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2023-04-11
«Will Trent», la nuova serie crime in arrivo su Disney+
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«Will Trent» (ABC)
I gialli, fra i generi televisivi, hanno appeal e regole proprie. È facile che catturino chi guardi. È altrettanto facile, però, che deludano questo qualcuno: con finali posticci, con indizi raffazzonati, con buchi di scrittura a coprire malamente voli troppo arditi, con storie già sentite e personaggi costruiti su stereotipi e luoghi comuni. Perché un giallo sia ben scritto e, dunque, meritevole di quella visione convinta che nasce oltre la curiosità di ogni inizio è necessario studiare un sistema complesso. Indovinarle tutte. E Will Trent, adattamento televisivo della saga letteraria di Karin Slaughter, pare esserci riuscito.
La serie televisiva, i cui primi due episodi (di dieci totali) debutteranno su Disney+ mercoledì 12 aprile, ha un impianto solido. Più di tutto, però, ha un protagonista solido. Will Trent è la chiave del successo dello show che ne porta il nome. È un detective ed è credibile. I tratti caratteristici dell’investigatore, gli scheletri ad affollare i suoi armadi di uomo adulto, la tempra dura, i tormenti, li ha tutti. Eppure, nella serie tv, non producono l’odioso effetto accumulo che hanno altrove. Karin Slaughter, autrice della saga originale, e coloro che ne hanno adattato le pagine per la televisione sono riusciti a sfruttare gli stilemi di genere così bene da sostituire alla banalità un confortevole senso di conoscenza. Will Trent, un passato da bambino abbandonato e un presente da agente speciale, non è la risultante sterile di un’addizione, il compitino di chi abbia studiato sui manuali del bravo giallista. È un personaggio tridimensionale, nel quale gli stereotipi sono archetipi e gli archetipi ragione di empatia. A tratti, può sembrare di conoscerlo da sempre, il detective dello show. Un tipetto stile Sherlock Holmes le cui capacità deduttive, però, non hanno nulla a che vedere con lo studio.
Will Trent, bene interpretato da Ramón Rodriguez, è dislessico. Fatica a leggere, cosa che gli ha sempre reso difficile approcciarsi in maniera tradizionale all’apprendimento. Le proprie capacità investigative le ha affinate in altro modo, negli anni – tanti – spesi perso nel sistema affidatario della Georgia. La madre lo ha abbandonato e, prima di lei, qualunque altro membro della famiglia. A se stesso, ancora bambino, ha giurato che avrebbe aiutato il prossimo a sentirsi meno solo. Di qui, una carriera brillante all’interno del Georgia Bureau of Investigations, dove la sua percentuale di casi risolti non ha eguali. Alcuni colleghi lo ammirano. Altri lo vorrebbero altrove, gelosi di un’abilità che, nei primi due episodi di Will Trent, ha modo di svelarsi.
Will Trent, lo show, inizia dal secondo romanzo della Slaughter, Fractured. Racconta un caso che l’intuito di Trent, e di questi soltanto, ha capito essere complesso, nascondere oltre l’apparenza nodi difficili e, forse, pericolosi. Una madre ha ucciso l’uomo che credeva aver assassinato sua figlia. Lo ha trovato in casa, una casa bella e lussuosa, in uno dei quartieri più chic di Atlanta, accanto al corpo senza vita della sua bambina. Lo ha ammazzato a mani nude. Ma, nella scia di sangue che la polizia di Atlanta avrebbe voluto ripulire in fretta, Will Trent ha visto altro: una madre sconvolta, due innocenti morti e, oltre questi, una ragazzina scomparsa e un killer a piede libero.
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L'adattamento televisivo della saga letteraria di Karin Slaughter, debutterà mercoledì 12 aprile con i primi due episodi (di dieci totali) su Disney+.I gialli, fra i generi televisivi, hanno appeal e regole proprie. È facile che catturino chi guardi. È altrettanto facile, però, che deludano questo qualcuno: con finali posticci, con indizi raffazzonati, con buchi di scrittura a coprire malamente voli troppo arditi, con storie già sentite e personaggi costruiti su stereotipi e luoghi comuni. Perché un giallo sia ben scritto e, dunque, meritevole di quella visione convinta che nasce oltre la curiosità di ogni inizio è necessario studiare un sistema complesso. Indovinarle tutte. E Will Trent, adattamento televisivo della saga letteraria di Karin Slaughter, pare esserci riuscito. La serie televisiva, i cui primi due episodi (di dieci totali) debutteranno su Disney+ mercoledì 12 aprile, ha un impianto solido. Più di tutto, però, ha un protagonista solido. Will Trent è la chiave del successo dello show che ne porta il nome. È un detective ed è credibile. I tratti caratteristici dell’investigatore, gli scheletri ad affollare i suoi armadi di uomo adulto, la tempra dura, i tormenti, li ha tutti. Eppure, nella serie tv, non producono l’odioso effetto accumulo che hanno altrove. Karin Slaughter, autrice della saga originale, e coloro che ne hanno adattato le pagine per la televisione sono riusciti a sfruttare gli stilemi di genere così bene da sostituire alla banalità un confortevole senso di conoscenza. Will Trent, un passato da bambino abbandonato e un presente da agente speciale, non è la risultante sterile di un’addizione, il compitino di chi abbia studiato sui manuali del bravo giallista. È un personaggio tridimensionale, nel quale gli stereotipi sono archetipi e gli archetipi ragione di empatia. A tratti, può sembrare di conoscerlo da sempre, il detective dello show. Un tipetto stile Sherlock Holmes le cui capacità deduttive, però, non hanno nulla a che vedere con lo studio. Will Trent, bene interpretato da Ramón Rodriguez, è dislessico. Fatica a leggere, cosa che gli ha sempre reso difficile approcciarsi in maniera tradizionale all’apprendimento. Le proprie capacità investigative le ha affinate in altro modo, negli anni – tanti – spesi perso nel sistema affidatario della Georgia. La madre lo ha abbandonato e, prima di lei, qualunque altro membro della famiglia. A se stesso, ancora bambino, ha giurato che avrebbe aiutato il prossimo a sentirsi meno solo. Di qui, una carriera brillante all’interno del Georgia Bureau of Investigations, dove la sua percentuale di casi risolti non ha eguali. Alcuni colleghi lo ammirano. Altri lo vorrebbero altrove, gelosi di un’abilità che, nei primi due episodi di Will Trent, ha modo di svelarsi. Will Trent, lo show, inizia dal secondo romanzo della Slaughter, Fractured. Racconta un caso che l’intuito di Trent, e di questi soltanto, ha capito essere complesso, nascondere oltre l’apparenza nodi difficili e, forse, pericolosi. Una madre ha ucciso l’uomo che credeva aver assassinato sua figlia. Lo ha trovato in casa, una casa bella e lussuosa, in uno dei quartieri più chic di Atlanta, accanto al corpo senza vita della sua bambina. Lo ha ammazzato a mani nude. Ma, nella scia di sangue che la polizia di Atlanta avrebbe voluto ripulire in fretta, Will Trent ha visto altro: una madre sconvolta, due innocenti morti e, oltre questi, una ragazzina scomparsa e un killer a piede libero.
Giorgio Locatelli, Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri al photocall di MasterChef (Ansa)
Sono i fornelli sempre accesi, le prove sempre uguali, è l'alternarsi di casi umani e talenti ai Casting, l'ansia palpabile di chi, davanti alla triade stellata, non riesce più a proferire parola.
Sono le Mistery Box, i Pressure Test, la Caporetto di Iginio Massari, con i suoi tecnicismi di pasticceria. Sono, ancora, i grembiuli sporchi, le urla, le esterne e i livori fra brigate, la prosopopea di chi crede di meritare la vittoria a rendere MasterChef un appuntamento imperdibile. Tradizionale, per il modo silenzioso che ha di insinuarsi tra l'Immacolata e il Natale, addobbando i salotti come dovrebbe fare l'albero.
MasterChef è fra i pochissimi programmi televisivi cui il tempo non ha tolto, ma dato forza. E il merito, più che dei giudici, bravissimi - loro pure - a rendere vivo lo spettacolo, è della compagine autoriale. Gli autori sono il vanto dello show, perfetti nel bilanciare fra loro gli elementi della narrazione televisiva, come comanderebbe l'algoritmo di Boris. La retorica, che pur c'è, con l'attenzione alla sostenibilità e alla rappresentazione di tutte le minoranze, non ha fagocitato l'impianto scenico. L'imperativo di portare a casa la doggy bag sfuma, perché a prevalere è l'esito delle prove. Il battagliarsi di concorrenti scelti con precisione magistrale e perfetto cerchiobottismo. Ci sono, gli antipatici, quelli messi lì perché devono, perché il politicamente corretto lo impone. Ma, tutto sommato, si perdono, perché accanto hanno chi merita e chi, invece, riesce con la propria goffaggine a strappare una risata sincera. E, intanto, le puntate vanno, queste chiedendo più attenzione alla tradizione, indispensabile per una solida innovazione. Vanno, e poco importa somiglino alle passate. Sono nuovi i concorrenti, nuove le loro alleanze. Pare sempre sincero il divertimento di chi è chiamato a giudicarle, come sincero è il piacere di vedere altri affannarsi in un gesto che, per ciascuno di noi, è vitale e quotidiano, quello del cucinare.
Bene, male, pazienza. L'importante, come ci ha insegnato MasterChef, è farlo con amore e rispetto. E, pure, con un pizzico di arroganza in più, quella dovuta al fatto che la consuetudine televisiva ci abbia reso più istruiti, più pronti, più giudici anche noi del piatto altrui.
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Ecco #DimmiLaVerità del 12 dicembre 2025. Il nostro Alessandro Da Rold ci rivela gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano e i papabili per il dopo Sala.