
Le sottilissime strisce di pasta erano amate da Vittorio Emanuele II e Camillo Benso di Cavour e oggi deliziano il palato di Trump. Un piatto nato in Piemonte nel corso del Quattrocento grazie alla fantasia delle massaie di campagna. E più tuorli ci sono, meglio è.«Non esageriamo» è il motto che, secondo il filosofo Norberto Bobbio, che era uno di loro, contraddistingue il carattere dei piemontesi. Langaroli e monferrini hanno questo carattere. È gente che non si dà importanza, che non passa i limiti e non alza la voce nemmeno quando gli toccano gli affetti gastronomici più cari, gli adorati tajarin. Queste sottilissime strisce di pasta all’uovo color oro antico sono figlie di una plurisecolare tradizione contadina. Per questo il popolo delle Langhe, del Monferrato e del Roero, anche se non lo dà a vedere, ci resta male quando chi arriva dall’oltre Ticino storpia i tajarin italianizzandoli. Passi chiamarli taglierini o tagliolini ma, per carità, lasciate stare tagliatelle o, peggio ancora, pappardelline. Il Piemonte vuol bene all’Italia, è da qui che è partito il cammino risorgimentale che ha portato all’unità della Penisola, ma considera i tajarin sacri alla piccola patria sabauda. E chiede rispetto.Soprattutto in nome di due dei principali artefici di quell’unità, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour che erano ghiotti di tajarin. Il Savoia li mangiava alla tavola di Rosa Vercellana, la «Bela Rosin» che prima gli conquistò il cuore e poi lo prese per la gola con i tajarin al tartufo bianco, la bagna cauda, il coniglio alla piemontese. Il conte li gustava a Grinzane, paesone delle Langhe di cui fu sindaco per 17 anni. Grinzane adesso si chiama Grinzane Cavour ed è distante un quarto d’ora d’auto da Alba, la capitale del Tuber magnatum, il tubero dei ricconi, come lo classificò nel 1780 lo studioso naturalista Vittorio Pico. A Grinzane Cavour si svolge tutti gli anni l’asta mondiale benefica del tartufo bianco, manifestazione che, nel corso delle varie edizioni, ha richiamato magnati dell’industria e della finanza, vip e personaggi famosi. L’ultima si è svolta pochi giorni fa, il 10 novembre. Molti e di varie dimensioni i tartufi messi all’incanto. I più grandi, una coppia di trifole gemelle di 905 grammi cadauna, sono stati venduti per 140.000 euro a un capitalista cinese in collegamento da Hong Kong.L’uso di uova e farina per fare la pasta secca di formato lungo è una tradizione che ha radici profonde in molte Regioni italiane. È vero che i tajarin assomigliano ai tagliolini romagnoli o a quelli molisani che vengono lavorati con il medesimo metodo: farina, uova, impasto, sfoglie tirate sottilissime con la pressia (il mattarello) e, una volta arrotolate come un salsicciotto, si procede con il taglio manuale in strisce sottilissime. Ma i tajarin sono di tutt’altra pasta. Lo dimostra innanzitutto il colore, giallo carico come l’oro a 24 carati grazie alle numerose «pepite», i tuorli d’uovo, che vengono tuffate nella farina.E proprio qui sta il bello e il buono, nel numero dei tuorli per chilogrammo di farina. Quanti devono essere? Tanti. Tantissimi. Non esiste una ricetta matematica. La risposta varia a seconda delle zone. C’è chi dice 10 tuorli, chi 15, chi più e chi afferma che il numero dei tuorli dipende dalla grandezza degli stessi. C’è chi sostiene che il numero dei rossi d’uovo dipende dal tipo di farina, da quanto assorbe il tuorlo.I puristi del tajarin non hanno dubbi: occorrono 30 tuorli per chilo di farina, non uno di meno. Beppe Cravero, cuoco e patron del Vascello d’oro di Carrù, non ha segreti: «Per fare i tajarin metto 25 rossi d’uovo e alcune uova intere per chilo di farina per dare consistenza alla pasta. Le uova sono fondamentali. Devono venire da un’azienda di galline allevate a terra. Personalmente uso uova del nostro territorio il cui produttore, curiosamente, si chiama Gallo. Grazie ai carotenoidi di queste uova, i tajarin sono di un bel giallo carico».Gli storici della cucina piemontese fanno risalire la storia dei tajarin al Quattrocento. «Nascono dal grano dei campi e dall’aia contadina», precisa Cravero. «È la natura che li partorisce mettendoci a disposizione farina e uova di ottima qualità. La storia del tajarin coincide con la storia della massaia rurale, della vita in cascina. Quando non c’era un soldo, la donna che reggeva la numerosa famiglia patriarcale usava per il pranzo della festa i prodotti che aveva a disposizione: la farina e quello che offriva l’aia. La pasta era alimento importantissimo nelle cascine: c’erano parecchie bocche da sfamare».Per preparare i tajarin occorre destrezza, maestria e tanta pazienza. Un tempo costituivano l’esame decisivo per decidere se una ragazza era da marito: «Na fiaa l’è nen da marié se a l’è nen bona a far i tajarin». Per tirare la sfoglia dei tajarin più sottile possibile servono, infatti, braccia forti per stendere l’impasto con la pressia. Paolo Monelli, grande giornalista e grande affabulatore di cibo e vino, sosteneva che i migliori tajarin erano quelli fatti dalle donne che, per tirare la past, usavano le natiche al posto del mattarello perché devono essere morbidi come il culetto di un neonato. Favole. Ma la sfoglia del tajarin deve essere veramente sottilissima, inferiore al millimetro, e non troppo umida, altrimenti s’incolla. A questo punto si spolverizza la sfoglia con farina a grana grossa, quella della polenta ad esempio, e si arrotola come un salsicciotto. Dopo di che, con un coltello molto affilato, si tagliano velocemente fettine di 3 millimetri che, una volta sciolte e distribuite su un capiente vassoio, diventeranno i lunghi tajarin. Una volta asciutti, si potrà procedere all’atto finale: il tuffo in acqua bollente salata. Con una raccomandazione: la cottura non deve andare oltre i 2-3 minuti perché i tajarin restino fragranti.Il ministero delle Politiche agricole ha inserito nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) il piatto icona dell’arte culinaria del Piemonte. I tajarin rappresentano il Piemonte in occasione di manifestazioni gastronomiche all’estero, dove valorizzano non solo i sapori di una Regione ricca di ottima gastronomia (avanti Savoia!) ma contribuiscono a diffondere la conoscenza della straordinaria cucina regionale italiana. I tajarin col tartufo bianco di Alba è l’unico piatto piemontese che Robert Carrier, famoso chef e cookery writer angloamericano, inserì nella celebre guida Grandi piatti del mondo, uscita nel1963 e pubblicata in Italia da Mondadori, un libro che ha venduto 11 milioni di copie in tutto il mondo.La pasta ricca merita ricchi condimenti. Come il comodino, antico ragù langarolo chiamato così perché si adagia sulla pasta, si «accomoda» e la condisce meravigliosamente. È un sugo particolarmente saporito, ricco di ingredienti. La base è data dalle frattaglie di cortile: fegatini, durelli e cuore di pollame, creste di gallo (quando si trovano), ma anche rigaglie di coniglio con l’aggiunta di lardo ed erbe aromatiche: salvia, rosmarino, alloro. Altro matrimonio saporoso è quello tra i tajarini e la salsiccia di Bra, grosso borgo del Roero, territorio adiacente alle Langhe. Anche la salsiccia di Bra fatta con pancetta di maiale e carni magre di bovino è un Pat.Ma la vetta della bontà, il Monte Bianco del sapore e del gusto, i tajarin lo raggiungono con il Tuber magnatum Pico, il tartufo che in antichità era considerato il cibo degli dei nato sottoterra dai fulmini scagliati da Zeus. Anthelme Brillat-Savarin, padre della cucina borghese transalpina, elevò il tartufo al rango di un gioiello: «È il diamante della cucina». Ne sono convinti i turisti enogastronomici, il popolo del palato tricolore sempre in cerca dei giacimenti del gusto e che risponde in massa al richiamo dei tartufi. I viaggiatori alla caccia della trifola stanno invadendo in questi giorni le Langhe annusando l’aria come lagotti e con le ghiandole salivari che ruscellano acquolina. «Quest’anno sono fortunati», conclude il meticoloso Cravero, «dopo due stagioni di esilio a causa della siccità, il magnatum c’è, non abbondante ma c’è. Mi raccomando: più che grattarla, la trifola deve fioccare sui tajarin, deve ondeggiare da una ventina di centimetri fino ad appoggiarsi sui tajarin caldi».Il magnatum, ammirato dai vip, è di casa (Bianca) a Washington, prima con Bush, poi con Barack Obama e, adesso, ancora con Donald Trump che già l’aveva apprezzato nel suo primo mandato presidenziale.
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.
(Imagoeconomica)
Cala la percentuale di over 65 che scelgono di ricevere l’anti influenzale: lo scorso inverno la copertura è stata solo del 52,5 %. Intanto l’Oms gufa: «La prossima epidemia può scoppiare ovunque e in qualsiasi momento».
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