2020-01-25
Zingaretti fa lo Schettino e fugge in Calabria
Nel momento cruciale della sfida per conquistare l'Emilia Romagna, il segretario dem si estranea dalla lotta. E lascia la piazza più cara alla sinistra in mano ai pesciolini. Anche nelle regioni rosse il Pd non è un più valore, ma un simbolo di cui vergognarsi.La grande fuga. Avrebbe voluto farla in moto con il giubbotto da Steve McQueen, ma in assenza del phisique du rôle si è accontentato della macchina diesel del partito. Via dall'incubo emiliano, via dalla riviera romagnola, via dalle Coop ingrate: Nicola Zingaretti ha chiuso la campagna elettorale in Calabria, nel posto più lontano dal luogo dove ribolle l'epica sfida. Dovendo scegliere ha preferito scappare, rifugiarsi nell'altra Reggio dove tutto è più ovattato e dove - a leggere i sondaggi interni mascherati - la disfatta sarebbe cosa certa, soprattutto dopo la decisione del Movimento 5 stelle di correre da solo. Una scelta che non ha prodotto sussulti di rianimazione neppure nello schieramento grillino; ad ascoltare Danilo Toninelli e il candidato, Francesco Aiello, l'altroieri in piazza Camagna c'erano 50 persone. Un'altra era geologica rispetto a due anni fa. Così la foto di solito dedicata alle folle oceaniche è stata sostituita da quella dell'ex ministro depresso che mangia un gelato. Anche per Zingaretti meglio la Calabria e il salone protetto (lì a dare l'effetto del tutto esaurito bastano i pretoriani) del palazzo dell'Assemblea regionale dedicato a Tommaso Campanella, il monaco filosofo in odore di eresia che un giorno disse: «Io nacqui a debellar tre mali. Tirannide, sofismi, ipocrisia». Praticamente i mali del Pd individuati con quattro secoli di anticipo.Così il segretario si è defilato, dovendo scegliere ha preferito stare lontano da Bologna, da Modena, da Rimini e da Bibbiano dove il volto del capo avrebbe dovuto fare la differenza. E invece no, il suo gesto a poche ore dal voto smaschera definitivamente una debolezza strutturale: anche nelle regioni rosse il partito che fu di Peppone, Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer, Walter Veltroni, Massimo D'Alema non illude più nessuno. Perché non è più un valore aggiunto e nessuno punta più su di lui. Neppure a Cavriago, paese citato da Lenin al congresso della Terza internazionale, la parola «Gramsci» pronunciata con severa compunzione mette più a tacere nessuno. La questione morale adesso è l'occupazione militare del potere, la trasformazione - anzi la sublimazione - della sinistra nella Casta e in quel riformismo da convegno degli Infallibili (Matteo Renzi, Carlo Calenda, Carlo Cottarelli) che sta sontuosamente sulle scatole alla gente comune, nel senso di ordinary people, elettori del terzo millennio.La presenza di Zingaretti non è un plus ma un minus. Scappa perché vuole assecondare fino all'ultimo Stefano Bonaccini nella sua richiesta più bizzarra, controcorrente: togliere dai fondali il simbolo del Pd, non parlare mai dei programmi del Pd, non accennare alla storia del Pd («O sparo!»), sciogliere nell'acido la memoria del Pd, «Cancellare Berlinguer» come titolerebbe La Repubblica, per provare a vincere ancora. Dopo 70 anni rimane, come eredità, l'inganno di una negazione. I primi a sapere di rappresentare il vecchio sono i colonnelli del Pd. Assunto confermato dalle parole da terza media con le quali il segretario ha annunciato di voler cambiare tutto: «Quello futuro non sarà un partito nuovo, ma un nuovo partito».Zingaretti scappa perché sa che oggi la Balena rossa in Emilia è meglio rappresentata dalle sardine, quindi lascia a loro il ruolo di guardiani della rivoluzione. Prospettive zero, idee una sola: combattere Matteo Salvini. Secondo il fuggitivo medesimo, l'allegra ebetudine mediatica di Mattia Santori fa meno danni dei nuovi quaderni piacentini di Dario Franceschini. «Via via, vieni via con me», canticchia il segretario mentre imbocca la strada dell'altra Reggio portando con sé valori vaporizzati di una «popolosa tribù di bolliti» (cit. Edmondo Berselli). C'è qualcosa di magico nella fuga del numero uno come se, per la seconda volta, dovesse avverarsi la profezia di un vecchio lettore de L'Unità che in una lettera epocale scrisse: «Eravamo tutti tranquillamente marxisti e a un tratto dovemmo fare i conti con i Pooh».C'è qualcosa di non nuovo e di molto russo nella mossa di scomparire messa in atto da Zingaretti. Ha bruciato il partito e il passato esattamente come il generale Michail Kutuzov, che vinse scappando e incendiando Mosca contro Napoleone. È esattamente il contrario di ciò che fece D'Alema nel 2001 a Gallipoli, aggredito in casa dagli elicotteri e dai sondaggi di Silvio Berlusconi. Lui, che detesta la gente, si abbassò a calcare spiagge e discoteche, a stringere mani sudate nelle cucine delle pizzerie fino all'ultimo minuto per portare a casa un pareggio. Ma al posto delle sardine aveva sottomano Claudio Velardi e Gianni Cuperlo, c'è da capirlo.Dev'essere stata dura per il Charlie Brown del Nazzareno convincersi che gli elettori di sinistra e i «Liberali per Scalfarotto» che abitano i giornali chic si eccitano più per il tuffo delle sardine al Papeete che per due ore di comizio dem. Ma la strategia di Kaiser Söze Bonaccini è questa: per far vincere il Pd bisogna far finta che il Pd non esista. Quindi Zingaretti si accomodi in Calabria. È un'omerica presa per il naso perché un minuto dopo il governatore nominerà una giunta Pd, avrà come interlocutore il governo del Pd, stringerà patti con imprenditori e associazioni vicini al Pd, perpetuerà il potere al ragù del Pd. Ma se il partito è ritenuto dannoso dal suo stesso candidato, perché gli elettori dovrebbero votarlo?
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)