Per due giorni il nostro cronista ha pedalato a Milano per la Glovo. Doveva incassare 10 euro l'ora. Invece, alla fine, ci ha pure rimesso.«Puoi guadagnare fino a 10 euro l'ora». Sì, forse. Se ti chiami Vincenzo Nibali. A dispetto dello slogan, racimolare uno stipendio dignitoso con Glovo è un'impresa da maglia rosa. E a volte essere veloci non basta, se sei prigioniero di un sistema di rating e lavori in base alle recensioni dei clienti. In due giorni di attività per l'azienda di food delivery spagnola a Milano ho fatto tre consegne, guadagnato 13 euro e speso molto di più per l'attrezzatura e per riparare la bicicletta. Sono tutt'ora in perdita di circa 70 euro. Ma ai colloqui partecipano sempre tanti potenziali riders, italiani e stranieri, convinti di fare un affare. Al di là delle precarietà contrattuali di cui sono comunque consapevoli, contano per loro flessibilità e guadagno. Peccato che spesso le cose siano diverse da come sembrano.Ma cos'è Glovo? È una delle maggiori aziende di cibo a domicilio che operano in Italia. Meno conosciuta di Foodora, Just Eat o Deliveroo, la società di Barcellona ha però un vantaggio sui competitor: consegna tutto. Non solo alimentari, ma sigarette, prodotti d'elettronica e così via. Facile riconoscere i suoi fattorini: sono giallo-verdi, con la scritta Glovo con la goccia rovesciata. Tra le big del settore è una delle ultime arrivate. Forse per questo bastano pochi clic per fissare il primo colloquio da rider. È anche una di quelle che paga meno: due euro a consegna più vari bonus in base ai chilometri percorsi, al tempo di attesa al ristorante e al fattore pioggia. Un sistema a cottimo puro, diverso da quello misto di Foodora ad esempio.D'altronde, Glovo non è tra le aziende firmatarie della Carta dei diritti dei riders che propone una retribuzione oraria. Gli utili sono sostenuti dal basso costo del lavoro, ma anche dalle caparre che i fattorini versano per ricevere l'attrezzatura. Ci sono il cubo (la borsa termica), una power bank, un supporto per lo smartphone da agganciare al manubrio della bici, una carta di debito per pagare i prodotti che i clienti non possono acquistare online e un K-way per la pioggia. Un kit di accessori dato in dotazione in cambio di un deposito di 65 euro, detratto dalle prime buste paga.Quando, però, si decide di appendere «il cubo al chiodo» e restituire tutto, tornano indietro solo 50 euro. La differenza, 15 euro, viene trattenuta per «l'usura dei materiali», spiegano dall'azienda. Peccato che alcuni prodotti non siano di pregevole fattura. Come il sostegno per il telefonino difettoso che ho dovuto fissare con lo scotch per non perderlo durante il tragitto. La vera forza di Glovo è però la partnership con McDonald's, la cui pubblicità campeggia sui cartelloni e le pensiline di tutta Milano. Il primo colloquio è cruciale. L'appuntamento è in un polo dello smart working, vicino a Porta Romana. Entro e chiedo di Glovo. Mi rispondono di aspettare fuori. Per strada ci sono una ventina di ragazzi, quasi tutti stranieri e giovanissimi, sotto il sole, in attesa della chiamata. Una volta dentro, è il momento dell'appello, poi tre semplici domande: «Come ci hai conosciuto? Come consegneresti? Perché vuoi fare questo lavoro?». Sulle risposte si basa la selezione. Mi fingo uno studente universitario con molto tempo libero. Sembra funzionare e infatti nel pomeriggio arriva un'email. Sono stato scelto e posso firmare il contratto di prestazione occasionale: 20% di trattenute, niente ferie, niente malattia, niente contributi per la pensione e la possibilità per entrambe le parti di rescindere il contratto in qualsiasi momento senza motivazione. C'è però un'assicurazione che copre gli infortuni.Al secondo colloquio i candidati sono una decina, ma stavolta gli stranieri sono solo due. Ci spiegano in cosa consiste il lavoro, come gestire le diverse situazioni e ci consegnano l'attrezzatura. Sono ufficialmente un glover, pronto a partire.Prima, però, devo prenotare i turni. Il calendario apre in due giorni: il lunedì e il giovedì. Ma non per tutti allo stesso modo. C'è glover e glover: per alcuni fattorini apre prima, per altri dopo. Tutto dipende dal posizionamento in classifica, calcolato da un algoritmo di rating che trasforma le valutazioni dei clienti e altri parametri di efficienza in un punteggio da 0 a 5 stelle. Più è alto il punteggio e più sale la priorità sulla prenotazione dei turni in calendario. E più stelline hai sul profilo, più è probabile che un ordine sia assegnato a te, invece che a un glover con una graduatoria inferiore. Una sorta di Black Mirror dei pony express che funziona più o meno allo stesso modo per ogni piattaforma di food delivery. I nuovi glover hanno tutti 2.5 stelline. Anche per questo iniziare è sempre difficile. Il rischio è quello di lavorare poco, guadagnare meno e spendere molta fatica. Un circolo vizioso che può durare settimane. Soprattutto se non guidi uno scooter, di solito privilegiato dall'algoritmo.Riesco a prenotare due ore negli orari di punta, tra le 19 e le 21, su due giorni. Quando inizia il turno, mi «loggo» sulla piattaforma e subito arriva il primo ordine. Due hamburger, quattro nuggets di pollo e un Happy Meal da ritirare al McDonald's di via Lorenteggio e consegnare in via Santa Rita da Cascia, in Giambellino: 4 chilometri di strada, 37 minuti in totale. La paga: 4,50 euro. Fatto il mio dovere, non ricevo più niente per il resto della giornata. Nei 90 minuti seguenti giro a vuoto tra Giambellino, Barona, Navigli e Lorenteggio sperando di intercettare qualche nuovo ordine. Senza fortuna. Dopo aver respirato fumi di scarico, scansato buche, evitato bus e furgoni, torno a casa (nell'hinterland) stanco e amareggiato per aver concluso poco. Penso: «Sarà il ranking, sarà la zona». Così, la sera dopo provo a cambiare. Nelle due ore a disposizione decido di coprire i quartieri di De Angeli e San Siro, ma già da casa mi viene assegnato un ordine. Il punto di ritiro è sempre al fast food di via Lorenteggio, la consegna è in Barona, a 3 chilometri e mezzo di distanza. Sfreccio tra i semafori, attraverso cavalcavia e arrivo a destinazione. Citofono alla cliente, apro il cubo e scopro che nel tragitto le bibite si sono rovesciate. Mi scuso e per fortuna la signora capisce. Prima di andare, però, le chiedo lo stesso una valutazione. Lei acconsente, a patto che sia solo per me e non per l'azienda. Tempo impiegato: oltre 40 minuti. Guadagno effettivo: 4,22 euro.Salto in sella, deciso a tornare nella zona che avevo stabilito. Passano 20 minuti, poi il telefono suona di nuovo mentre pedalo. C'è una notifica: due pizze da consegnare in via Osoppo, quartiere San Siro, a quasi 5 chilometri di strada. Rispetto al McDonald's i tempi del ristorante sono più lunghi. Aspetto oltre un quarto d'ora, ma ne approfitto per chiacchierare con due camerieri. Mi parlano con empatia: comprendono la fatica. Uno di loro mi confida di aver fatto il fattorino in passato, proprio per Glovo, ma si guadagnava molto di più. «Adesso hanno ridotto la paga. Ho lasciato perché non era vita», racconta. «Poi la mia ragazza è rimasta incinta e ho dovuto trovare qualcosa di più stabile e sicuro». Prendo le pizze e sfreccio verso San Siro. Arrivo quando mancano 3 minuti alla fine del turno. Consegno i cartoni e guardo il mio compenso sullo schermo: 5,10 euro. Due ordini in due ore. Tra il traffico e i tempi di attesa, difficile rispettare la media che l'azienda assicurava ai colloqui: «Una consegna ogni 30 minuti per un guadagno fino a 10 euro l'ora», dicevano. Nemmeno Chris Froome ce la farebbe. Intanto controllo lo smartphone: nessun cliente ha lasciato una recensione. Forse in quel momento erano più concentrati nell'addentare l'hamburger, che nel pigiare qualche stellina al fattorino. E il mio punteggio rimane sempre mediocre: 2.5.Mentre torno a casa con il cubo in spalla e le gambe pesanti, ripenso ai ragazzi incrociati al colloquio. A quelli capitati un po' per caso, a quelli un po' più scettici e a quelli certi di trovarsi nel posto giusto perché - come raccontano - «il lavoro oggi si è trasformato». Ripenso all'attenzione mentre i reclutatori spiegano le forme di guadagno. Le loro domande e infine la convinzione di chi pensa di aver fatto, tutto sommato, un buon affare: un'occupazione in regola, da gestire in autonomia per guadagnare quello che serve. Qualcuno che è riuscito a fare di un lavoretto una professione c'è. Ma per quei pochi, ce ne sono tanti che fanno fatica a vederne i vantaggi, al di là della precarietà e delle poche tutele. Per questa due giorni di consegne io torno a casa decisamente più povero. Dopo oltre 6 ore effettive in giro per Milano a pedalare, ho guadagnato 13,79 euro e ne ho spesi oltre 70 tra manutenzione bici e caparra per l'attrezzatura. Non proprio quello che si definisce un affarone.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Fu il primo azzurro a conquistare uno Slam, al Roland Garros del 1959. Poi nel 1976, da capitano non giocatore, guidò il team con Bertolucci e Panatta che ci regalò la Davis. Il babbo era in prigionia a Tunisi, ma aveva un campo: da bimbo scoprì così il gioco.
La leggenda dei gesti bianchi. Il patriarca del tennis. Il primo italiano a vincere uno slam, il Roland Garros di Parigi nel 1959, bissato l’anno dopo. Se n’è andato con il suo carisma, la sua ironia e la sua autostima Nicola Pietrangeli: aveva 92 anni. Da capitano non giocatore guidò la spedizione in Cile di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli che nel 1976 ci regalò la prima storica Coppa Davis. Oltre a Parigi, vinse due volte gli Internazionali di Roma e tre volte il torneo di Montecarlo. In totale, conquistò 67 titoli, issandosi al terzo posto della classifica mondiale (all’epoca i calcoli erano piuttosto artigianali). Nessuno potrà togliergli il record di partecipazioni (164, tra singolo e doppio) e vittorie (120) in Coppa Davis perché oggi si disputano molti meno match.
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Il presidente Gianni Tessari: «Abbiamo creato una nuova Doc per valorizzare meglio il territorio. Avremo due etichette, una per i vini rifermentati in autoclave e l’altra per quelli prodotti con metodo classico».
Si è tenuto la settimana scorsa all’Hotel Crowne Plaza di Verona Durello & Friends, la manifestazione, giunta alla sua 23esima edizione, organizzata dal Consorzio di Tutela Vini Lessini Durello, nato giusto 25 anni fa, nel novembre del 2000, per valorizzare le denominazioni da esso gestite insieme con altri vini amici. L’area di pertinenza del Consorzio è di circa 600 ettari, vitati a uva Durella, distribuiti sulla fascia pedemontana dei suggestivi monti della Lessinia, tra Verona e Vicenza, in Veneto; attualmente, le aziende associate al Consorzio di tutela sono 34.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
Un mio profilo è stato cancellato quando ho pubblicato dati sanitari sulle pratiche omoerotiche. Un altro è stato bloccato in pandemia e poi eliminato su richiesta dei pro Pal. Ne ho aperto un terzo: parlerò dei miei libri. E, tramite loro, dell’attualità.
Se qualcosa è gratis, il prodotto siamo noi. Facebook è gratis, come Greta è pro Lgbt, pro vax, anzi anti no vax, e pro Pal. Se sgarri, ti abbatte. Il mio primo profilo Facebook con centinaia di migliaia di follower è stato cancellato qualche anno fa, da un giorno all’altro: avevo riportato le statistiche sanitarie delle persone a comportamento omoerotico, erroneamente chiamate omosessuali (la sessualità è una funzione biologica possibile solo tra un maschio e una femmina). In particolare avevo riportato le statistiche sanitarie dei maschi cosiddetti «passivi».






