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2023-11-03
Zelensky vede nero: «Mi stanno mollando»
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Il «dolcetto o scherzetto» a scoppio ritardato continua a far parlare il mondo politico e apre due scenari, uno folcloristico e l’altro di sostanza strategica: la vulnerabilità telefonica di Palazzo Chigi e l’effettiva stanchezza del mondo occidentale nei confronti della guerra in Ucraina. Sull’intervista rubata a Giorgia Meloni da parte dei comici russi Vovan e Lexus (i Ficarra e Picone della steppa) ieri è intervenuto Alfredo Mantovano per dire che «il presidente del Consiglio l’aveva capito subito» che trattavasi di scherzo. Subito? «E certo». Niente di più da parte del sottosegretario alla presidenza, neppure sui 44 giorni in cui la conversazione è rimasta a frollare dentro un registratore digitale senza un annuncio preventivo a disinnescare il petardo.
La vicenda ha creato il consueto temporale nell’opposizione, indignata perché due sconosciuti hanno potuto parlare con la premier spacciandosi per Moussa Faki (numero uno della commissione dell’Unione africana), esattamente com’è accaduto a Recep Tayyip Erdogan e Boris Johnson. E ha messo di cattivo umore anche qualche alleato in maggioranza, come il ministro degli Esteri Antonio Tajani che sottolinea: «C’è stata superficialità in chi ha organizzato la telefonata, e questo non deve più accadere». Sulla sceneggiata Lilli Gruber ha imbastito l’immancabile puntata di Otto e mezzo con Aleksei Stolyarov, uno dei comici felice del bagno di popolarità italiana. Restio a rivelare i dettagli dell’impresa, ha ricordato di aver già gabbato Jens Stoltenberg e Federica Mogherini. A Fanpage, lo stesso Lexus aveva spiegato: «La nostra arma, anche con Meloni, è stata la vanità dei vostri politici». Col premier, però, si è instaurata una certa «empatia. Aveva voglia di parlare, di confrontarsi. Di chiedere oltre che dichiarare. Una persona piena di emozioni. Cosa non comune, quando giochiamo con personaggi di spicco della politica». Nessun attrito governativo sui contenuti della conversazione con i due burloni, visto che Meloni ha descritto con trasparenza uno scenario realistico della situazione. Lo stesso Tajani commenta: «Le sue parole sono un chiaro segnale di conferma della linea politica del nostro Paese. Noi siamo dalla parte dell’Ucraina». Sintesi: se la chiamata era finta, le risposte erano vere e coerenti. Proprio le frasi della premier («C’è molta stanchezza da tutte le parti», «Serve una via d’uscita accettabile senza distruggere la legge internazionale») portano alla luce il tema chiave del momento: nessuno sembra più disposto a svenarsi per Kiev.
A cominciare dagli Stati Uniti, dove il consenso per l’invio delle armi agli ucraini è sceso dal 65% al 41% (sondaggio Reuters). Meloni ha messo il dito nella piaga e il primo a capire che il vento sta cambiando è proprio Volodymyr Zelensky che alla rivista americana Time ha detto: «Nessuno crede più alla nostra vittoria come ci credo io. Nessuno». Il magazine descrive il presidente come «sconfortato perché l’appoggio occidentale vacilla», «non fa più battute per stemperare la tensione nelle riunioni operative», «in lui è sparito l’ottimismo di sempre». A raccontarlo è Simon Shuster, inviato che 20 mesi fa dipinse dal palazzo presidenziale di Kiev il leader in mimetica come un nuovo Winston Churchill e oggi lo vede assediato e triste, praticamente nel bunker in preda ai fantasmi. Poco considerato dagli alleati distratti, mentre la guerra si è impantanata di nuovo nell’inverno napoleonico. Lo scenario è cambiato, la controffensiva langue, sembra passato un secolo dal treno con Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Mario Draghi (in Occidente le foto iconiche un tanto al chilo spopolano sempre). E i tank russi non si muovono di lì.
Time scrive che Zelensky «è depresso, arrabbiato con gli alleati perché si sente tradito». Citando un consigliere, Shuster scrive che «Zelensky ha una convinzione messianica nella vittoria, si illude. Non stiamo vincendo ma dirglielo è impossibile». Se la situazione psicologica è questa, la «stanchezza di tutti» evocata da Giorgia Meloni è realistica. Lo stesso Zelensky ammette: «La cosa più spaventosa è che una parte del mondo si è abituata alla guerra in Ucraina. La stanchezza scorre come un’onda, la vedi negli Stati Uniti e in Europa. E vediamo che non appena iniziano a stancarsi un po’, diventa come uno spettacolo». Lui di teatro se ne intende e chiude stancamente: «Come se dicessero tutti assieme, non posso guardare questa replica per la decima volta».
Il reportage è crepuscolare e illuminante, tocca con mano una realtà confermata dall’andamento della guerra stessa. Valery Zaluzhny, comandante in capo delle forze ucraine, ha rivelato all’Economist che «il conflitto sta diventando una guerra di posizione, di combattimento statico e di logoramento come accadde nella prima guerra mondiale. Niente più movimento e velocità. Ciò andrà a beneficio della Russia, permettendole di ricostruire la sua potenza militare, minacciando infine le forze armate ucraine e lo Stato stesso».
Mentre dalle parti di Kiev si parla di guerra vera, a Mosca continua quella della propaganda. E le parole di Giorgia Meloni («Gli ucraini stanno facendo ciò che devono e noi li stiamo aiutando»), distorte secondo le vecchie regole del Kgb, diventano un tema di polemica spicciola. Maria Zahkarova, portavoce del ministero degli Esteri, critica la premier italiana per non aver condannato il nazionalismo ucraino. «Sarebbe pronta a glorificare Achille Starace o Alessandro Pavolini?», si domanda Zahkarova con un’invettiva fuori contesto e fuori dal tempo. Dimentica il recente abbraccio del Cremlino ad Hamas. E curiosamente tralascia di ricordare che la punta di diamante dell’esercito russo era la brigata Wagner. Chiamata così non certo perché composta da amanti di lirica.
Putin rispolvera la minaccia atomica. Cancellato il divieto di test nucleari
Nel momento in cui l’asse del conflitto globale si è spostato dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, Vladimir Putin torna a far discutere e a mettere paura all’Occidente. Ieri, infatti, lo zar ha firmato il decreto di uscita della Russia dal Trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari (Ctbt). Non si tratta, peraltro, di un fulmine a ciel sereno: già a fine ottobre la Duma, la Camera bassa, aveva annunciato la ratifica della decisione presa dal Cremlino.
Il trattato Ctbt, che ha avuto una gestazione di tre anni nell’ambito della Conferenza del disarmo, era stato adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 settembre 1996. Tuttavia, non è mai entrato in vigore. Il motivo? Molte nazioni non lo hanno ratificato, rendendo impossibile raggiungere il quorum previsto dal trattato stesso. Tra i Paesi che hanno firmato l’accordo senza ratificarlo, ci sono anche gli Stati Uniti d’America (la Russia, al contrario, lo ha sia firmato che ratificato). Non a caso, sono stati proprio i tentennamenti di Washington che hanno spinto Putin ad abbandonare il trattato.
Il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha dichiarato che la decisione è «la chiara risposta a un atteggiamento odioso da parte degli Stati Uniti» per quel che riguarda la sicurezza globale. Putin, però, ha voluto far intendere che il provvedimento di Mosca non avrà effetti immediati: «Non posso dire ora se riprenderemo i test», ha affermato lo zar a proposito dello sviluppo di progetti su nuovi missili in grado di trasportare testate nucleari. In ogni caso, è da specificare che la dottrina russa prevede che l’uso di armi atomiche sia «strettamente difensivo». In sostanza, solo in caso di attacco alla Russia con armi di distruzione di massa o, in alternativa, in presenza di aggressioni con armi convenzionali «che minacciano l’esistenza stessa dello Stato».
Con questa mossa del Cremlino, quindi, proseguono le tensioni tra Russia e Stati Uniti, che si sono acuite con l’invasione dell’Ucraina. Sempre in tema di armi nucleari, del resto, lo scorso febbraio Putin aveva annunciato la sospensione del trattato Start (Strategic arms reduction treaty), siglato per la prima volta nel 1991, al termine della guerra fredda, e poi rivisto nel 2010 (nella versione cosiddetta New Start). Questo accordo bilaterale prevedeva una riduzione del 60% nel numero di testate nucleari in dotazione a Stati Uniti e Federazione russa (che da sole posseggono il 90% delle armi nucleari a livello mondiale). La decisione dello zar si era resa necessaria a causa delle reciproche ispezioni previste dal trattato. Un’eventualità (ispettori statunitensi in visita in Russia) che, in tempo di guerra in Ucraina, Putin aveva definito «assurda».
Se Mosca si riarma, anche Washington non è da meno. Solo pochi giorni fa, in effetti, il Dipartimento della difesa americano (Dod) ha annunciato di voler far approvare al Congresso la produzione di una nuova bomba nucleare. Si tratta, nello specifico, della B61-13. Un ordigno che avrà la potenza di 350 chilotoni: in pratica, sarà 24 volte più devastante di «Little Boy», la bomba che fu sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945, la quale conteneva circa 15 chilotoni. In proposito, il presidente del Comitato per le forze armate della Camera, Mike Rogers, e il senatore Roger Wicker hanno affermato che «Cina e Russia si stanno riarmando e gli Stati Uniti devono rimanere al passo. Per affrontare questa minaccia, è necessaria una trasformazione radicale del nostro atteggiamento deterrente».
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Su «Time» lo sconforto del presidente: «Impossibile dirgli che Kiev sta perdendo». Ma ora lo ammette pure il capo dell’esercito. Mosca accusa Giorgia Meloni dopo lo scherzo telefonico: «Glorifica i fascisti ucraini». I comici la elogiano: «Una donna piena di emozioni».Stop al trattato del 1996 per la messa al bando degli esperimenti nucleari, mai ratificato dall’America. Che prepara una nuova bomba.Lo speciale contiene due articoli.Il «dolcetto o scherzetto» a scoppio ritardato continua a far parlare il mondo politico e apre due scenari, uno folcloristico e l’altro di sostanza strategica: la vulnerabilità telefonica di Palazzo Chigi e l’effettiva stanchezza del mondo occidentale nei confronti della guerra in Ucraina. Sull’intervista rubata a Giorgia Meloni da parte dei comici russi Vovan e Lexus (i Ficarra e Picone della steppa) ieri è intervenuto Alfredo Mantovano per dire che «il presidente del Consiglio l’aveva capito subito» che trattavasi di scherzo. Subito? «E certo». Niente di più da parte del sottosegretario alla presidenza, neppure sui 44 giorni in cui la conversazione è rimasta a frollare dentro un registratore digitale senza un annuncio preventivo a disinnescare il petardo.La vicenda ha creato il consueto temporale nell’opposizione, indignata perché due sconosciuti hanno potuto parlare con la premier spacciandosi per Moussa Faki (numero uno della commissione dell’Unione africana), esattamente com’è accaduto a Recep Tayyip Erdogan e Boris Johnson. E ha messo di cattivo umore anche qualche alleato in maggioranza, come il ministro degli Esteri Antonio Tajani che sottolinea: «C’è stata superficialità in chi ha organizzato la telefonata, e questo non deve più accadere». Sulla sceneggiata Lilli Gruber ha imbastito l’immancabile puntata di Otto e mezzo con Aleksei Stolyarov, uno dei comici felice del bagno di popolarità italiana. Restio a rivelare i dettagli dell’impresa, ha ricordato di aver già gabbato Jens Stoltenberg e Federica Mogherini. A Fanpage, lo stesso Lexus aveva spiegato: «La nostra arma, anche con Meloni, è stata la vanità dei vostri politici». Col premier, però, si è instaurata una certa «empatia. Aveva voglia di parlare, di confrontarsi. Di chiedere oltre che dichiarare. Una persona piena di emozioni. Cosa non comune, quando giochiamo con personaggi di spicco della politica». Nessun attrito governativo sui contenuti della conversazione con i due burloni, visto che Meloni ha descritto con trasparenza uno scenario realistico della situazione. Lo stesso Tajani commenta: «Le sue parole sono un chiaro segnale di conferma della linea politica del nostro Paese. Noi siamo dalla parte dell’Ucraina». Sintesi: se la chiamata era finta, le risposte erano vere e coerenti. Proprio le frasi della premier («C’è molta stanchezza da tutte le parti», «Serve una via d’uscita accettabile senza distruggere la legge internazionale») portano alla luce il tema chiave del momento: nessuno sembra più disposto a svenarsi per Kiev. A cominciare dagli Stati Uniti, dove il consenso per l’invio delle armi agli ucraini è sceso dal 65% al 41% (sondaggio Reuters). Meloni ha messo il dito nella piaga e il primo a capire che il vento sta cambiando è proprio Volodymyr Zelensky che alla rivista americana Time ha detto: «Nessuno crede più alla nostra vittoria come ci credo io. Nessuno». Il magazine descrive il presidente come «sconfortato perché l’appoggio occidentale vacilla», «non fa più battute per stemperare la tensione nelle riunioni operative», «in lui è sparito l’ottimismo di sempre». A raccontarlo è Simon Shuster, inviato che 20 mesi fa dipinse dal palazzo presidenziale di Kiev il leader in mimetica come un nuovo Winston Churchill e oggi lo vede assediato e triste, praticamente nel bunker in preda ai fantasmi. Poco considerato dagli alleati distratti, mentre la guerra si è impantanata di nuovo nell’inverno napoleonico. Lo scenario è cambiato, la controffensiva langue, sembra passato un secolo dal treno con Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Mario Draghi (in Occidente le foto iconiche un tanto al chilo spopolano sempre). E i tank russi non si muovono di lì. Time scrive che Zelensky «è depresso, arrabbiato con gli alleati perché si sente tradito». Citando un consigliere, Shuster scrive che «Zelensky ha una convinzione messianica nella vittoria, si illude. Non stiamo vincendo ma dirglielo è impossibile». Se la situazione psicologica è questa, la «stanchezza di tutti» evocata da Giorgia Meloni è realistica. Lo stesso Zelensky ammette: «La cosa più spaventosa è che una parte del mondo si è abituata alla guerra in Ucraina. La stanchezza scorre come un’onda, la vedi negli Stati Uniti e in Europa. E vediamo che non appena iniziano a stancarsi un po’, diventa come uno spettacolo». Lui di teatro se ne intende e chiude stancamente: «Come se dicessero tutti assieme, non posso guardare questa replica per la decima volta». Il reportage è crepuscolare e illuminante, tocca con mano una realtà confermata dall’andamento della guerra stessa. Valery Zaluzhny, comandante in capo delle forze ucraine, ha rivelato all’Economist che «il conflitto sta diventando una guerra di posizione, di combattimento statico e di logoramento come accadde nella prima guerra mondiale. Niente più movimento e velocità. Ciò andrà a beneficio della Russia, permettendole di ricostruire la sua potenza militare, minacciando infine le forze armate ucraine e lo Stato stesso».Mentre dalle parti di Kiev si parla di guerra vera, a Mosca continua quella della propaganda. E le parole di Giorgia Meloni («Gli ucraini stanno facendo ciò che devono e noi li stiamo aiutando»), distorte secondo le vecchie regole del Kgb, diventano un tema di polemica spicciola. Maria Zahkarova, portavoce del ministero degli Esteri, critica la premier italiana per non aver condannato il nazionalismo ucraino. «Sarebbe pronta a glorificare Achille Starace o Alessandro Pavolini?», si domanda Zahkarova con un’invettiva fuori contesto e fuori dal tempo. Dimentica il recente abbraccio del Cremlino ad Hamas. E curiosamente tralascia di ricordare che la punta di diamante dell’esercito russo era la brigata Wagner. Chiamata così non certo perché composta da amanti di lirica.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/zelensky-mi-stanno-mollando-2666135387.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="putin-rispolvera-la-minaccia-atomica-cancellato-il-divieto-di-test-nucleari" data-post-id="2666135387" data-published-at="1698964313" data-use-pagination="False"> Putin rispolvera la minaccia atomica. Cancellato il divieto di test nucleari Nel momento in cui l’asse del conflitto globale si è spostato dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, Vladimir Putin torna a far discutere e a mettere paura all’Occidente. Ieri, infatti, lo zar ha firmato il decreto di uscita della Russia dal Trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari (Ctbt). Non si tratta, peraltro, di un fulmine a ciel sereno: già a fine ottobre la Duma, la Camera bassa, aveva annunciato la ratifica della decisione presa dal Cremlino. Il trattato Ctbt, che ha avuto una gestazione di tre anni nell’ambito della Conferenza del disarmo, era stato adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 settembre 1996. Tuttavia, non è mai entrato in vigore. Il motivo? Molte nazioni non lo hanno ratificato, rendendo impossibile raggiungere il quorum previsto dal trattato stesso. Tra i Paesi che hanno firmato l’accordo senza ratificarlo, ci sono anche gli Stati Uniti d’America (la Russia, al contrario, lo ha sia firmato che ratificato). Non a caso, sono stati proprio i tentennamenti di Washington che hanno spinto Putin ad abbandonare il trattato. Il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha dichiarato che la decisione è «la chiara risposta a un atteggiamento odioso da parte degli Stati Uniti» per quel che riguarda la sicurezza globale. Putin, però, ha voluto far intendere che il provvedimento di Mosca non avrà effetti immediati: «Non posso dire ora se riprenderemo i test», ha affermato lo zar a proposito dello sviluppo di progetti su nuovi missili in grado di trasportare testate nucleari. In ogni caso, è da specificare che la dottrina russa prevede che l’uso di armi atomiche sia «strettamente difensivo». In sostanza, solo in caso di attacco alla Russia con armi di distruzione di massa o, in alternativa, in presenza di aggressioni con armi convenzionali «che minacciano l’esistenza stessa dello Stato». Con questa mossa del Cremlino, quindi, proseguono le tensioni tra Russia e Stati Uniti, che si sono acuite con l’invasione dell’Ucraina. Sempre in tema di armi nucleari, del resto, lo scorso febbraio Putin aveva annunciato la sospensione del trattato Start (Strategic arms reduction treaty), siglato per la prima volta nel 1991, al termine della guerra fredda, e poi rivisto nel 2010 (nella versione cosiddetta New Start). Questo accordo bilaterale prevedeva una riduzione del 60% nel numero di testate nucleari in dotazione a Stati Uniti e Federazione russa (che da sole posseggono il 90% delle armi nucleari a livello mondiale). La decisione dello zar si era resa necessaria a causa delle reciproche ispezioni previste dal trattato. Un’eventualità (ispettori statunitensi in visita in Russia) che, in tempo di guerra in Ucraina, Putin aveva definito «assurda». Se Mosca si riarma, anche Washington non è da meno. Solo pochi giorni fa, in effetti, il Dipartimento della difesa americano (Dod) ha annunciato di voler far approvare al Congresso la produzione di una nuova bomba nucleare. Si tratta, nello specifico, della B61-13. Un ordigno che avrà la potenza di 350 chilotoni: in pratica, sarà 24 volte più devastante di «Little Boy», la bomba che fu sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945, la quale conteneva circa 15 chilotoni. In proposito, il presidente del Comitato per le forze armate della Camera, Mike Rogers, e il senatore Roger Wicker hanno affermato che «Cina e Russia si stanno riarmando e gli Stati Uniti devono rimanere al passo. Per affrontare questa minaccia, è necessaria una trasformazione radicale del nostro atteggiamento deterrente».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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