2018-10-19
26.869 docenti precari pagati come colf
A tre anni dalle promesse di Matteo Renzi il numero degli insegnanti a tempo negli atenei è da record (+11,7% in un anno). Ciascuno di loro prende in media 30 euro lordi all'ora, che scendono a 7 se non si contano solo le lezioni. Appena il 2% ha speranza di essere assunto. Attualmente i docenti associati e ordinari più i ricercatori di tipo «b», che hanno la strada avviata per la docenza, sono 50.020. Invece i ricercatori a tempo determinato, gli insegnanti precari, i borsisti post laurea e gli assegnisti di ricerca sono 63.244.Quattro corsi distinti, in tre atenei diversi, in città lontane l'una dall'altra. Centocinquanta ore di docenza in totale, comprensive del tempo da dedicare a esami, tesi e ricevimento degli studenti, che fruttano poco più di 10.000 euro l'anno. Meno di mille euro al mese. È così che nel nostro Paese vivono e lavorano 26.869 docenti universitari precari. Sono i cosiddetti professori a contratto, insegnanti a tutti gli effetti, ma senza il ruolo. Senza neppure un ufficio dove preparare le lezioni e incontrare gli studenti. Questi docenti senza cattedra passano la vita a saltare da un treno all'altro, da un'aula all'altra, da una materia all'altra. Perché solo in questo modo riescono a mettere assieme uno stipendio che permette loro di sopravvivere. Tra loro c'è anche Luca Cianciabilla, bolognese, 44 anni. Per 36 ore l'anno insegna all'università di Firenze, nel resto del tempo si divide fra l'università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l'Alma Mater, spostandosi fra le sedi di Bologna e Ravenna. Stipendio lordo 900 euro al mese. La bolla dei precari si è gonfiata di anno in anno fino ad arrivare, nel 2017, all'attuale cifra record. Perché le assunzioni sono di fatto bloccate, così come il turnover che procede con il contagocce. Stessa situazione riguarda anche i ricercatori.Sembra ieri quando l'ex premier, Matteo Renzi, prometteva alla Leopolda la fine della spending review per il comparto dell'istruzione e l'ingresso di forze fresche, e non precarie, nelle aule universitarie. Ma tre anni dopo nulla è cambiato, le promesse sono state disattese e, anzi, la situazione è peggiorata. A dimostrare come le politiche messe in campo dai governi democratici non abbiano funzionato, arrivano i nuovi dati diffusi dal Miur e relativi al 2017. L'esercito dei precari è cresciuto dell'11,7% rispetto al 2016, con ben 3.000 docenti senza ruolo in più, in soli 12 mesi. Se nel 1998 questi docenti «di serie B» erano 16.274, nel 2017 sono saliti a quasi 27.000, a fronte di 32.917 strutturati. Ovvero regolarmente assunti dagli atenei. Quello che sorprende sono anche le cifre percepite da questi lavoratori: ognuno di loro guadagna fra 25 e 100 euro lordi all'ora, in base ai bandi pubblicati dai diversi atenei. La cifra più comunemente pattuita è di 30 euro lordi ogni ora. Ma questi soldi vengono riconosciuti solo per il tempo effettivamente dedicato ai corsi, senza tenere conto di quanto ci vuole per preparare una lezione, seguire uno studente, incontrarlo quando deve preparare la tesi o nelle ordinarie ore di ricevimento. Facendo due conti, la Flc-Cgil ha calcolato che, in base al lavoro effettivamente svolto, i docenti precari guadagnano appena 7 euro nette all'ora. Meno della maggior parte delle colf e delle babysitter. Per esempio, solo all'università di Bologna, sono circa 700 i docenti senza cattedra. Hanno tutti un'età compresa fra 28 e 40 anni, almeno un dottorato di ricerca nel curriculum e una lunga lista di pubblicazioni scientifiche. Eppure spesso sono costretti ad arrotondare con lavori di fortuna. «I docenti a contratto vengono considerati degli esterni, come dei professionisti prestati alla didattica. La realtà invece parla spesso di persone in possesso di un alto titolo di studio, utilizzate per garantire la sopravvivenza di corsi di laurea penalizzati da un reclutamento che manca. Per loro l'unica possibilità per sperare nella carriera accademica è quella di sommare più insegnamenti», spiega Barbara Grüning, del Coordinamento precari e docenti a contratto. In origine queste docenze senza assunzione erano state introdotte come collaborazioni occasionali, venivano affidate per lo più a professionisti di altri settori per arricchire con le loro competenze i corsi tradizionali. Ma con il passare del tempo gli atenei hanno cominciato ad abusarne, con l'obiettivo di allargare il corpo docenti nonostante il blocco delle assunzioni. Come spiega Francesco Vitucci, segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani: «Lo Stato negli ultimi anni ha utilizzato il precariato per far fronte ai tagli e far sopravvivere l'istituzione dell'università. Se non avesse sfruttato gli assegnisti di ricerca, i professori a contratto e altre figure, le università sarebbero implose». Così si è arrivati a quello che di fatto è diventato un esercito di professori universitari a partita Iva. Spesso hanno alzato la voce, protestano per ottenere che i compensi siano innalzati. Ma anche per chiedere al governo di superare tutte le attuali forme atipiche di insegnamento.Per il momento dall'esecutivo gialloblù sono arrivate alcune promesse. «Serve un piano pluriennale per l'università e la ricerca. Innanzitutto occorre riflettere per migliorare il sistema di reclutamento in termini meritocratici, di trasparenza e di esigenza degli atenei», ha dichiarato in Parlamento il ministro dell'Istruzione, Marco Bussetti. «Abbiamo bisogno di accrescere il numero dei ricercatori e dei professori aumentando globalmente la dotazione organica», ha aggiunto. Nel frattempo i precari restano a guardare. Costretti ad accettare uno squilibrio fortissimo con i loro colleghi di ruolo. In termini economici, ma anche quantitativi. Basti pensare che attualmente i docenti associati e ordinari più i ricercatori di tipo «b», che hanno la strada avviata per la docenza, sono 50.020. Invece i ricercatori a tempo determinato, gli insegnanti precari, i borsisti post laurea e gli assegnisti di ricerca sono 63.244. Fra loro, solo il 2% ogni anno ha la speranza di entrare. Nel frattempo cercano di andare avanti accumulando più corsi, pubblicando saggi, partecipando a convegni o facendo lavoretti che con l'insegnamento universitario non hanno nulla a che fare.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)