2024-04-02
Altri 19 connazionali in attesa di giudizio a Budapest: per loro però il Colle tace
Ilaria Salis ringrazia il capo dello Stato dopo il suo intervento «tempestivo». Ma l’Annuario svela il trattamento di favore.Sono 19 le ulteriori telefonate che sarebbe logico fossero già state effettuate - o che comunque dovrebbero essere fatte - dal Quirinale nei confronti dei parenti di italiani detenuti in Ungheria e in attesa di giudizio. Sono infatti 20 in tutto i nostri connazionali incarcerati in Ungheria, ma non ancora giudicati. Questo è quanto riporta a pagina 229 l’Annuario statistico 2023, predisposto dal ministero degli Esteri. Diciannove oltre a Ilaria Salis, accusata di aver preso parte al pestaggio di un militante di estrema destra. Il suo è diventato un caso politico e mediatico non soltanto in Italia, ma anche a Budapest. Il padre, Roberto Salis, fa ovviamente (e giustamente) tutto quanto è nelle sue possibilità per liberare la figlia, che però sembra essersi infilata in un mare di guai dal quale appare complicato - ma speriamo non impossibile - tirarla fuori. La richiesta di assegnazione dell’imputata agli arresti domiciliari - informalmente suggerita dal ministero della Giustizia - al momento non ha sortito alcun risultato. La frustrazione e la rabbia del padre sono quindi comprensibili.Continua però a venirci difficile immaginare quanto possa essere utile accusare il governo Meloni di incapacità nell’ottenere che vengano concessi gli arresti domiciliari - se non addirittura la scarcerazione - come ha fatto notare domenica il direttore della Verità, Maurizio Belpietro. Perché se da un lato la famiglia Salis non perde occasione per accusare il governo di spendere soltanto parole, dall’altro invece ringrazia il Quirinale, che sul caso ha ovviamente speso solo parole («Mi ha molto impressionato», ha dichiarato ieri la docente monzese, «che il capo dello Stato abbia telefonato in prima persona e che lo abbia fatto con questa rapidità. Lo ringrazio davvero tanto per il suo coinvolgimento»). L’asimmetria è evidente. Intanto non sembra risiedere nelle effettive possibilità del governo quella di intervenire in tal senso. Quanto meno con negoziati alla luce del sole con l’esecutivo di Viktor Orbán. Il quale, a sua volta, viene accusato di tutto e del suo contrario. Il tutto sarebbe che minerebbe sistematicamente alle fondamenta lo stato di diritto, violando l’autonomia della magistratura magiara. Il suo contrario sarebbe invece l’accusa di non essere intervenuto sui magistrati per fargli cambiare idea. Si accusa cioè Orbán di violare lo stato di diritto e poi di non violarlo. Niente male come cortocircuito. Sullo sfondo le orribili immagini della Salis tradotta in catene in tribunale. E qui veniamo alla seconda riflessione. Questa sarebbe la prova regina, a detta di molti, che Budapest starebbe calpestando lo stato di diritto, tutelato dalla normativa europea nella direttiva 343 del 2016. Direttiva che riporta che le «autorità competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe». Proprio così: la direttiva europea scrive «dovrebbero astenersi», anziché «devono», nel vietare una pratica a nostri occhi inaccettabile e ripugnante. Non proprio granitica come raccomandazione. Salvo poi aggiungere, qualora il solo condizionale non fosse apparso sufficientemente morbido, «a meno che il ricorso sia necessario in relazione alla sicurezza, ad esempio al fine di impedire che indagati o imputati rechino danni a sé stessi o ad altri». Avete capito bene. Ilaria Salis viene tradotta in catene in tribunale proprio perché è la direttiva europea a consentirlo, qualora i giudici locali lo ritengano necessario. Comprendendo, ripetiamo, le ragioni di un padre, confermiamo a questo punto una certezza che fino a ieri era semplicemente un’impressione. Sono molti i politici italiani che stanno banchettando sulla pelle dell’imputata mettendo in atto una strategia di apparente supporto alla causa, ma in realtà di spietato cinismo politico. Avere organizzato una comitiva cui hanno preso parte politici ed esponenti del mondo culturale della sinistra a Budapest, ha ulteriormente contribuito a gonfiare la bolla mediatica. Se da un lato l’aver portato alla conoscenza della pubblica opinione il caso Salis può aver sicuramente aiutato il padre nella sua battaglia, dall’altra può avere irrigidito la posizione del tribunale sia nell’applicazione della direttiva europea, che nella conseguente decisione di non concedere gli arresti domiciliari. Offrendo a quei politici il destro per poter ulteriormente banchettare sulla sventurata, accusando il governo italiano d’incapacità. Che invece, in caso di favorevole pronuncia del tribunale, sarebbe stata una loro unica ed esclusiva vittoria. Sarebbe stato, a nostro umile parere, molto più saggio non sfidare così platealmente la magistratura ungherese. E comunque su tutto rimane l’interrogativo iniziale: perché tutta questa attenzione di una parte della politica - e un pochino anche del Colle - solo per la Salis e non per gli altri 19 italiani imputati e detenuti in attesa di giudizio? E se proprio volessimo allargare lo sguardo, perché non pensare agli altri 600 nostri connazionali incarcerati in Paesi dell’Ue e non ancora giudicati? Fare chiarezza su questo sarebbe opportuno anche da parte del Colle. Dire con chiarezza che non esistono figli e figliastri aiuterebbe a troncare sul nascere il sospetto che si voglia tirare la volata alla possibile candidatura di Ilaria Salis al Parlamento europeo nelle file del Pd. Cosa di per sé - sia chiaro - assolutamente legittima. P.s. A noi comunque inquieta più ciò che non vediamo rispetto a ciò che vediamo in favore di telecamera in un’aula di tribunale. Ci piacerebbe cioè sapere quali sono le effettive condizioni di detenzione di Ilaria, che però non vediamo. Il portavoce del governo ungherese a gennaio ci diceva che in meno di dieci mesi erano state consentite all’imputata 323 telefonate e 13 videochiamate. Un lusso, per dire, che nelle nostre carceri i detenuti italiani si sognano.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson
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