2018-09-12
La Mafia capitale sulla pelle dei migranti era proprio mafia
Ribaltata in Appello la sentenza sull'associazione messa in piedi da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati nella capitale. La metastasi cresciuta a Roma sia con la destra che con la sinistra non era una «puzzonata» da cialtroni. Ma un sistema di potere e violenza che sfruttava disperati. Scusate, era mafia. Non era una comica, nemmeno una commedia, niente a che vedere con i film di Alvaro Vitali e nemmeno con Totò che vende la fontana di Trevi. Mafia capitale era proprio mafia. Anche senza il morto, con buona pace di Giuliano Ferrara, che per convincersi dell'esistenza di una cupola romana, oltre a quella di San Pietro, voleva mettere le dita nel costato di un cadavere crivellato dai colpi della lupara. Poi dicono che vedere troppi film non fa male. Invece, niente: quello di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati non era un film. Era la realtà. Almeno così la pensa la Corte d'Appello di Roma che ribalta la sentenza di primo grado e pur riducendo un po' le pene ai due imputati (14 anni e sei mesi a Carminati, 18 e quattro mesi a Buzzi), li condanna per l'articolo 416 bis del codice penale. Associazione mafiosa. Era il punto più discusso dell'intera vicenda, quello che sta scritto anche nel nome stesso dell'inchiesta. E che conferma che quel sistema di malaffare messo in piedi nella capitale per spartirsi gli appalti, per arricchirsi con l'immigrazione (che come è noto «rende più della droga»), per abboffarsi con i soldi dei campi nomadi (perché, come si sa, «la mucca dev'essere munta»), per lucrare su spazzatura e centri di accoglienza (con un obiettivo chiaro: «Ce magnamo Roma»), era mafia. E, salvo ripensamenti in Cassazione, si potrà chiamare per sempre così. Il nostro pensiero commosso, dunque, non può non andare oggi a coloro che si sono ostinati per anni a ridurre il tutto a ordinaria ruberia, normale malaffare, piccola delinquenza tipica del sottobosco romano. A coloro che scrivevano e parlavano di «puzzonate», «rubacchiamenti», «banda di stracciaculi», «cravattai di periferia», e definivano l'inchiesta come «bufala», «teorema», «pasticcio di serie B», «vanteria dei giudici». Oltre, naturalmente, a quelli che avevano festeggiato la sentenza di primo grado, sperando di aver liquidato il problema una volta per tutte, con toni entusiastici, parlando di «giorno della cilecca» o di «lezione per i pappagalli della Procura». Non ci aspettiamo che chiedano scusa, basterebbe che andassero a nascondersi. Magari dietro a una coppola. Anche se, a dirla tutta, la sentenza della Corte d'Appello dimostra che non c'è bisogno della coppola per parlare di mafia. Ci può essere un sistema da Cosa Nostra anche senza l'apparato da sceneggiatura del Padrino, persino senza vedere una lupara in azione o un agguato all'alba dietro il cimitero, pensate un po'. Lo so che a Ferrara & C. tutto ciò può sembrare strano. E so anche che la riduzione delle pene può essere rischiosa, perché il Carminati mafioso, paradossalmente, potrebbe uscire dal carcere anche prima del Carminati semplice peracottaro. Perversioni del sistema giudiziario italiano. Così come so che per la stragrande maggioranza degli italiani non c'era certo bisogno di questa sentenza per capire che la Grande Schifezza messa in scena a Roma non poteva essere ridotta a una «puzzonata». E allora, vi direte voi, perché questa sentenza è importante? Perché stabilisce che esiste un nuovo tipo di mafia. Che non è un'estensione delle altre già esistenti, no: è proprio un sistema nuovo. Autoctono. Generato all'ombra dei palazzi della capitale. E che fiorisce con le metastasi dei partiti. È la mafia che ha prosperato all'ombra del Pd, che ha controllato la capitale per anni, e del centrodestra, che appena arrivato al potere si è prontamente adeguato. È la mafia della corruzione eletta a sistema di potere, tramite accordi perversi che hanno sfruttato le emergenze e il disagio dei cittadini per trarne guadagni illeciti. È la mafia delle coop farlocche, delle cene spartitorie, della solidarietà usata come paravento per arricchirsi a dismisura. Questo spiega perché era comprensibile (seppur patetico) il tentativo di ridurre tutto questo a livello di rubagalline. Era comprensibile che si cercasse di minimizzare, di dissimulare, di dire che in fondo è sempre stato così, perché scandalizzarsi?, in fondo dai tempi di Lucrezio, Virgilio e Marziale a Roma ci sono state ruberie meritevoli al massimo di «ordinaria bonifica legale» (cit. Ferrara). Era comprensibile perché dire che Mafia capitale non è mafia, significa in pratica dire che non è successo nulla. Invece la Corte d'Appello ci dice il contrario. È successo qualcosa. Di grave. Di serio. Di mai visto prima. A Roma. E non solo a Roma. A pensarci, in effetti, «gli immigrati rendono più della droga», in questi anni, non l'hanno detto o pensato solo i responsabili delle cooperative della capitale. Sulla finta solidarietà ci hanno lucrato in tanti, anche lontano dal Tevere. Con gli stessi metodi. Con gli stessi criteri. Spesso in rete fra loro. Con corruzione e collusioni, viceprefetti inclusi, come dimostrano le tante inchieste ora in corso sul sistema d'accoglienza. Sistema che prima o poi qualcuno potrebbe anche pensare di chiamare, alla luce della nuova sentenza, Mafia Nazionale.
«Murdaugh: Morte in famiglia» (Disney+)
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