2024-11-23
A Cina e Turchia l’elettronica europea. E Bruxelles guarda
La protesta dei lavoratori Beko di Siena
Midea, Haier e Arçelik hanno metà dei siti Ue che producono frigo, tv e lavatrici. Rilevano il brand e poi delocalizzano.Tutti presi come siamo dalla crisi dell’automotive che sta decimando produttori e fornitori in Europa e non solo, abbiamo trascurato l’arrivo di un’altra tempesta che se non è perfetta poco ci manca: quella che ha colpito la filiera degli elettrodomestici. L’onda lunga arriva dal post Covid. Terminata la pandemia, il boom di domande per televisioni e frigoriferi di ultima generazioni, ma anche le richieste per lavastoviglie, lavatrici e altri device, è andata sempre più calando. E con la riduzione degli ordini sono tornati a galla anche tutti i problemi di un settore che soffre per i margini di guadagno risicati, la forte concorrenza e il costo elevato di manodopera ed energia in Italia e in Europa rispetto soprattutto all’Asia. E così, in mancanza di protezioni di qualsiasi tipo, i colossi turchi e cinesi hanno avuto gioco facile a fare del Vecchio Continente un territorio di conquista. Lo schiaffo, anche mediatico, in Italia è arrivato con il caso Beko. Il marchio turco di elettrodomestici, di proprietà del gruppo Arçelik (che ha acquisito le attività di Whirlpool in Europa, Africa e Medio Oriente). Poche ore ha fa da Istanbul è arrivata la decisione: chiusure entro fine 2025 dei siti italiani di Siena e Comunanza, «con la progressiva cessazione delle produzioni. A Cassinetta il piano prevede solo 3 linee produttive sulle attuali 5 di frigoriferi con 541 esuberi». Complessivamente ballano 2.000 posti di lavoro e il governo sta pensando di far valere le imposizioni del Golden power, che pretendeva il mantenimento dei livelli occupazionali per convincere i turchi a fare dietrofront. Ci riuscirà? . Ma anche i siti Electrolux non se la passano bene. Si parla di circa 300 esuberi, in Italia, e della necessità di continuare a tamponare la crisi con il ricorso a contratti di solidarietà che hanno l’obiettivo di evitare i licenziamenti. Si lavora e guadagna meno e intanto si mantiene l’occupazione. Certo, ma fino a quando? Il problema è strutturale e l’Europa non sta facendo nulla per arginare la sete di conquista delle multinazionali turche e cinesi che sono piene di liquidità. E che continuano a conquistare marchi e brevetti europei per poi spostare la produzione lì dove energia e lavoro sono più convenienti e la catena di approvvigionamento, cioè il processo che permette di portare sul mercato un prodotto, è più snella e quindi meno dispendiosa. Parliamo di aziende come Midea, che ha rastrellato nel suo debutto in Borsa ad Hong Kong il doppio delle risorse previste e ha talmente tanta liquidità da dover solo scegliere la prossima preda da aggredire. A giugno, per esempio, ha inglobato la tedesco-spagnola Teka. Ma un discorso analogo vale per Haier che nel 2018 aveva acquistato per circa mezzo miliardo il gruppo Candy dalla famiglia Fumagalli e adesso sta provando faticosamente a rilanciarlo. Oggi il 50% dei siti europei del bianco è in mano ad aziende asiatiche e turche e la situazione è in rapida trasformazione con la crisi che sta aprendo nuove opportunità per la caccia di Pechino e Istanbul. Se l’Europa non reagisce il settore sarà completamente depredato. «Midea, Haier e Arçelik (quindi Beko)», evidenzia alla Verità il segretario nazionale della Fim Cisl, Massimiliano Nobis, «hanno spostato parte della produzione in Egitto per evitare l’imbuto che spesso si viene a creare nel canale di Suez. È solo un esempio, ma fa capire quali siano le strategie di queste multinazionali e lascia intendere che la competizione per “rubare” quote all’Ue, sta diventando una competizione al ribasso che noi non possiamo permetterci». Cosa fare? «Noi a livello nazionale continuiamo a chiedere tavoli al governo per trattare la crisi come sistema, ma siamo anche convinti che delle risposte debbano arrivare per forza di cose dall’Ue. Sui dazi bisogna fare una valutazione tra costi e benefici, mentre non c’è più tempo da perdere per assicurare un sostegno alla catena di distribuzione (supply chain) e ai processi di robotizzazione delle linee produttive e ridurre l’ecessivo costo dell’energia». Il consulente del governo e fondatore di T-Commodity Giancaludio Torlizzi non pensa, invece, che nella vertenza Beko l’uso del Golden power possa essere risolutivo. «Rischiamo», sottolinea, «di snaturare uno strumento che ha la funzione essenziale di preservare gli asset strategici del Paese». Alternative? «Io vedo una doppia fase. Nella prima è necessario ampliare l’uso del meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM) e quindi proteggersi di più. I dazi però finiscono per distorcere il mercato e quindi una volta appianato il terreno, nella fase successiva è indispensabile puntare sulle buone politiche industriali. Innanzitutto con degli incentivi all’acquisto dei beni prodotti in Italia e poi favorendo il processo di aggregazione, perché solo creando economie di scala è possibile ridurre senza artifici i costi».
Donald Trump (Getty Images)
Donald Trump (Getty Images)
Andrea Crisanti (Imagoeconomica)