2020-09-17
A giudizio il paladino della morte assistita
Il presidente dell'associazione Exit di Torino rischia fino a otto anni di carcere: per la Procura convinse una siciliana, affetta da depressione, a togliersi la vita in Svizzera. La difesa: abbiamo solo fornito informazioni sul testamento biologico.L'ultimo viaggio di Alessandra, destinazione Zurigo, diventa un caso giudiziario senza precedenti. Emilio Coveri, il presidente di Exit Italia, finisce a processo. Il gup di Catania, Marina Rizza, ha accolto la sua richiesta di rito abbreviato. Istigazione al suicidio per il ricorso all'eutanasia. La procura etnea scrive che il paladino della morte assistita «determinava o comunque rafforzava il proposito suicida» della donna. Alessandra Giordano è scomparsa il 27 marzo 2019, dopo aver bevuto un intruglio a base di sodio pentobarbitale che le hanno somministrato nella clinica svizzera Dignitas. La prima udienza è fissata il 5 novembre 2020, con gli interventi dell'accusa e delle parti civili. L'avvocato di Coveri, Arianna Maria Corcelli, aveva chiesto di spostare il processo a Torino, sede di Exit. Ma il giudice ha accolto la tesi dei pm: la competenza resta a Catania, distante pochi chilometri da Paternò, dove viveva la donna di 47 anni. Lei non si è mai incontrata con il presidente dell'associazione. Il reato sarebbe dunque maturato durante il fitto scambio di telefonate, sms e mail. Un rapporto durato dal 2017 al 2019: «Condotte», dettagliano i magistrati, «accompagnate da sollecitazioni e argomentazioni in ordine alla legittimità, anche etica, della scelta suicidiaria». Istigazione al suicidio, conclude la Procura. Lo stesso reato, poi archiviato, di cui nel 2017 s'è autoincolpato Marco Cappato, che accompagnò alla morte dj Fabo, cieco e tetraplegico. Il caso dell'insegnante siciliana è però ben diverso: lei non era una malata terminale. Soffriva di una nevralgia: la sindrome di Eagle. Ma era soprattutto depressa. L'inchiesta catanese, rivelata dalla Verità e da Panorama, è durata sette mesi. L'ha coordinata il procuratore aggiunto, Ignazio Fonzo, assieme al sostituto procuratore, Angelo Brugaletta. Hanno raccolto documenti e corrispondenza. Decisiva è stata anche una consulenza psichiatrica e medico legale. Gli specialisti concludono: Alessandra aveva una «depressione maggiore con caratteristiche miste», non incurabile e neppure irreversibile. Così come la sua sindrome di Eagle: diventata «un'ideazione ossessiva, centrata sul persistente dolore invalidante». Alessandra invece, a marzo 2019, raggiunge all'insaputa di tutti la Dignitas di Zurigo, clinica dei suicidi assistiti. Scoperto l'intento, i familiari cercano di fermarla. Si precipitano in Svizzera. Chiedono alla polizia cantonale di intervenire. Scongiurano Dignitas di fermarsi. Alessandra, però, è già morta. L'inchiesta parte dalla denuncia dei fratelli e della sorella. E, a inizio novembre, ci sarà la prima udienza. Il rito abbreviato garantisce, in caso di condanna, lo sconto di un terzo della pena. Coveri rischia fino a otto anni. Lui adesso spiega: «La signora era una nostra associata e le abbiamo semplicemente fornito, su sua richiesta, le informazioni che le servivano per prendere una decisione. Una procedura normale. Abbiamo 5.000 iscritti e ogni settimana riceviamo almeno 90 telefonate di gente disperata. Ma siamo rispettosi della legge italiana e sappiamo che l'eutanasia nel nostro Paese non è ancora consentita». Agli atti dell'indagine resta la però un articolo pubblicato sulla newsletter di Exit e inviato ai soci a fine 2017. È il dettagliato racconto, vergato dallo stesso Coveri, del primo contatto con Alessandra. «Ha una malattia, e ultimamente ha dovuto smettere di lavorare» annota. «Andiamo avanti a parlare per tre quarti d'ora, dopo mi permette di spiegarle che cosa deve fare, appunto, per andare in Svizzera a morire in esilio, ma con estrema dignità». Alessandra, che è credente, appare perplessa. «Sono felice quando metto giù la cornetta», conclude però Coveri. «Sento che, ancora una volta, ha prevalso la mia teoria: quella che la vita è nostra, di nessun altro. Tantomeno di quel Dio che vuole farci soffrire inutilmente e di tutta la sua banda». Dopo l'iscrizione a Exit, Alessandra matura la sua decisione. Contatta Dignitas. Comincia a mettere assieme i documenti medici necessari. «Emilio, stavolta ci sono riuscita! Il certificato è completo» gli scrive il 24 luglio 2018. Il giorno seguente, un nuovo sms: «Emilio, Dignitas mi ha risposto. Mi faranno sapere al più presto! Io voglio essere positiva. Adesso si riuniranno e decideranno. Speriamo bene. Ciao». E ancora: «Grazie comunque per il sostegno e consigli che mi hai dato». Seguono altre mail e sms. L'insegnante, se ci sono degli intoppi, contatta Coveri. Ma lui, sentito da Fonzo e Brugaletta a luglio 2019, sminuisce ogni ruolo. È stata Alessandra a contattare la struttura elvetica, chiarisce: «Io le ho dato solo informazioni sul testamento biologico. Lei m'informava sulla sua salute. Ma non sono mai intervenuto per convincerla a porre fine alle sue sofferenze». Per i magistrati catanesi, invece, sarebbe stato proprio l'uomo a suggerire la clinica svizzera. Lui nega. Ammette soltanto che, dal 1996 a oggi, molti suoi associati hanno scelto Dignitas, che nella newletter definisce «consorella» di Exit. Prima di venire accettati, spiega, bisogna però inviare la documentazione che attesti condizioni di salute gravi e irreversibili. Poi la direzione sanitaria valuta, caso per caso. Eppure, in oltre trent'anni, a nemmeno un iscritto è stata rifiutata la «dolce morte».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)