Putin, chiedendogli un «cessate il fuoco immediato». Inoltre, secondo Al Jazeera, i tre leader avrebbero deciso di «rimanere in stretto contatto nei prossimi giorni». Tutto questo, mentre il ruolo dell’Italia si sta affievolendo: la crisi ucraina, in altre parole, sta ricompattando quell’asse francotedesco che, negli ultimi mesi, sembrava essersi incagliato. Un segnale d’allarme per il nostro Paese, che rischia di ritrovarsi sempre più marginalizzato. Non a caso proprio ieri l’ex cancelliere tedesco (e attuale presidente del colosso energetico russo Rosneft), Gerhard Schröder, si è recato a Mosca per parlare direttamente con Putin, insieme a un esponente della delegazione ucraina impegnata nei negoziati di pace. Tra l’altro, è tutto da dimostrare che Berlino e Parigi si stiano muovendo realmente in coordinamento con Washington (si pensi solo al disallineamento tedesco sulla questione del blocco all’import energetico dalla Russia). Joe Biden, nel frattempo, ha sentito ieri al telefono Erdogan. È possibile che il presidente americano voglia appoggiarsi a lui sul fronte della mediazione. Tuttavia, come abbiamo visto, bisogna fare attenzione, perché in questa vicenda il leader turco si sta molto probabilmente muovendo per tutelare innanzitutto i propri interessi. Sempre ieri, Kamala Harris si è recata in Polonia, dove ha cercato di appianare le divergenze sorte tra Washington e Varsavia sull’ormai nota questione del trasferimento dei jet Mig 29. Nell’occasione, la vicepresidente degli Usa ha annunciato 53 milioni di dollari in assistenza umanitaria all’Ucraina, invocando anche un’indagine sulle «atrocità di proporzioni inimmaginabili», perpetrate dalle forze russe. Va notato che l’amministrazione Biden non si sta muovendo in modo chiaro, oscillando tra durezza e approccio soft. Più che una strategia, il rischio è che si tratti di un comportamento confusionario dettato da varie ragioni. In primis, si registrano problemi di politica interna. Svariati parlamentari americani hanno criticato la Casa Bianca sulla questione dei jet Mig 29, accusandola sostanzialmente di fiacchezza. Tutto questo, mentre ieri Cnn riferiva di fratture all’interno della stessa amministrazione tra Pentagono e Dipartimento di Stato (come del resto già avvenuto ai tempi della crisi afgana). In secondo luogo, l’ambiguità di Biden è dovuta anche al fatto che il presidente vede nella Russia l’unico attore in grado di mediare efficacemente, per rilanciare l’accordo sul nucleare con l’Iran: un’intesa controversa (e pericolosa) che tuttavia l’attuale presidente considera da sempre una priorità della propria politica estera.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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