2021-09-23
L’acciaio è ormai solo affare di Stato. Dopo Ilva, Invitalia entra a Piombino
Giancarlo Giorgetti (Getty Images)
Firmato il memorandum con l'indiana Jsw: ignoti i dettagli e le cifre. Roma pensa alla nazionalizzazione dell'intero settore, in crisi nonostante il boom degli ordini. Per i contribuenti rischia di essere un altro salasso.Un passo in più verso l'acciaio di Stato. Ieri, il colosso indiano Jsw di Sajjan Jindal ha definito le modalità di ingresso nella società che gestisce il sito di Piombino di Invitalia, ancora oggi gestita da Domenico Arcuri. «Abbiamo appreso che in queste ore, sebbene informati solo informalmente dalla proprietà, sarebbe stato finalmente siglato il memorandum tra Invitalia e Jsw steel Italy», si legge in una nota di Fim, Fiom e Uilm della provincia di Livorno. «Sebbene rappresenti solo l'inizio di un percorso che ci auguriamo porti velocemente e in tempi certi al closing», continuano i sindacati, «non sfugge che rappresenta un passo significativo nella conferma degli impegni presi e preannunciati dalla vice ministro Alessandra Todde. Questo atto segna l'inizio di un percorso che nell'arco di due mesi di due diligence dovrà portare alla formalizzazione dell'ingresso dello Stato e di conseguenza la definizione del piano industriale condiviso tra le parti. Non intendiamo enfatizzare una firma», hanno concluso, «che sarebbe dovuta avvenire oltre un anno fa, ma riteniamo che il percorso futuro doveva passare obbligatoriamente da questo atto». Ora i sindacati chiedono una convocazione al ministero dello Sviluppo economico per arrivare alla definizione di «un preciso crono programma e per ragionare su quali saranno gli obiettivi che la nuova società ha in mente per il rilancio dello stabilimento di Piombino». I sindacati alla fine accolgono con il sorriso l'ingresso dello Stato. Evidentemente certi che ci saranno sostegni e zero licenziamenti. Hanno ragione. Dovrebbero sorridere di meno i contribuenti. A oggi non si sa l'entità dell'investimento né le condizioni. Tanto più che Piombino non ha certo una storia di successi alle spalle. Nel 2015 l'allora commissario dello stabilimento ex Lucchini, Piero Nardi, individua in Issab Rebrab, imprenditore algerino proprietario di Cevital, l'uomo giusto per il rilancio. Rebrab promette 2 milioni di tonnellate di produzione, il premier Matteo Renzi lo accoglie con la fanfara, ma due anni dopo il ministro del suo successore Paolo Gentiloni è costretto ad ammettere che il piano di rilancio non è andato a buon fine. Carlo Calenda dichiara decaduti gli accordi e rescinde il contratto. A maggio del 2018 lo stabilimento passa di mano. E finisce appunto alla Jindal South West che si avvale della consulenza di Marco Carrai e che già nel 2013 ci aveva messo su gli occhi. E in quel frangente il governo tira una linea sulla maxi causa che l'amministrazione straordinaria aveva intentato a dicembre del 2017 agli algerini. La somma totale per i danni per gli inadempimenti arrivava a 80 milioni di euro e a luglio del 2018 il tribunale di Livorno avrebbe dovuto incasellare la prima udienza. Nel bilancio della società però si legge nero su bianco che la causa è stata estinta ancor prima di arrivare in aula. A fronte di un accordo tombale comprensivo di soli 500.000 euro. Un enorme regalo sia agli algerini, sia agli indiani e al consiglio di amministrazione dove adesso siede Carrai. Diciamo che a fronte di un vero rilancio ne sarebbe anche valsa la pena. Invece in tre anni non si sono visti passi in avanti se non la necessità di sedersi di nuovo a un tavolo di crisi. Tavolo che di fatto non si è più chiuso. Il nuovo piano industriale da parte degli indiani non ha prodotto reazioni di alcun tipo, almeno fino a ieri con la firma del memorandum. Vale la pena ricordare che non c'è stato annuncio ufficiale. E ciò deve un po' fare alzare le antenne. È chiaro che l'obiettivo finale sia nazionalizzare l'intera produzione di acciaio. Invitalia è a Taranto e a breve diventerà azionista di maggioranza rispetto a Mittal. Acciai speciali Terni è stata da poco acquisita da Arvedi, secondo uno schema politico concordato tra il governo e Berlino. È altrettanto facile immaginare che una volta che il patron di Arvedi, Giovanni Arvedi, classe 1937, decida di ritirarsi in pensione, l'azienda potrebbe ricevere un'offerta sempre da Invitalia. Il problema è che non basta nazionalizzare per proteggere il Paese. Nell'acciaio più che in altri settori ci vogliono capacità, strategia, innovazione e tempismo. A oggi la produzione di acciaio lungo la penisola ha superato di poco 15 milioni di tonnellate. Poco più della produzione del 2019. Non siamo stati in grado di cavalcare l'onda della ripresa post Covid e la fortissima richiesta di acciaio. Dentro questo numero c'è un dramma nel dramma. Buona parte del semilavorato è stato importato, mentre Taranto avrebbe potuto alzare l'asticella. Lo Stato è entrato nell'ex Ilva ormai da tre mesi. Ma anche qui non ci sono segnali chiari. Anzi non ci sono segnali. Attendiamo indicazioni dal neo presidente Franco Bernabè. Ma il settore è iper ciclico. E se è difficile intervenire con i prezzi alle stelle e il vento in poppa, che succederà quando il comparto sarà in fase calante? Il protezionismo senza strategia e capacità di attuazione è il peggiore degli statalismi. Speriamo di sbagliare previsione.
Vladimir Putin e Donald Trump (Ansa)