True
2018-06-13
La Francia ci riprova con l'accordo di Caen ma Toninelli stoppa Macron: «I nostri mari non sono a rischio»
True
ANSA
Negli ultimi giorni, complice lo scambio di accuse reciproche tra Palazzo Chigi e l'Eliseo sul tema della gestione dei migranti, i rapporti tra Italia e Francia sono diventati tesissimi. Come se la situazione non fosse già di per sé molto complessa, ecco fare nuovamente capolino una vicenda che nel passato ha suscitato numerose polemiche: quella dei mari contesi tra i due Paesi.
Tutto ha inizio il 21 marzo 2015, quando nella cittadina francese di Caen viene sottoscritto un accordo relativo alla «delimitazione dei mari territoriali e delle zone sotto giurisdizione nazionale tra l'Italia e la Francia». Sei articoli che di fatto regalano ampi tratti di mare ai cugini francesi. In fondo al documento c'è la firma di Paolo Gentiloni, all'epoca ministro degli Esteri del governo guidato da Matteo Renzi, e del suo omologo transalpino Laurent Fabius, al tempo capo della diplomazia dell'allora presidente François Hollande. L'accordo interviene per risolvere la disputa sui confini marittimi, in corso dagli anni Settanta e caratterizzata da continue rivendicazioni di fette di mare da parte dei due Paesi. Come spiega l'ammiraglio Fabio Caffio sul sito analisidifesa.it, «Italia e Francia avevano già intavolato trattative nel 1972 per la delimitazione della piattaforma continentale, ma le avevano poi abbandonate nel 1974 per la difficoltà di raggiungere intese». «Per quanto riguarda la piattaforma continentale» (la porzione di mare antistante alle coste che può essere sfruttata dai singoli stati, ndr), prosegue Caffio, «ognuno dei due Stati dichiarava di aver titolo sino ai limiti consentiti dal diritto internazionale». Successivamente, Roma e Parigi costituiscono in prossimità dei confini contestati e con atti amministrativi unilaterali, rispettivamente, una zona di protezione ecologica (Zpe) e una zona economica esclusiva (Zee). Tentativi di rosicchiare pezzi di mare preziosi in quanto ricchi di pescato e, potenzialmente, anche di materie prime come il petrolio.
L'accordo di Caen, sottoscritto nel silenzio più assoluto dei media e delle istituzioni, sale agli onori delle cronache qualche mese dopo la firma, a gennaio del 2016. Il peschereccio italiano Mina viene infatti posto sotto sequestro dalle autorità transalpine per avere esercitato la pesca del gambero in acque francesi. L'accusa nei confronti dell'imbarcazione è quella di aver varcato i confini stabiliti proprio da quel trattato, che però non risulta mai ratificato dal nostro Parlamento. Una vera e propria querelle diplomatica che ha il merito di riportare alla luce la questione irrisolta delle frontiere marittime contese. Incalzata dalle proteste dei parlamentari, la Farnesina pubblica una nota nella quale precisa che il trattato del 2015 nasce dopo lunghe trattative per «far fronte a un'obiettiva esigenza di regolamentazione anche alla luce delle sopravvenute norme della convezione delle Nazioni Unite sul diritto del mare» ma che, mancando il passaggio della ratifica parlamentare, non risulta ancora in vigore. Trattandosi di un accordo bilaterale, perciò, non è sufficiente infatti il solo via libera dei francesi per considerarlo valido.
La vicenda è tornata alla ribalta quando, a marzo di quest'anno, l'ex deputato Mauro Pili (Unidos) ha denunciato l'utilizzo, nell'ambito di una consultazione pubblica per il progetto strategico francese sul Mediterraneo, di cartografie che riportano confini marittimi come se il trattato di Caen fosse valido. Una nuova ondata di proteste costringe la Francia a fare marcia indietro. Il 19 marzo Nicolas Hulot, ministro del Mare transalpino, pubblica una nota nella quale riconosce che le cartografie in rete contengono degli errori, garantendone la correzione. Le mappe vengono sostituite, sembra tutto risolto e invece proprio in questi giorni Pili denuncia un nuovo «trucchetto» da parte dei francesi. «I francesi ci riprovano a fregarsi il mare nostrum», denuncia il politico sardo. «Nel documento finale della consultazione pubblica ricompare la mappa dell'accordo di Caen con lo scippo di porzioni importantissime delle acque internazionali da sempre utilizzate dai pescatori sardi». Un atto che Pili definisce «arrogante e prevaricatorio», che punta a «precostituire un'opzione silenziosa e subdola su importantissime aree di pesca e non solo a nord della Sardegna».
Pili, raggiunto dalla Verità, conferma che «visto che la ratifica dell'accordo di Caen è saltata, i francesi stanno provando a prendersi il mare con atti amministrativi unilaterali come quello che riguarda le zone economiche esclusive». Fino a oggi la vicenda, sottolinea l'ex deputato, si è svolta con il «silenzio e la complicità del governo Gentiloni». Motivo per cui ora è necessario che «il governo in carica prenda posizione urgentemente senza perdere tempo e comunicare una volta per tutte l'indisponibilità a ratificare l'accordo di Caen». «Quel documento», conclude Pili, «va cestinato senza se e senza ma. Occorre fare formale opposizione al piano strategico di regione marittima francese per evidente manipolazione dei confini e illegale tentativo di acquisire acque internazionali da sempre utilizzate dai pescatori sardi».
Interpellato dalla Verità, il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, ha escluso che allo stato attuale ci possa essere il rischio di cessione di acque territoriali alla Francia. «L'accordo bilaterale di Caen non è stato ratificato dal Parlamento, dunque non produce effetti giuridici», dichiarato Toninelli. «I confini marittimi con la Francia non sono quindi mutati e il diritto internazionale parla chiaro in tal senso».
Related Articles Around the Web
Continua a leggere
Riduci
Il trattato firmato nel 2015 dall'ex premier Paolo Gentiloni non è stato ratificato dal Parlamento ma Parigi prova comunque a prendersi sezioni di acque territoriali a Nord della Sardegna con atti amministrativi unilaterali. Il ministro delle Infrastrutture spiega alla Verità: «Il bilaterale è saltato e i confini non sono quindi mutati».Negli ultimi giorni, complice lo scambio di accuse reciproche tra Palazzo Chigi e l'Eliseo sul tema della gestione dei migranti, i rapporti tra Italia e Francia sono diventati tesissimi. Come se la situazione non fosse già di per sé molto complessa, ecco fare nuovamente capolino una vicenda che nel passato ha suscitato numerose polemiche: quella dei mari contesi tra i due Paesi.Tutto ha inizio il 21 marzo 2015, quando nella cittadina francese di Caen viene sottoscritto un accordo relativo alla «delimitazione dei mari territoriali e delle zone sotto giurisdizione nazionale tra l'Italia e la Francia». Sei articoli che di fatto regalano ampi tratti di mare ai cugini francesi. In fondo al documento c'è la firma di Paolo Gentiloni, all'epoca ministro degli Esteri del governo guidato da Matteo Renzi, e del suo omologo transalpino Laurent Fabius, al tempo capo della diplomazia dell'allora presidente François Hollande. L'accordo interviene per risolvere la disputa sui confini marittimi, in corso dagli anni Settanta e caratterizzata da continue rivendicazioni di fette di mare da parte dei due Paesi. Come spiega l'ammiraglio Fabio Caffio sul sito analisidifesa.it, «Italia e Francia avevano già intavolato trattative nel 1972 per la delimitazione della piattaforma continentale, ma le avevano poi abbandonate nel 1974 per la difficoltà di raggiungere intese». «Per quanto riguarda la piattaforma continentale» (la porzione di mare antistante alle coste che può essere sfruttata dai singoli stati, ndr), prosegue Caffio, «ognuno dei due Stati dichiarava di aver titolo sino ai limiti consentiti dal diritto internazionale». Successivamente, Roma e Parigi costituiscono in prossimità dei confini contestati e con atti amministrativi unilaterali, rispettivamente, una zona di protezione ecologica (Zpe) e una zona economica esclusiva (Zee). Tentativi di rosicchiare pezzi di mare preziosi in quanto ricchi di pescato e, potenzialmente, anche di materie prime come il petrolio.L'accordo di Caen, sottoscritto nel silenzio più assoluto dei media e delle istituzioni, sale agli onori delle cronache qualche mese dopo la firma, a gennaio del 2016. Il peschereccio italiano Mina viene infatti posto sotto sequestro dalle autorità transalpine per avere esercitato la pesca del gambero in acque francesi. L'accusa nei confronti dell'imbarcazione è quella di aver varcato i confini stabiliti proprio da quel trattato, che però non risulta mai ratificato dal nostro Parlamento. Una vera e propria querelle diplomatica che ha il merito di riportare alla luce la questione irrisolta delle frontiere marittime contese. Incalzata dalle proteste dei parlamentari, la Farnesina pubblica una nota nella quale precisa che il trattato del 2015 nasce dopo lunghe trattative per «far fronte a un'obiettiva esigenza di regolamentazione anche alla luce delle sopravvenute norme della convezione delle Nazioni Unite sul diritto del mare» ma che, mancando il passaggio della ratifica parlamentare, non risulta ancora in vigore. Trattandosi di un accordo bilaterale, perciò, non è sufficiente infatti il solo via libera dei francesi per considerarlo valido.La vicenda è tornata alla ribalta quando, a marzo di quest'anno, l'ex deputato Mauro Pili (Unidos) ha denunciato l'utilizzo, nell'ambito di una consultazione pubblica per il progetto strategico francese sul Mediterraneo, di cartografie che riportano confini marittimi come se il trattato di Caen fosse valido. Una nuova ondata di proteste costringe la Francia a fare marcia indietro. Il 19 marzo Nicolas Hulot, ministro del Mare transalpino, pubblica una nota nella quale riconosce che le cartografie in rete contengono degli errori, garantendone la correzione. Le mappe vengono sostituite, sembra tutto risolto e invece proprio in questi giorni Pili denuncia un nuovo «trucchetto» da parte dei francesi. «I francesi ci riprovano a fregarsi il mare nostrum», denuncia il politico sardo. «Nel documento finale della consultazione pubblica ricompare la mappa dell'accordo di Caen con lo scippo di porzioni importantissime delle acque internazionali da sempre utilizzate dai pescatori sardi». Un atto che Pili definisce «arrogante e prevaricatorio», che punta a «precostituire un'opzione silenziosa e subdola su importantissime aree di pesca e non solo a nord della Sardegna».Pili, raggiunto dalla Verità, conferma che «visto che la ratifica dell'accordo di Caen è saltata, i francesi stanno provando a prendersi il mare con atti amministrativi unilaterali come quello che riguarda le zone economiche esclusive». Fino a oggi la vicenda, sottolinea l'ex deputato, si è svolta con il «silenzio e la complicità del governo Gentiloni». Motivo per cui ora è necessario che «il governo in carica prenda posizione urgentemente senza perdere tempo e comunicare una volta per tutte l'indisponibilità a ratificare l'accordo di Caen». «Quel documento», conclude Pili, «va cestinato senza se e senza ma. Occorre fare formale opposizione al piano strategico di regione marittima francese per evidente manipolazione dei confini e illegale tentativo di acquisire acque internazionali da sempre utilizzate dai pescatori sardi».Interpellato dalla Verità, il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, ha escluso che allo stato attuale ci possa essere il rischio di cessione di acque territoriali alla Francia. «L'accordo bilaterale di Caen non è stato ratificato dal Parlamento, dunque non produce effetti giuridici», dichiarato Toninelli. «I confini marittimi con la Francia non sono quindi mutati e il diritto internazionale parla chiaro in tal senso».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
Continua a leggere
Riduci
Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
Continua a leggere
Riduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
Continua a leggere
Riduci