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2021-01-04
Zone rosse sì ma di paura
(Ansa)
A Cala Galera, l'anno è finito esattamente come era iniziato. Mentre «lo spiegamento imponente di forze dell'ordine» voluto dal ministro Luciana Lamorgese batteva le strade della penisola per far rispettare le norme anti-Covid, nella notte di Capodanno l'ennesimo barchino approdava a Lampedusa. A bordo 20 tunisini, tra cui due donne, che sono stati trasferiti nell'hotspot di contrada Imbriacola per le operazioni di identificazione. Sull'isola il totale degli arrivi è quasi quadruplicato, secondo le stime diffuse dall'Ufficio immigrazione della questura di Agrigento. Nell'anno che ci siamo appena lasciati alle spalle, a Lampedusa sono sbarcati 19.253 migranti contro i 4.930 del 2019. Si tratta del 56% degli arrivi complessivi, che nel 2020 hanno superato il tetto dei 34.000, nonostante l'emergenza sanitaria. Da qualche giorno, in mare si rivedono anche le navi delle Ong: il 23 dicembre, dal porto di Barcellona è partita la missione 79 della Open Arms, l'associazione catalana che opera nel Mediterraneo centrale. L'ultimo dell'anno, hanno recuperato 169 persone che viaggiavano su un'imbarcazione di legno alla deriva in acque internazionali. A bordo del barcone, partito da Sabratha la mattina del 30 dicembre, c'erano per lo più eritrei, sudanesi e libici. Appena 24 ore dopo, un altro trasbordo: 96 persone salpate da Zuwarah.
Nelle settimane dei negozi chiusi e degli spostamenti contingentati, al largo delle nostre coste il via vai non si è mai fermato. E mentre l'Italia entra ed esce dalla zona rossa, e già si discute sulle fasce tricolore da assegnare alle regioni e sui divieti dopo l'epifania, lungo la penisola ci sono zone dove le regole sembrano non esistere, quartieri dove le restrizioni non sortiscono alcun effetto. Come raccontiamo in queste pagine, l'epidemia non ha fermato la proliferazione delle «terre di nessuno»: i dormitori a cielo aperto restano tollerati, i mercatini abusivi operano come se nulla fosse. Nelle aree periferiche delle città, ci sono cittadini costretti a vivere tappati in casa per stare alla larga dalle risse tra migranti o per evitare di respirare i fumi tossici che si alzano dai campi rom.
Da queste parti, di controlli se ne vedono ben pochi. Siamo lontani dalla solerzia con la quale vengono eseguite le verifiche sul rispetto dei decreti di Giuseppe Conte. I numeri li ha sciorinati Lamorgese in un'intervista al Corriere della Sera: da marzo a oggi, quasi «30 milioni di controlli sulle persone e 8,5 milioni sugli esercizi commerciali». Come lamentano alcuni comitati di quartiere, nessuno si preoccupa di dare un'occhiata alle condizioni di abbandono in cui versano le stazioni delle città, alcune delle quali ridotte a giacigli di fortuna per i migranti esclusi dal circuito dell'accoglienza. O magari di prendere atto che esistono «zone franche» dove si spara per un regolamento di conti, come è accaduto l'altra notte in via Gigante, a Milano. «E non è la prima volta», ricorda Silvia Sardone, europarlamentare e consigliere comunale della Lega. «Il quartiere di San Siro, ormai di esclusiva proprietà di nordafricani ed etnie dell'Est Europa, non è più sotto il controllo del Comune da tempo».
O, infine, di vigilare sulle situazioni igienico sanitarie in cui vengono lasciati i campi rom. Ad Asti, per esempio, da mesi si chiede di sgomberare le baracche abusive in via Guerra. Il questore, Sebastiano Salvo, ne aveva descritto le criticità sul finire dell'estate dopo un sopralluogo: «I bimbi giocano tra carcasse di topi e rifiuti. Lo stato di degrado mette in forte rischio l'incolumità di chi ci vive». E invece, quelle «condizioni di insalubrità inaccettabili» sono rimaste immutate. Tutto fermo fino alla notte di Capodanno, quando è morto uno degli abitanti, un tredicenne rom. In barba al coprifuoco e ai divieti da zona rossa, nel campo non si è rinunciato a botti e fuochi d'artificio: il ragazzo è rimasto ferito mortalmente da una raffica di petardi. Qui l'occhio vigile del Grande fratello di Stato si è appannato.
«Ormai siamo diventati la cloaca di Roma»
Tra i cittadini che animano i quartieri vicini alle stazioni ferroviarie, circola un sospetto: «Ci usano come delle zone di contenimento: concentrare qui i migranti fa comodo a tutti, alla politica, alle forze dell'ordine, che almeno sanno dove si trovano». Quando i numeri crescono, tuttavia, la strategia mostra i suoi punti deboli: ci sono pezzi di terra in cui lo Stato sembra assente, dove il rispetto delle norme igienico sanitarie è utopia e parlare di vivibilità resta un azzardo. All'Esquilino lo dicono senza troppi giri di parole: «Siamo diventati la cloaca di Roma» racconta Beatrice Manzari, che qui è arrivata più di 20 anni fa, quando le prospettive per il rione sembravano altre. Tra le vie che portano alla stazione Termini, si trasferivano intellettuali, registi, attori. L'entusiasmo ha lasciato spazio alla disillusione, talvolta alla rabbia: negli ultimi anni sono sorti diversi comitati per combattere il degrado, per opporsi ai dormitori a cielo aperto che riempiono i portici. «A volte diventa impossibile anche solo gettare la spazzatura, i bambini li teniamo alla larga il più possibile» raccontano i cittadini. Soluzioni definitive non sono mai state presentate: «Nel tentativo di migliorare la situazione attorno alla stazione, non trovano di meglio che sgomberare i migranti e mandarli a Piazza Vittorio Emanuele, a poco più di un chilometro di distanza» spiega Frank Cappiello, del comitato Rione XV Esquilino. L'emergenza sanitaria ha finito per complicare una situazione esasperata: con le mense e i dormitori chiusi, tutto può diventare un giaciglio di fortuna, anche la statua dedicata a papa Wojtyla, in Piazza dei Cinquecento. «Questa non è accoglienza, né decenza», racconta ancora Beatrice Manzari, che ha intenzione di diffidare una serie di istituzioni, tra cui il ministero dell'Interno, Comune e Prefettura. Molti solleciti e richieste, da queste parti, sono rimasti lettera morta: «Se nulla accadrà anche questa volta, siamo pronti a denunciare», promette.
«Nel cuore di Roma i cittadini devono subire pure gli accampamenti abusivi, da quanto tempo il sindaco Raggi non visita queste zone per capire come vivono i migranti della Capitale?» si chiede Laura Corrotti, consigliere regionale della Lega.
Basta spostarsi di pochi chilometri appena per scorgere altre zone senza controllo, alloggi improvvisati in mano agli irregolari, che nel circuito dell'accoglienza non hanno diritto a entrare. Largo Spadolini, stazione Tiburtina. Tra uno dei due ingressi e il capolinea dell'Atac spuntano sacchi a pelo, coperte, buste piene di effetti personali. Poco più in là, quello che dovrebbe essere un parcheggio interrato è, di fatto, un bagno a cielo aperto. «Nei pressi della stazione dormono in 70», racconta alla Verità Holljwer Paolo, consigliere del II Municipio, iscritto al gruppo di Fratelli d'Italia. «Sono lì, senza alcun tipo di controllo sanitario. Le forze dell'ordine si limitano a delle operazioni di identificazione, ma la situazione è la stessa da troppo tempo». Chi vive qui non si stupisce quasi più, a farsi largo tra gli insediamenti abusivi ci hanno fatto l'abitudine. «Quello che c'è nel piazzale est della stazione, prima era qui, sotto la tangenziale», ricorda Nella Vecchia, dell'associazione Rinascita Tiburtina. «In quelle zone evitiamo di andare, stiamo tutti molto attenti e usciamo poco ormai. Ci hanno imposto il lockdown, ma per noi i “domiciliari" vanno avanti da tempo. Lì intorno c'è da aver paura». Può bastare poco, infatti, per essere aggrediti. Ne sa qualcosa Roberta Angelilli, consigliere regionale di Fratelli d'Italia, che a Largo Spadolini ha subìto un'aggressione nel mese di dicembre. «Dopo la nostra denuncia credevamo in uno sgombero immediato e invece non è successo nulla: qualche annuncio, poche parole, ma quelle persone sono ancora lì, in condizioni impraticabili. Pur conoscendo la gravità della situazione, sia il ministro Lamorgese che il sindaco di Roma continuano ad autorizzare la presenza di questo accampamento illegale, proprio all'ingresso di una dei principali snodi ferroviari italiani». Del resto, attorno alle stazioni del nostro Paese, di illegale non ci sono solo i dormitori. Nell'Italia delle zone rosse e degli esercizi commerciali chiusi, capita che a fare affari siano gli abusivi, che vendono praticamente di tutto. Al quartiere Vasto di Napoli li chiamano i «mercatini della spazzatura». Nei giorni dei controlli a tappeto, erano lì, ben in vista a piazza Garibaldi. Adelaide Dario conosce palmo a palmo la zona, la vive sin dagli anni in cui nei pressi della stazione sono arrivati i primi extracomunitari. «La situazione è peggiorata in pochi anni: in un'unica area hanno concentrato un numero enorme di migranti, troppo rispetto alla presenza dei cittadini» racconta, raggiunta al telefono dalla Verità.
Le case dell'accoglienza sono spuntate come funghi, tutte dislocate in pochi metri quadrati. Come spiegano dal comitato di quartiere, «l'area è stata di fatto occupata: oggi, tante etnie diverse si fanno la guerra. Sotto ai nostri balconi è un via vai continuo: spaccio, risse. I più piccoli restano chiusi in casa». La vigilanza della polizia municipale da sola non basta, può fare poco. Da tempo, qui vorrebbero la presenza dell'esercito. L'ultimo sollecito risale al novembre scorso: «Al Questore si chiede un presidio fisso tra Piazza Garibaldi e le vie limitrofe», si legge in uno dei documenti presentati dai consiglieri regionali.
«Per ora, invece, il Vasto resta un quartiere prigioniero, terra di nessuno» sospira Adelaide Dario. «Certamente, non è più dei napoletani che da anni vivono qui».
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Sparatorie, degrado, spaccio. Il governo ci impone la quarantena mentre consegna intere zone del Paese a nomadi e clandestini.I quartieri intorno alle stazioni ferroviarie trasformati in dormitori per migranti, abusivi e tossicodipendenti.Lo speciale contiene due articoli.A Cala Galera, l'anno è finito esattamente come era iniziato. Mentre «lo spiegamento imponente di forze dell'ordine» voluto dal ministro Luciana Lamorgese batteva le strade della penisola per far rispettare le norme anti-Covid, nella notte di Capodanno l'ennesimo barchino approdava a Lampedusa. A bordo 20 tunisini, tra cui due donne, che sono stati trasferiti nell'hotspot di contrada Imbriacola per le operazioni di identificazione. Sull'isola il totale degli arrivi è quasi quadruplicato, secondo le stime diffuse dall'Ufficio immigrazione della questura di Agrigento. Nell'anno che ci siamo appena lasciati alle spalle, a Lampedusa sono sbarcati 19.253 migranti contro i 4.930 del 2019. Si tratta del 56% degli arrivi complessivi, che nel 2020 hanno superato il tetto dei 34.000, nonostante l'emergenza sanitaria. Da qualche giorno, in mare si rivedono anche le navi delle Ong: il 23 dicembre, dal porto di Barcellona è partita la missione 79 della Open Arms, l'associazione catalana che opera nel Mediterraneo centrale. L'ultimo dell'anno, hanno recuperato 169 persone che viaggiavano su un'imbarcazione di legno alla deriva in acque internazionali. A bordo del barcone, partito da Sabratha la mattina del 30 dicembre, c'erano per lo più eritrei, sudanesi e libici. Appena 24 ore dopo, un altro trasbordo: 96 persone salpate da Zuwarah.Nelle settimane dei negozi chiusi e degli spostamenti contingentati, al largo delle nostre coste il via vai non si è mai fermato. E mentre l'Italia entra ed esce dalla zona rossa, e già si discute sulle fasce tricolore da assegnare alle regioni e sui divieti dopo l'epifania, lungo la penisola ci sono zone dove le regole sembrano non esistere, quartieri dove le restrizioni non sortiscono alcun effetto. Come raccontiamo in queste pagine, l'epidemia non ha fermato la proliferazione delle «terre di nessuno»: i dormitori a cielo aperto restano tollerati, i mercatini abusivi operano come se nulla fosse. Nelle aree periferiche delle città, ci sono cittadini costretti a vivere tappati in casa per stare alla larga dalle risse tra migranti o per evitare di respirare i fumi tossici che si alzano dai campi rom. Da queste parti, di controlli se ne vedono ben pochi. Siamo lontani dalla solerzia con la quale vengono eseguite le verifiche sul rispetto dei decreti di Giuseppe Conte. I numeri li ha sciorinati Lamorgese in un'intervista al Corriere della Sera: da marzo a oggi, quasi «30 milioni di controlli sulle persone e 8,5 milioni sugli esercizi commerciali». Come lamentano alcuni comitati di quartiere, nessuno si preoccupa di dare un'occhiata alle condizioni di abbandono in cui versano le stazioni delle città, alcune delle quali ridotte a giacigli di fortuna per i migranti esclusi dal circuito dell'accoglienza. O magari di prendere atto che esistono «zone franche» dove si spara per un regolamento di conti, come è accaduto l'altra notte in via Gigante, a Milano. «E non è la prima volta», ricorda Silvia Sardone, europarlamentare e consigliere comunale della Lega. «Il quartiere di San Siro, ormai di esclusiva proprietà di nordafricani ed etnie dell'Est Europa, non è più sotto il controllo del Comune da tempo». O, infine, di vigilare sulle situazioni igienico sanitarie in cui vengono lasciati i campi rom. Ad Asti, per esempio, da mesi si chiede di sgomberare le baracche abusive in via Guerra. Il questore, Sebastiano Salvo, ne aveva descritto le criticità sul finire dell'estate dopo un sopralluogo: «I bimbi giocano tra carcasse di topi e rifiuti. Lo stato di degrado mette in forte rischio l'incolumità di chi ci vive». E invece, quelle «condizioni di insalubrità inaccettabili» sono rimaste immutate. Tutto fermo fino alla notte di Capodanno, quando è morto uno degli abitanti, un tredicenne rom. In barba al coprifuoco e ai divieti da zona rossa, nel campo non si è rinunciato a botti e fuochi d'artificio: il ragazzo è rimasto ferito mortalmente da una raffica di petardi. 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All'Esquilino lo dicono senza troppi giri di parole: «Siamo diventati la cloaca di Roma» racconta Beatrice Manzari, che qui è arrivata più di 20 anni fa, quando le prospettive per il rione sembravano altre. Tra le vie che portano alla stazione Termini, si trasferivano intellettuali, registi, attori. L'entusiasmo ha lasciato spazio alla disillusione, talvolta alla rabbia: negli ultimi anni sono sorti diversi comitati per combattere il degrado, per opporsi ai dormitori a cielo aperto che riempiono i portici. «A volte diventa impossibile anche solo gettare la spazzatura, i bambini li teniamo alla larga il più possibile» raccontano i cittadini. Soluzioni definitive non sono mai state presentate: «Nel tentativo di migliorare la situazione attorno alla stazione, non trovano di meglio che sgomberare i migranti e mandarli a Piazza Vittorio Emanuele, a poco più di un chilometro di distanza» spiega Frank Cappiello, del comitato Rione XV Esquilino. L'emergenza sanitaria ha finito per complicare una situazione esasperata: con le mense e i dormitori chiusi, tutto può diventare un giaciglio di fortuna, anche la statua dedicata a papa Wojtyla, in Piazza dei Cinquecento. «Questa non è accoglienza, né decenza», racconta ancora Beatrice Manzari, che ha intenzione di diffidare una serie di istituzioni, tra cui il ministero dell'Interno, Comune e Prefettura. Molti solleciti e richieste, da queste parti, sono rimasti lettera morta: «Se nulla accadrà anche questa volta, siamo pronti a denunciare», promette. «Nel cuore di Roma i cittadini devono subire pure gli accampamenti abusivi, da quanto tempo il sindaco Raggi non visita queste zone per capire come vivono i migranti della Capitale?» si chiede Laura Corrotti, consigliere regionale della Lega. Basta spostarsi di pochi chilometri appena per scorgere altre zone senza controllo, alloggi improvvisati in mano agli irregolari, che nel circuito dell'accoglienza non hanno diritto a entrare. Largo Spadolini, stazione Tiburtina. Tra uno dei due ingressi e il capolinea dell'Atac spuntano sacchi a pelo, coperte, buste piene di effetti personali. Poco più in là, quello che dovrebbe essere un parcheggio interrato è, di fatto, un bagno a cielo aperto. «Nei pressi della stazione dormono in 70», racconta alla Verità Holljwer Paolo, consigliere del II Municipio, iscritto al gruppo di Fratelli d'Italia. «Sono lì, senza alcun tipo di controllo sanitario. Le forze dell'ordine si limitano a delle operazioni di identificazione, ma la situazione è la stessa da troppo tempo». Chi vive qui non si stupisce quasi più, a farsi largo tra gli insediamenti abusivi ci hanno fatto l'abitudine. «Quello che c'è nel piazzale est della stazione, prima era qui, sotto la tangenziale», ricorda Nella Vecchia, dell'associazione Rinascita Tiburtina. «In quelle zone evitiamo di andare, stiamo tutti molto attenti e usciamo poco ormai. Ci hanno imposto il lockdown, ma per noi i “domiciliari" vanno avanti da tempo. Lì intorno c'è da aver paura». Può bastare poco, infatti, per essere aggrediti. Ne sa qualcosa Roberta Angelilli, consigliere regionale di Fratelli d'Italia, che a Largo Spadolini ha subìto un'aggressione nel mese di dicembre. «Dopo la nostra denuncia credevamo in uno sgombero immediato e invece non è successo nulla: qualche annuncio, poche parole, ma quelle persone sono ancora lì, in condizioni impraticabili. Pur conoscendo la gravità della situazione, sia il ministro Lamorgese che il sindaco di Roma continuano ad autorizzare la presenza di questo accampamento illegale, proprio all'ingresso di una dei principali snodi ferroviari italiani». Del resto, attorno alle stazioni del nostro Paese, di illegale non ci sono solo i dormitori. Nell'Italia delle zone rosse e degli esercizi commerciali chiusi, capita che a fare affari siano gli abusivi, che vendono praticamente di tutto. Al quartiere Vasto di Napoli li chiamano i «mercatini della spazzatura». Nei giorni dei controlli a tappeto, erano lì, ben in vista a piazza Garibaldi. Adelaide Dario conosce palmo a palmo la zona, la vive sin dagli anni in cui nei pressi della stazione sono arrivati i primi extracomunitari. «La situazione è peggiorata in pochi anni: in un'unica area hanno concentrato un numero enorme di migranti, troppo rispetto alla presenza dei cittadini» racconta, raggiunta al telefono dalla Verità. Le case dell'accoglienza sono spuntate come funghi, tutte dislocate in pochi metri quadrati. Come spiegano dal comitato di quartiere, «l'area è stata di fatto occupata: oggi, tante etnie diverse si fanno la guerra. Sotto ai nostri balconi è un via vai continuo: spaccio, risse. I più piccoli restano chiusi in casa». La vigilanza della polizia municipale da sola non basta, può fare poco. Da tempo, qui vorrebbero la presenza dell'esercito. L'ultimo sollecito risale al novembre scorso: «Al Questore si chiede un presidio fisso tra Piazza Garibaldi e le vie limitrofe», si legge in uno dei documenti presentati dai consiglieri regionali. «Per ora, invece, il Vasto resta un quartiere prigioniero, terra di nessuno» sospira Adelaide Dario. «Certamente, non è più dei napoletani che da anni vivono qui».
(Imagoeconomica)
A leggere queste parole c’è davvero da impazzire. In pratica si continua a ripetere che questi bambini sono bravi, educati, felici e amati. Ma hanno difficoltà con la lettura e si cambiano i vestiti troppo raramente. E alle nostre istituzioni, oltre che a una parte della politica, sembra normale che tanto basti per strapparli ai genitori e lasciarli in una casa famiglia a tempo indeterminato. In aggiunta, si continuano a trattare papà e mamma Trevallion come discoli da raddrizzare. Si scrive e si dice che ora si comportano bene, che hanno accettato di modificare la propria casa, di vaccinare i figli, di farli incontrare con un insegnante. Lo ripetono pure i giudici della Corte d'appello che hanno confermato venerdì la validità del provvedimento di allontanamento e hanno passato la palla al Tribunale dei minori dell'Aquila per eventuali nuove decisioni. La corte conferma «tutte le criticità rilevate nell'ordinanza del Tribunale dei minorenni» tra cui i «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini, per la loro sana crescita, per lo sviluppo armonioso della loro personalità». Ma rileva «gli apprezzabili sforzi di collaborazione» da parte dei genitori e auspica «un definitivo superamento del muro di diffidenza da loro precedentemente alzato verso gli interventi e le offerte di sostegno». Chiaro, no? Quando papà e mamma saranno più docili e addomesticati, il ricatto potrà forse concludersi.
Pare infatti che il nodo di tutta questa storia, sia soltanto questo: bisogna compiacere i magistrati. Chi non lo fa è un pericoloso pasdaran della destra, è uno che fa campagna politica per il referendum sulla giustizia. Lo dice chiaramente Elisabetta Piccolotti di Alleanza verdi e sinistra, la quale se la prende con i ministri Matteo Salvini e Eugenia Roccella «che continuano a fare gli sciacalli con l’unico scopo di preparare il terreno per il referendum sulla giustizia. Noi di Avs», spiega Piccolotti, «crediamo che il percorso di dialogo con la famiglia debba dare i giusti frutti, come sostengono anche gli avvocati: i bambini devono tornare a casa dai genitori, con la garanzia che non saranno negati loro il diritto all’istruzione e alla socialità che solo la scuola assicura davvero». Ah, ma dai: i bambini devono tornare a scuola, perché quella parentale non va. Di più: bisogna che il ministro Valditara invii «gli ispettori nella scuola paritaria che ha certificato l’assolvimento dell’obbligo scolastico per la bambina di 11 anni, nonostante pare che la bimba sappia a stento scrivere il proprio nome sotto dettatura».
Interessante cortocircuito. Con la famiglia del bosco i compagni di Avs sono inflessibili, invocano perquisizioni e correzioni. Ma con altri sono molto più teneri. Nei riguardi degli antagonisti di Askatasuna, per dire, hanno parole di miele. Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera, si è aggregato al corteo di protesta contro lo sgombero del centro sociale. «Noi non abbiamo nulla da nascondere», grida. «Siamo parte, alla luce del sole, di un’associazione a resistere, quella dell’antifascismo che i trumpiani di tutto il mondo vorrebbero dichiarare fuori legge. Ma fino a quando la nostra Costituzione sarà in piedi nessuno potrà impedirmi di manifestare il mio dissenso ed io continuerò a farlo». La sua compagna di partito Ilaria Salis ribadisce che «lo spirito di Askatasuna continuerà ad ardere». Bravi, bravissimi, dei veri rivoluzionari, dei grandi ribelli antisistema. Ma per chi sceglie davvero un modello di vita alternativo, a quanto risulta, non hanno pietà. Anzi, dicono le stesse cose dei magistrati.
Fateci caso: Elisabetta Piccolotti ha pronunciato praticamente le stesse frasi scandite da Virginia Scalera, giudice del tribunale di Pescara e presidente della sezione Abruzzo dell’Anm. Costei è intervenuta ieri dicendo che c’è «stato un attacco scomposto e offensivo nei confronti dei giudici da parte dei ministri Salvini e Roccella, espresso peraltro in mancanza di conoscenza del provvedimento, perché le motivazioni non sono ancora uscite. E comunque è inaccettabile il tono. Abbiamo l’impressione chiara», insiste Scalera, «che sia un modo per riattivare l’attenzione dell’opinione pubblica, strumentalizzando una storia significativa in ottica referendaria. Ogni volta si additano i giudici, si parla di sequestro di bambini. Stigmatizziamo gli attacchi del governo».
Siamo sempre lì: guai a sfiorare i giudici, guai ad avanzare anche solo un minuscolo dubbio sul loro operato. Persino la sinistra radicale, quella che si batte contro i confini e contro la fantomatica «repressione», alla bisogna si rimette in riga al fianco delle toghe. E intanto tre bambini bravi e educati sono ancora tenuti lontano dai loro genitori.
A proposito di cortocircuiti sinistri, sia concessa un’ultima considerazione. Negli anni passati, con l’avvicinarsi del Natale, fior di sacerdoti e militanti progressisti hanno proposto presepi pieni zeppi di barconi e migranti. È un vero peccato che quest’anno qualcuno di questi impegnati a favore dei più deboli non abbia pensato a un bel presepe con la famiglia del bosco posizionata in mezzo ai pastori.
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Orazio Schillaci (Ansa)
Stiamo parlando della Cceps, la commissione centrale esercenti professioni sanitarie che funziona come una sorta di Corte d’Appello. Due giorni fa doveva svolgersi a Roma l’udienza, fissata a ridosso del Natale per esaminare i ricorsi di almeno 25 medici radiati dall’Ordine. Nemmeno il tempo di aprire la seduta, e subito è stata rinviata con data da destinarsi.
Il 18 sera, infatti, l’indipendenza e imparzialità dei componenti della Cceps è stata messa in discussione dalle istanze di ricusazione di uno dei legali dei medici radiati, l’avvocato Mauro Sandri. La presidente e il suo vice, così pure diversi membri dell’organo del ministero della Salute che esercita il giudizio di secondo grado, si sono già espressi contro le critiche nei confronti del vaccino Covid. In alcuni casi, anche contro gli stessi dottori che hanno presentato ricorso, si legge nella memoria di ricusazione.
Una cosa inaudita, che vanificherebbe qualsiasi conclusione della commissione. Non attiva da anni, la Cceps era stata ricostituita lo scorso ottobre dal ministro Schillaci su pressione di Filippo Anelli, presidente Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. A marzo, il capo dei medici si lamentava perché il ricorso «di fatto vanifica l’azione sanzionatoria degli Ordini, facendo sì che medici sospesi o addirittura radiati continuino a esercitare».
Così, per liquidare in fretta la questione, in un’udienza fissata per trattare i soli procedimenti dei medici radiati (in violazione del normale calendario), tutte le memorie scritte dei difensori dovevano essere presentate nella stessa mattinata del 19 e «date in pasto» a medici, a magistrati che il loro giudizio già l’hanno formulato.
Le istanze di ricusazione presentate dall’avvocato Sandri sono state nei confronti della presidente della Cceps, Giulia Ferrari, in quanto come componente del Consiglio di Stato ha partecipato alla stesura di numerose sentenze nelle quali ha «sempre respinto le domande di illegittimità delle sospensioni dal lavoro avanzate da pubblici dipendenti».
E nei confronti del vice presidente Oscar Marongiu «che ha partecipato a decisioni di contenuto analogo quale componente del Tar di Cagliari». Ma non è finita. La maggior parte dei componenti la Cceps per quanto riguarda i ricorsi dei medici sono professionisti che hanno fatto parte di Consigli dell'Ordine, che hanno emesso provvedimenti di radiazione e che hanno espresso, prima del processo, opinioni che fanno già chiaramente trasparire la posizione che avranno nel giudizio di secondo grado.
Tra questi c’è Giovanni Leoni, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri della Provincia di Venezia e vice presidente nazionale Fnomceo. Il presidente a luglio 2022 si era opposto all’idea dell’allora governatore Luca Zaia di reintegrare i medici sospesi perché non vaccinati: «Sarebbe un pessimo messaggio», disse. E che aveva definito l’abolizione della sanzione ai no vax «un premio ai furbetti. Questa scelta non è un messaggio educativo alla popolazione sul rispetto delle regole». Qualcuno ha dei dubbi su come Leoni giudicherà il ricorso di medici quali Ennio Caggiano, Barbara Balanzoni, Fabio Milani, Riccardo Szumski? Sono solo alcuni dei dottori stimati, amati dai loro pazienti, però presi di mira dagli Ordini professionali perché osavano contrastare la non scienza imposta con i dpcm di Speranza e Conte.
Ennio Caggiano di Camponogara, nel Veneziano mandato a processo per aver compilato 16 certificati di esenzione dal vaccino ritenuti falsi dalla Procura di Venezia, è stato assolto da ogni accusa pochi mesi fa. Eppure il 20 maggio del 2022 il presidente dell’Ordine dei medici di Venezia ne firmò la radiazione. Oggi il medico si dice sconcertato di sapere che lo stesso Leoni dovrebbe valutare il suo ricorso. «L’incompatibilità assoluta. Invece di chiudere una vicenda che si trascina da anni, analizzando oggettivamente i fatti, vogliono ribadire che avevano ragione. È una cosa ridicola e tragica nello stesso tempo».
Un periodo, quello della pandemia e dei diktat, segnato anche da brutte storie di delazioni. Fabio Milani, stimato professionista bolognese non vaccinato, nel dicembre del 2021 curò con antibiotico e cortisone una famiglia con polmonite da Covid abbandonata a Tachipirina e vigile attesa dal proprio medico di famiglia. Segnalato dal collega all'Ordine, aveva subìto un lungo processo per esercizio abusivo della professione, conclusosi nel gennaio 2025 perché «il fatto non sussiste». Ma non era finita. Il medico venne radiato nell’agosto 2022 con l’accusa di aver violato il codice deontologico. Con quale imparzialità sarà giudicato in secondo grado da una simile commissione?
«Nessun medico radiato può essere giudicato per avere espresso opinioni critiche sulla gestione dell'emergenza sanitaria», ribadisce l’avvocato Sandri. «Nessuno mi ha denunciato per aver maltrattato un paziente», osserva Riccardo Szumski, il consigliere di Resistere Veneto risultato tra i più eletti alle ultime Regionali, evidenziando l’assurdità di una sanzione così grave. «Mi sembra una commissione non a tutela dei medici e dei pazienti, ma dell’obbedienza a ogni costo. E Schillaci era un collaboratore dell’ex ministro Roberto Speranza. Nella mia radiazione venne citata la frase del presidente Sergio Mattarella “non si invochi la libertà per sottrarsi all’obbligo vaccinale” ma la libertà, secondo me, è un bene assoluto».
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Antonio Filosa (Ansa)
La Commissione sta semplicemente «rinviando» l’obiettivo: l’impianto che aveva portato all’azzeramento delle emissioni allo scarico (e quindi alla fine dei motori termici) viene riformulato con un abbassamento delle emissioni del 90% rispetto al 2021. Il 10% residuo verrebbe coperto tramite strumenti di compensazione lungo la catena del valore: come, ad esempio, prodotti a minore intensità carbonica (acciaio low-carbon) e carburanti sostenibili. Quella voluta dell’Ue è una flessibilità «contabile» più che tecnologica, secondo il manager.
Filosa sostiene che questa architettura rischia di introdurre costi e complessità che i costruttori «di massa» assorbono peggio di quelli premium: «È una misura il cui costo potrebbe non essere alla portata dei costruttori di volume che servono la maggior parte dei cittadini». Tradotto: se la conformità dipende da risorse scarse (acciaio verde, e-fuels/biocarburanti certificati) con prezzi elevati e volatilità, il rischio è che tutti i problemi si scarichino proprio sui segmenti più sensibili al prezzo, comprimendo volumi e margini.
Stellantis segnala che non vede strumenti «ponte» sufficienti per rendere praticabile la transizione, in particolare nei veicoli commerciali, dove la competitività dell’elettrico dipende molto più che nelle auto da infrastrutture di ricarica, costo dell’energia, pianificazione flotte e disponibilità prodotto. Se l’adozione dei motori elettrici resta importante, il blocco al 2035 non genera crescita: può solo spostare i problemi su regole di compensazione e materiali verdi e costosi. La reazione dell’industria è dunque polarizzata: Renault valuta il pacchetto come un tentativo di gestire alcune criticità, mentre l’associazione industriale tedesca Vda lo bolla come «disastroso» per gli ostacoli pratici e di implementazione. La Commissione, invece, nega che si tratti di un arretramento: Stéphane Séjourné, commissario europeo per il mercato interno e i servizi, afferma che l’Europa non mette in discussione gli obiettivi climatici. Un altro funzionario Ue difende l’uso di questi meccanismi perché dovrebbero «creare un mercato di sbocco» per tecnologie e materiali necessari alla transizione.
Nel dibattito, inoltre, c’è anche l’asimmetria regolatoria transatlantica: negli Stati Uniti si osserva una traiettoria più favorevole per ibridi e termici, con revisione di incentivi e standard; non a caso Stellantis ha annunciato un piano di investimenti molto rilevante negli Usa. Il messaggio implicito è che, a parità di vincoli, la stabilità e l’economia della domanda influenzano dove si costruiscono capacità e catena del valore.
La verità è che la partita vera non è lo slogan «stop ai termici sì o no», ma la definizione dei dettagli che porteranno verso una transizione sostenibile: in particolare, si tratta della definizione di carburanti sostenibili e delle regole Mrv (monitoring, reporting, verification, un sistema obbligatorio dell'Unione Europea per il monitoraggio, la comunicazione e la verifica delle emissioni di gas serra) sulle norme industriali e, soprattutto, sulle misure lato domanda/infrastrutture che evitino che la compliance diventi un costo fisso.
Stellantis sostiene che, così com’è, la proposta non crea le sufficienti condizioni per crescere; la Commissione europea, dal canto suo, replica che serve una flessibilità che spinga filiere verdi europee senza abbandonare gli obiettivi industriali.
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