2020-04-26
Zagaria va dal 41 bis ai domiciliari e nessuno sa perché
Michele Zagaria (Marco Cantile/LightRocket via Getty Images)
Il boss della camorra è un soggetto a rischio per il Covid-19 ma non è stata trovata una cella protetta in ospedale.Uno dopo l'altro, i boss mafiosi stanno lasciando il carcere perché a rischio di contagio da Covid-19. Era accaduto qualche giorno fa con Francesco Bonura, l'anziano mafioso palermitano condannato a quasi 19 anni di reclusione, che il Tribunale di sorveglianza di Milano il 20 aprile ha fatto uscire dalla prigione di Opera dov'era recluso in regime di 41 bis, il carcere duro riservato ai detenuti più pericolosi. Ora il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha disposto a sorpresa la scarcerazione anche per Pasquale Zagaria, 60 anni, fratello del boss di camorra Michele Zagaria, capo del clan dei Casalesi. Zagaria, 60 anni, è stato spedito agli arresti domiciliari a casa della moglie a Pontevico, in provincia di Brescia: ci resterà per cinque mesi, fino al 22 settembre. Come quella dei giudici milanesi per Bonura, anche la decisione del magistrato sassarese Riccardo De Vito è collegata all'emergenza coronavirus: Zagaria, 60 anni, è malato di cancro e l'ospedale di Sassari dove veniva curato non è più in grado di ospitarlo perché la struttura è stata trasformata in reparto Covid-19, e c'è il rischio di contagio. Il giudice De Vito, in realtà, ha cercato di evitare la scarcerazione di Zagaria. Nell'ordinanza, datata 23 aprile, scrive di aver chiesto al Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, di poterlo trasferire in un altro istituto penitenziario, attrezzato per i trattamenti di cui ha bisogno. Ma aggiunge che «non è giunta risposta alcuna».Il Dap, che è il «braccio» del ministero della Giustizia cui è affidata la gestione delle carceri (e dal 2018 è diretto da Francesco Basentini, un magistrato che prima era procuratore aggiunto a Potenza), lo smentisce. E in una nota risponde di avere cercato una collocazione alternativa per il detenuto: «Il Tribunale di sorveglianza di Sassari», vi si legge, «è stato costantemente informato delle attività degli uffici dell'amministrazione penitenziaria per trovare a Pasquale Zagaria una collocazione compatibile col suo stato di salute. Tutti i passaggi che si stavano compiendo sono stati oggetto di comunicazione al Tribunale di sorveglianza, con almeno tre messaggi di posta elettronica, l'ultimo dei quali risalente allo scorso 23 aprile», cioè lo stesso giorno in cui è stata presa la decisione di scarcerare il condannato. Le due versioni del giudice De Vito e del Dap contrastano, insomma, e al momento non è dato sapere chi dica il vero. Così, però, la scarcerazione di Zagaria diventa un mezzo mistero, e infatti il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha già deciso la solita, inutile ispezione. Il punto è che il mezzo mistero diventa un problema serio, vista la pericolosità del detenuto: detto «Bin Laden», Zagaria è in carcere dal 2007 e in base alle condanne subite dovrebbe restarci fino al luglio 2025. Per la giustizia italiana è lui la mente finanziaria dei Casalesi, il tecnico che nei primi anni 2000 aveva permesso ai camorristi di Casal di Principe di infiltrarsi in appalti pubblici miliardari. Ma oltre che un mezzo mistero e un problema serio, soprattutto se il giudice De Vito dice il vero la scarcerazione di Zagaria diventa uno scandalo. E gravissimo. Perché è inammissibile che un governo e uno Stato, pur se in mesi difficili come quelli della pandemia, non siano in grado di trovare una soluzione alternativa agli arresti domiciliari per uno dei detenuti di camorra più importanti d'Italia. Davvero non c'erano più reparti di «medicina protetta» a disposizione del Dap? Zagaria non poteva andare, per esempio, all'Ospedale San Paolo di Milano, il cui efficientissimo reparto di camere-celle aveva ospitato in totale sicurezza gli ultimi mesi di Bernardo Provenzano, malato di cancro e affetto da demenza senile? Non c'era un posto, lì? O nel reparto di sicurezza del Policlinico di Parma, dove alla fine era stato ricoverato Totò Riina, cardiopatico e colpito da ischemia? Non c'era un letto negli altri reparti «protetti» esistenti a Roma, Catania, Agrigento? È giusto che lo Stato tuteli la salute dei detenuti che gli sono affidati, ci mancherebbe. Ma è un suo compito altrettanto fondamentale proteggere la collettività dai condannati considerati così pericolosi da essere reclusi in base alle regole (in certi casi fin troppo rigide) dell'articolo 41 bis del regolamento carcerario. Questa protezione, è evidente, gli arresti domiciliari non la consentono. E una fuga di Zagaria, domani, sarebbe davvero imperdonabile. La questione diventa ancora più grave alla luce di una circolare del Dap, datata 21 marzo, che sollecitava tutti i direttori delle carceri a comunicare «con solerzia all'autorità giudiziaria», e per «le eventuali determinazioni di competenza», i nomi dei detenuti «oltre i 70 anni» affetti da nove patologie capaci di produrre «complicanze» in caso di contagio da Covid-19. Grazie al monitoraggio, dopo oltre un mese l'amministrazione penitenziaria oggi dovrebbe avere il quadro preciso della situazione. Vista con gli occhi di oggi, e visto quanto sta accadendo, la circolare comincia ad assumere invece l'aspetto di uno scarico di coscienza. Come a dire: il problema non è nostro, ci pensi la magistratura. E difatti la magistratura decide, come s'è visto. Il punto è che ora la decisione su Bonura e su Zagaria offre una pericolosa sponda giuridica ad altri boss mafiosi reclusi al 41 bis. Perché è vero che il 24 aprile il Tribunale di sorveglianza di Milano ha bocciato la richiesta di passare ai domiciliari per motivi di salute presentata dai legali di Nitto Santapaola, 81 anni, uno dei massimi capi di Cosa nostra, in quanto il detenuto «è ristretto in regime di 41bis» nel carcere di Opera e quindi vive «in celle singole e con tutte le limitazioni del predetto regime, che lo proteggono dal rischio di contagio». Ma altri pezzi da novanta potrebbero provarci. E di solito sono tutti molto ben difesi.