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2023-04-24
Lo zampino di Haftar nella crisi sudanese
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Khalifa Haftar (Ansa)
Nonostante una breve pausa notturna nei combattimenti, domenica è stata la nona giornata di scontri. Secondo Al Jazeera, il quadro si è rivelato particolarmente problematico soprattutto nelle città di Khartum e Omdurman, dove si sarebbero verificati “pesanti bombardamenti e incursioni aeree”. Fino a ieri, le Nazioni Unite hanno riportato che più di 400 persone sono state uccise, mentre i feriti supererebbero le 3.500 unità. Nel frattempo, migliaia di persone stanno continuando a fuggire da Khartum e dalla regione del Darfur, per cercare rifugio in Ciad. In tutto questo, il cibo scarseggia, mentre – secondo l'Unione dei medici sudanesi – moltissimi ospedali nel Paese restano fuori uso. Frattanto, Italia, Francia, Arabia Saudita e Stati Uniti hanno avviato le operazioni di evacuazione.
E il quadro internazionale nel mentre si complica. Venerdì, la Cnn ha infatti riferito che «il gruppo mercenario russo Wagner ha fornito alle Rsf del Sudan missili per aiutare la loro lotta contro l'esercito del Paese». «Al confine con la Libia, dove un generale canaglia sostenuto dai Wagner, Khalifa Haftar, controlla aree di terra, le immagini satellitari supportano queste affermazioni, mostrando un insolito aumento dell'attività nelle basi Wagner», ha aggiunto il network statunitense. «Haftar ha sostenuto le Rsf, dicono fonti, anche se nega di schierarsi. E l'aumento dell'attività del Wagner nelle basi di Haftar, unita alle affermazioni di fonti diplomatiche sudanesi e regionali, suggerisce che sia la Russia sia il generale libico potrebbero essersi preparati a sostenere le Rsf anche prima dello scoppio della violenza», ha proseguito la Cnn.
D’altronde, i rapporti tra le Rsf e il Wagner Group non sono una novità: i legami tra le due organizzazioni sono piuttosto vecchi, mentre il Cremlino ha sempre guardato con estrema attenzione all’oro sudanese. Oro che Mosca ha usato anche per sostenere il proprio sforzo bellico in Ucraina. Dall'altra parte, non è un mistero che i mercenari del Wagner supportino le forze di Haftar nella parte orientale della Libia. Non va infine trascurato che, negli ultimi mesi, il capo di Stato de facto del Sudan, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, era sembrato avvicinarsi, almeno parzialmente, all’orbita occidentale. Come che sia, un aspetto indubbiamente preoccupante risiede nel fatto che l’Est della Libia avrebbe aiutato a spalleggiare militarmente le Rsf. Un problema significativo anche per il nostro Paese.
Tuttavia, oltre al ruolo della Russia, ci si interroga anche sulla condotta dell’Egitto. Come sottolineato dalla Bbc, «l'Egitto è vicino a una delle due parti in lotta: l'esercito sudanese. Nel frattempo, si ritiene che l'altra parte, le Rsf, guidate da Mohamed Hamdan ‘Hemedi’ Dagalo, sia sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti, che sono uno dei principali sostenitori finanziari dell'Egitto». Il Cairo si trova quindi attanagliato in un vero e proprio dilemma: un dilemma reso ancor più grave dal suo complicato equilibrismo tra Stati Uniti e Russia. Non solo. L’Egitto teme infatti di essere geopoliticamente danneggiato da un Sudan preda dell’instabilità politica e militare. Il quadro complessivo, insomma, si fa sempre più confuso e pericoloso.
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Resta tesissima la situazione in Sudan. E intanto, secondo la Cnn, il generale libico, storicamente spalleggiato da Mosca, avrebbe avuto un ruolo in quello che sta accadendo. Nonostante una breve pausa notturna nei combattimenti, domenica è stata la nona giornata di scontri. Secondo Al Jazeera, il quadro si è rivelato particolarmente problematico soprattutto nelle città di Khartum e Omdurman, dove si sarebbero verificati “pesanti bombardamenti e incursioni aeree”. Fino a ieri, le Nazioni Unite hanno riportato che più di 400 persone sono state uccise, mentre i feriti supererebbero le 3.500 unità. Nel frattempo, migliaia di persone stanno continuando a fuggire da Khartum e dalla regione del Darfur, per cercare rifugio in Ciad. In tutto questo, il cibo scarseggia, mentre – secondo l'Unione dei medici sudanesi – moltissimi ospedali nel Paese restano fuori uso. Frattanto, Italia, Francia, Arabia Saudita e Stati Uniti hanno avviato le operazioni di evacuazione.E il quadro internazionale nel mentre si complica. Venerdì, la Cnn ha infatti riferito che «il gruppo mercenario russo Wagner ha fornito alle Rsf del Sudan missili per aiutare la loro lotta contro l'esercito del Paese». «Al confine con la Libia, dove un generale canaglia sostenuto dai Wagner, Khalifa Haftar, controlla aree di terra, le immagini satellitari supportano queste affermazioni, mostrando un insolito aumento dell'attività nelle basi Wagner», ha aggiunto il network statunitense. «Haftar ha sostenuto le Rsf, dicono fonti, anche se nega di schierarsi. E l'aumento dell'attività del Wagner nelle basi di Haftar, unita alle affermazioni di fonti diplomatiche sudanesi e regionali, suggerisce che sia la Russia sia il generale libico potrebbero essersi preparati a sostenere le Rsf anche prima dello scoppio della violenza», ha proseguito la Cnn. D’altronde, i rapporti tra le Rsf e il Wagner Group non sono una novità: i legami tra le due organizzazioni sono piuttosto vecchi, mentre il Cremlino ha sempre guardato con estrema attenzione all’oro sudanese. Oro che Mosca ha usato anche per sostenere il proprio sforzo bellico in Ucraina. Dall'altra parte, non è un mistero che i mercenari del Wagner supportino le forze di Haftar nella parte orientale della Libia. Non va infine trascurato che, negli ultimi mesi, il capo di Stato de facto del Sudan, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, era sembrato avvicinarsi, almeno parzialmente, all’orbita occidentale. Come che sia, un aspetto indubbiamente preoccupante risiede nel fatto che l’Est della Libia avrebbe aiutato a spalleggiare militarmente le Rsf. Un problema significativo anche per il nostro Paese.Tuttavia, oltre al ruolo della Russia, ci si interroga anche sulla condotta dell’Egitto. Come sottolineato dalla Bbc, «l'Egitto è vicino a una delle due parti in lotta: l'esercito sudanese. Nel frattempo, si ritiene che l'altra parte, le Rsf, guidate da Mohamed Hamdan ‘Hemedi’ Dagalo, sia sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti, che sono uno dei principali sostenitori finanziari dell'Egitto». Il Cairo si trova quindi attanagliato in un vero e proprio dilemma: un dilemma reso ancor più grave dal suo complicato equilibrismo tra Stati Uniti e Russia. Non solo. L’Egitto teme infatti di essere geopoliticamente danneggiato da un Sudan preda dell’instabilità politica e militare. Il quadro complessivo, insomma, si fa sempre più confuso e pericoloso.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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