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2018-09-26
Adesso anche Madrid alza il deficit. Da noi il limite esiste solo sui giornali
Ansa
La linea del Piave sarebbe il deficit all'1,6%. A fissare la soglia è stato nei fatti il Corriere della Sera nella firma e nella penna di Federico Fubini. La cifra non è mai stata pronunciata dal ministro dell'Economia Giovanni Tria. Gli è stata attribuita. È vero anche che non è mai stata smentita. Così come è vero che smentirla significherebbe soltanto confermarla. Tutto ciò per dire che, all'interno della maggioranza di governo, si litigherebbe su qualcosa che galleggia sull'acqua ed è scivoloso come una palla insaponata. La percentuale di deficit, come ha dimostrato ieri Emmanuel Macron confermando che una manovra può andare oltre i paletti purché sia chiara e lineare. Critichiamo, semmai, il fatto che gli interventi a sostegno di Sncf (circa 40 miliardi) finiscano nel bilancio pubblico.
Immaginare però che vengano tagliati 25 miliardi di tasse a fronte di uno sforamento non sembra avere controindicazioni. Purtroppo - per i francesi - l'indomani dell'annuncio, Macron ha reso pubblica la fregatura. L'extra gettito della patrimoniale transalpina nel 2019 varrà oltre 1,5 miliardi. In ogni caso si tratta di capire quali siano gli effetti espansivi sull'economia, e quanto riescano ad alzare il Pil. Anche perché il trend del rapporto tra debito e Pil punta decisamente sul 100%. Meno del 132% italiano, ma a Parigi il debito privato è molto più alto del nostro. A breve Bruxelles dovrà pronunciarsi. La Corte dei conti francese ha già bocciato l'iniziativa di Macron, ma la Commissione da ieri si trova un nuovo fronte «anti dogma» del contenimento di spesa.
In Spagna, ad esempio, il governo di minoranza guidato dal premier socialista Pedro Sanchez due settimane fa aveva comunicato a Bruxelles di non riuscire a centrare l'obiettivo di un deficit pari al 2,2% del Pil e puntare anzi a ottenere un 2,7%. Rinunciare ad alcuni tagli alle spese non garantirà comunque l'approvazione del budget, così Sanchez sta trattando con Podemos per ottenerne l'appoggio «trasversale», promettendo in cambio un incremento della tassazione sulle medie e grandi imprese, una stretta anti evasione e un prelievo sulle banche.
In aggiunta le accise sui diesel in tutta la penisola iberica verrebbero alzate sino al livello di quelle sulla benzina e il gettito (stimato in 2,1 miliardi di euro) andrebbe a finanziare la lotta al cambiamento climatico. Si discute anche della possibilità di introdurre una tassa sulle società di e-commerce calcolata sulla base del fatturato, una misura che pare fatta apposta per colpire Amazon e i grandi colossi mondiali dell'e-commerce senza pesare troppo sugli operatori più piccoli. Ieri la banca centrale spagnola ha fatto sapere che nemmeno il 2,7% sarà rispettato, ma si salirà di un ulteriore punto. In pratica, Madrid si allinea a Parigi.
Con ciò nessuno può pensare che la soglia del 2,8% possa essere valida per il nostro Paese. L'uscita di Luigi Di Maio («copiamo Macron») è da intendere sulla filosofia, non sui numeri. Almeno vogliamo sperare, anche se qualche esponente grillino sembra averla presa sul serio. Ieri ci ha pensato Paolo Savona, ministro per gli Affari comunitari, il quale davanti al Parlamento ha tenuto a puntualizzare l'importanza della riduzione del debito pubblico. Se il presidente del Consiglio e i ministri procedono zigzagando sulla manovra economica e sulla presentazione del Def, il ministro Savona, davanti alla commissione della Camera, «si è rivolto a sorpresa al suo stesso governo per sollecitarlo a un bagno di realismo. Un richiamo tanto più significativo dal momento che viene da una personalità spesso sottoposta ad accuse di euroscetticismo. La replica al vicepremier Di Maio, che vorrebbe per l'Italia uno sforamento del deficit sull'esempio francese, è stata secca: il governo italiano, ha assicurato Savona, starà al di sotto del 2,8% perché il debito pubblico rimane il fianco scoperto del nostro Paese, come ha spiegato ieri anche Daniela Ruffino, deputato di Fi. «Da Savona», ha proseguito la Ruffino, «sono venute secchiate di acqua fredda sugli entusiasmi grillini. Ha difeso l'Unione europea della quale c'è sempre necessità e ha evidenziato l'urgenza di ridurre le iniquità fiscali, altrimenti», ha detto citando il ministro, «il popolo vota poi in modo sbagliato».
Ovviamente questo è il punto di vista di Fi, stressato da esigenze di opposizione. Al di là delle opinioni, Savona fa bene a puntualizzare (implicitamente) due fatti. Il primo è che il deficit non è di per sé un dogma. Il secondo è che un elevato debito pubblico consente esigui margini di ampliamento del deficit. La percentuale di sforamento deve essere il punto di equilibrio tra la recessione e il rilancio. Se il punto viene azzeccato, allora c'è la possibilità che l'anno successivo il Pil cresca e di conseguenza scenda il rapporto con il debito. Lo choc fiscale sarebbe il benvenuto. Per questo da subito ci è piaciuta l'idea della flat tax, quella vera che rispetta il nome. Cioè tassa piatta che vale per tutti. Le toppe fiscali non vanno mai bene perché non indicano una strada precisa e se non bastasse ciò per capire che non vanno bene basta pensare che sono state la filosofia che ha caratterizzato gli ultimi anni.
I paletti dei «minimi» ostacolano la flat tax
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Dopo la Francia, la Spagna ha annunciato all'Ue che non rispetterà gli impegni presi. Il dibattito nostrano, invece, è impiccato all'1,6% che Giovanni Tria non ha mai ufficializzato. Sforare si può, basta che la spesa sia «buona».Allargare la platea della tassazione al 15% è inutile se restano i diktat su beni, assunzioni e partecipazioni.Lo speciale contiene due articoli.La linea del Piave sarebbe il deficit all'1,6%. A fissare la soglia è stato nei fatti il Corriere della Sera nella firma e nella penna di Federico Fubini. La cifra non è mai stata pronunciata dal ministro dell'Economia Giovanni Tria. Gli è stata attribuita. È vero anche che non è mai stata smentita. Così come è vero che smentirla significherebbe soltanto confermarla. Tutto ciò per dire che, all'interno della maggioranza di governo, si litigherebbe su qualcosa che galleggia sull'acqua ed è scivoloso come una palla insaponata. La percentuale di deficit, come ha dimostrato ieri Emmanuel Macron confermando che una manovra può andare oltre i paletti purché sia chiara e lineare. Critichiamo, semmai, il fatto che gli interventi a sostegno di Sncf (circa 40 miliardi) finiscano nel bilancio pubblico.Immaginare però che vengano tagliati 25 miliardi di tasse a fronte di uno sforamento non sembra avere controindicazioni. Purtroppo - per i francesi - l'indomani dell'annuncio, Macron ha reso pubblica la fregatura. L'extra gettito della patrimoniale transalpina nel 2019 varrà oltre 1,5 miliardi. In ogni caso si tratta di capire quali siano gli effetti espansivi sull'economia, e quanto riescano ad alzare il Pil. Anche perché il trend del rapporto tra debito e Pil punta decisamente sul 100%. Meno del 132% italiano, ma a Parigi il debito privato è molto più alto del nostro. A breve Bruxelles dovrà pronunciarsi. La Corte dei conti francese ha già bocciato l'iniziativa di Macron, ma la Commissione da ieri si trova un nuovo fronte «anti dogma» del contenimento di spesa. In Spagna, ad esempio, il governo di minoranza guidato dal premier socialista Pedro Sanchez due settimane fa aveva comunicato a Bruxelles di non riuscire a centrare l'obiettivo di un deficit pari al 2,2% del Pil e puntare anzi a ottenere un 2,7%. Rinunciare ad alcuni tagli alle spese non garantirà comunque l'approvazione del budget, così Sanchez sta trattando con Podemos per ottenerne l'appoggio «trasversale», promettendo in cambio un incremento della tassazione sulle medie e grandi imprese, una stretta anti evasione e un prelievo sulle banche. In aggiunta le accise sui diesel in tutta la penisola iberica verrebbero alzate sino al livello di quelle sulla benzina e il gettito (stimato in 2,1 miliardi di euro) andrebbe a finanziare la lotta al cambiamento climatico. Si discute anche della possibilità di introdurre una tassa sulle società di e-commerce calcolata sulla base del fatturato, una misura che pare fatta apposta per colpire Amazon e i grandi colossi mondiali dell'e-commerce senza pesare troppo sugli operatori più piccoli. Ieri la banca centrale spagnola ha fatto sapere che nemmeno il 2,7% sarà rispettato, ma si salirà di un ulteriore punto. In pratica, Madrid si allinea a Parigi.Con ciò nessuno può pensare che la soglia del 2,8% possa essere valida per il nostro Paese. L'uscita di Luigi Di Maio («copiamo Macron») è da intendere sulla filosofia, non sui numeri. Almeno vogliamo sperare, anche se qualche esponente grillino sembra averla presa sul serio. Ieri ci ha pensato Paolo Savona, ministro per gli Affari comunitari, il quale davanti al Parlamento ha tenuto a puntualizzare l'importanza della riduzione del debito pubblico. Se il presidente del Consiglio e i ministri procedono zigzagando sulla manovra economica e sulla presentazione del Def, il ministro Savona, davanti alla commissione della Camera, «si è rivolto a sorpresa al suo stesso governo per sollecitarlo a un bagno di realismo. Un richiamo tanto più significativo dal momento che viene da una personalità spesso sottoposta ad accuse di euroscetticismo. La replica al vicepremier Di Maio, che vorrebbe per l'Italia uno sforamento del deficit sull'esempio francese, è stata secca: il governo italiano, ha assicurato Savona, starà al di sotto del 2,8% perché il debito pubblico rimane il fianco scoperto del nostro Paese, come ha spiegato ieri anche Daniela Ruffino, deputato di Fi. «Da Savona», ha proseguito la Ruffino, «sono venute secchiate di acqua fredda sugli entusiasmi grillini. Ha difeso l'Unione europea della quale c'è sempre necessità e ha evidenziato l'urgenza di ridurre le iniquità fiscali, altrimenti», ha detto citando il ministro, «il popolo vota poi in modo sbagliato».Ovviamente questo è il punto di vista di Fi, stressato da esigenze di opposizione. Al di là delle opinioni, Savona fa bene a puntualizzare (implicitamente) due fatti. Il primo è che il deficit non è di per sé un dogma. Il secondo è che un elevato debito pubblico consente esigui margini di ampliamento del deficit. La percentuale di sforamento deve essere il punto di equilibrio tra la recessione e il rilancio. Se il punto viene azzeccato, allora c'è la possibilità che l'anno successivo il Pil cresca e di conseguenza scenda il rapporto con il debito. Lo choc fiscale sarebbe il benvenuto. Per questo da subito ci è piaciuta l'idea della flat tax, quella vera che rispetta il nome. Cioè tassa piatta che vale per tutti. 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L'obiettivo della delegazione governativa leghista è innalzare fino a 65.000 euro la soglia di fatturato entro cui si potrà accedere al beneficio (oggi oscilla tra i 30 e i 50.000 euro), allargando in modo notevolissimo la platea dei soggetti interessati: così facendo, secondo le prime stime, al milione di partite Iva che già godono di questo regime, se ne potrebbero aggiungere almeno altre 600.000. E un trattamento altrettanto interessante (tassazione al 20%, quindi comunque di favore) potrebbe essere previsto per chi avrà un fatturato tra i 65.000 e i 100.000 euro annui. Su tutto questo, ci sono tre aspetti positivi da sottolineare, a cui va aggiunto un suggerimento, un accorgimento per rendere la misura ancora più larga ed efficace. Il primo aspetto positivo è che siamo davvero a un passo da un primo avvio della flat tax, sia pure con la variante anomala di una doppia aliquota. Ma il fatto nuovo è la volontà di partire sul serio, dando avvio a un'operazione di legislatura, che anno dopo anno - nelle successive manovre - potrà essere ulteriormente estesa e arricchita. Tra l'altro, se fossero confermate le voci di questi giorni, già in questa legge di bilancio dovrebbero trovare spazio, oltre alle misure pro partite Iva, anche un intervento forte per l'abbassamento dell'Ires, l'estensione della cedolare secca agli affitti commerciali, il varo di un regime di speciale vantaggio per le start up, più la «pace fiscale». Complessivamente, quindi, un pacchetto fiscale di notevole interesse: non uno choc fiscale trumpiano, ma comunque un primo, deciso e consistente passo nella direzione giusta. La seconda buona notizia sta nell'attenzione ai piccoli e ai piccolissimi: iniziare dalle partite Iva di dimensione più ridotta è un altro segnale da non sottovalutare. Il terzo aspetto è una scelta apprezzabile anche in termini di tecnica legislativa: proprio per evitare dispute ideologiche sulla flat tax (infondate ma altrimenti inevitabili), ci sembra valida l'idea di partire da uno strumento già esistente (il regime forfettario dei minimi, appunto), estendendolo e allargandolo. I critici che erano già pronti con la matita rossa e blu avranno così più difficoltà a usarla. Tutto ciò premesso, resta un suggerimento e insieme un incoraggiamento al governo, affinché corregga alcuni paletti che derivano dalla situazione pre esistente, e che, se confermati, rischierebbero di depotenziare la misura, restringendo la platea, e paradossalmente premiando meno coloro che più ne avrebbero bisogno (e merito). Di che si tratta? Secondo l'attuale regime dei minimi, per accedere al trattamento agevolato (tasse al 15%), non basta che una partita Iva abbia un fatturato inferiore a una certa soglia (quella che ora la Lega vuole positivamente alzare a 65.000 euro annui, come detto), ma occorre anche che la spesa per i dipendenti sia bassissima (non più di 5.000 euro annui, addirittura lordi) e che il costo dei beni strumentali non superi i 20.000 euro. Un ulteriore limite, anch'esso discutibile, è quello per cui la partita Iva non deve essere socia di società e associazioni professionali. Sarebbe un'eccellente notizia se il governo decidesse di forzare questi paletti un po' angusti: altrimenti, pur nel quadro di un intervento assai positivo, si rischierebbe il paradosso di vedere escluse dal beneficio - a parità di fatturato - le partite Iva che assumono un collaboratore, che lo pagano regolarmente (evitando il nero), oppure che investono per irrobustire la propria attività. Tra l'altro, allentare quei paletti restrittivi produrrebbe un ulteriore elemento di spinta all'economia, evitando che la partita Iva «esageri» nel rimanere piccola, e anzi incoraggiandola a non aver paura di crescere e scommettere sul futuro, e spingendola a mettere in atto comportamenti per potenziare la propria attività, anziché esser tentata di «volare basso» (nel fatturato, negli investimenti, nell'assunzione di collaboratori) nel timore di perdere il beneficio. Non si tratta solo di dettagli tecnici, come si vede: ma di accorgimenti che investono davvero la portata e l'efficacia della misura, oggetto di sollecitazione anche da parte del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti (Cndcec).
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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