2019-03-22
Vogliono farlo passare per matto ma il senegalese ha preparato tutto
I finestrini coperti, il coltello ritrovato, i bimbi come scudi: premeditato il dirottamento del bus. L'autista ai pm: «Servono governi di destra». La finta malattia per nascondere la patente sospesa. Il video ancora non si trova. Azione perfetta dell'Arma «normale». Il salvataggio della scolaresca ha visto i carabinieri della porta accanto comportarsi all'altezza dei corpi speciali. La risposta alla sofferenza provocata dal caso Cucchi. «Io picchiata perché indosso il velo». Attivista italomarocchina dei Giovani musulmani di Torino: «È colpa del clima politico che c'è in Italia». Ma ad aggredirle sarebbe stata una straniera. Solidarietà da Pd e M5s. Lo speciale comprende tre articoli. Ai ragazzini, che teneva in ostaggio sul bus, gridava di voler fare una strage per «vendicare i morti in mare». Una volta finito in gabbia, invece, ha tentato di cambiare versione. «Non volevo fare del male ai bambini», ha sostenuto, ma «volevo dare un segnale all'Africa, perché gli africani restino là». Così ieri, dal carcere di San Vittore di Milano dove si trova come sorvegliato speciale, ha tentato di giustificare il suo gesto Oussenyou Sy, il senegalese con cittadinanza italiana, residente a Crema. Autista di Autoguidovie da 15 anni, due giorni fa ha sequestrato un autobus carico di ragazzini, li ha legati e, dopo aver cosparso i sedili di benzina, con l'accendino in mano ha minacciato di bruciarli vivi. Ha raccontato ai pm di aver deviato il percorso del bus per «andare a Linate per prendere un aereo e tornare in Africa e usare i bambini come scudo», ha aggiunto di «sperare nella vittoria delle destre in Europa così non faranno venire gli africani». E ancora, nel tentativo di scaricare le proprie responsabilità si è definito un seguace del movimento «panafricano» e mosso dal caso della nave Mare Jonio, che sarebbe stata «la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E ha aggiunto, attraverso l'avvocato: «La situazione mi è sfuggita di mano». I fatti, però, raccontano qualcosa di diverso e i particolari fanno pensare ad una attenta premeditazione. Per esempio il coltello, che è stato trovato tra le lamiere del bus bruciato, un pugnale a serramanico dalla lama di almeno 20 centimetri che l'uomo usava per terrorizzare i suoi ostaggi o il fatto che Sy avesse tolto tutti i martelletti frangivetro dal mezzo per evitare che qualcuno potesse fuggire, o quell'«accendi gas» come lo ha definito l'operatrice scolastica che accompagnava la scolaresca, che per tutto il viaggio ha tenuto in mano come un'arma. «Mi ha costretta a sequestrare i cellulari e a legare i bambini, con un coltello alla gola», ha raccontato la donna intervistata alle telecamere delle televisioni nazionali, «ho cercato di fare i nodi larghi alle fascette sperando che i ragazzi riuscissero a liberarsi» e «mentre mi facevo consegnare i telefoni cercavo di far capire ai ragazzi che stavano seduti in fondo, con lo sguardo, di tenerli» e per fortuna «uno dei ragazzini ha capito ed è riuscito ad avvisare la polizia». Ieri le forze dell'ordine hanno anche recuperato un video del giorno precedente il sequestro ripreso dalle telecamere di sorveglianza di una stazione di servizio, in cui si vede l'uomo riempire una tanica di benzina. La stessa utilizzata per mettere in atto il suo piano: «Ogni tanto si fermava e faceva delle pause», ha raccontato ancora l'operatrice scolastica, «mi costringeva a spargere altra benzina e mi ordinava di oscurare i vetri usando delle bombolette spray e con l'accendigas in mano mi faceva capire “io sono pronto"». L'incubo è durato un'ora e un quarto nella quale l'uomo, secondo le testimonianze, «pareva lucido». Sy doveva portare i 51 studenti della scuola media Vailati, e i tre accompagnatori, dalla palestra comunale Serio all'istituto che si trova nel centro di Crema, un percorso di pochi chilometri, ma all'improvviso ha deviato verso la provinciale 415 Paullese puntando su Linate. Al momento a procedere è la procura di Milano che indaga per strage, sequestro di persona con l'aggravante del terrorismo, ma se dovesse cadere il reato di strage (perché l'autista avrebbe dato fuoco al mezzo dopo che gli studenti erano scesi) la competenza passerebbe alla Procura di Cremona, per la quale resterebbe comunque in piedi il sequestro di persona. Quello che è certo, è che Ousseynou Sy, aveva due precedenti penali alle spalle: una condanna risalente al 31 ottobre 2008 per guida in stato di ebbrezza per cui il senegalese aveva pagato un'ammenda da 680 euro e si era visto sospendere la patente per sei mesi e una condanna definitiva, in Cassazione, ad un anno, con pena sospesa, per molestie ad una diciassettenne risalente al 2017. Nonostante questo il senegalese lavorava, indisturbato, come autista di mezzi pubblici, da 15 anni, trasportando ragazzini ogni giorno, senza che nessuno mai si fosse accorto di nulla. A permetterlo sono state le norme che obbligano alla comunicazione di precedenti penali ai datori di lavoro solo quando riguardano pubblici ufficiali. Per tutti gli altri il datore di lavoro può chiedere informazioni su eventuali trascorsi, passati in giudicato, nel caso in cui la mansione da assegnare sia di responsabilità, ma è tenuto a farlo esclusivamente al momento dell'assunzione. Per questo Autoguidovie, il colosso del trasporto pubblico che lo assunse nel lontano 2004, si sarebbe limitata a chiedere in quell'anno il certificato penale, senza poi più ripetere i controlli. Con uno stratagemma, inoltre, l'uomo riuscì a farla franca anche per la sospensione della patente. Si mise in malattia nel periodo in cui non poteva guidare e non comunicò l'accaduto all'azienda. E visto che nessun obbligo compete alla Motorizzazione civile relativamente a comunicazioni ai datori di lavoro su sospensioni del documento, purtroppo nemmeno nel caso si tratti di autisti di mezzi pubblici, tutto passò sotto silenzio. In queste ore gli inquirenti stanno cercando di sciogliere anche il mistero del video che Sy avrebbe girato per annunciare e motivare il suo gesto. A parlare del filmato-manifesto, girato prima di mettere in atto il piano e postato agli amici in Italia e in Senegal, ma per ora del video gli inquirenti non avrebbero trovato alcuna traccia. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/vogliono-farlo-passare-per-matto-ma-il-senegalese-ha-preparato-tutto-2632398018.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="azione-perfetta-dellarma-normale" data-post-id="2632398018" data-published-at="1761303896" data-use-pagination="False"> Azione perfetta dell’Arma «normale» La rivincita dell'Arma. Anzi dell'Arma «normale», quella delle stazioni e del nucleo radiomobile, con tutto il rispetto dei reparti speciali, dei Robocop e degli interventi all'americana e secondo i famosi «protocolli». Il giorno dopo la spettacolare impresa dei sei carabinieri di Paullo, con 51 ragazzini salvati senza sparare un solo colpo da un autista senegalese che voleva vendicare «i morti nel Mediterraneo», i carabinieri escono dall'incubo del caso Cucchi e il comandante generale, Giovanni Nistri, a una cerimonia interna, senza far polemica, scandisce: «Ieri abbiamo risposto alla nostra maniera, facendo il nostro dovere in silenzio» . Tutta Italia ha potuto vedere le immagini concitate del salvataggio dei bambini, le fiamme e il fumo che escono dallo scuolabus, la freddezza dei militari che sono intervenuti, agli ordini di un maresciallo di 49 anni, Roberto Manucci, romano, comandante di stazione vecchia maniera. Uno che con il berretto in testa sembra il ministro Giovanni Tria. I suoi uomini, e quelli delle gazzelle dei carabinieri, conoscevano al metro la strada sulla quale Ousseynou Sy ha dirottato l'autobus che gli era stato affidato e poi ha tentato di fare una strage. Sapevano esattamente dove e quando speronare, insomma. Caso ha voluto che ieri mattina, a Roma, fosse in programma il cambio della guardia del vice comandante generale dell'Arma, con il generale di corpo d'armata Ilio Ciceri che ha preso il posto del pari età, Riccardo Amato. Il comandante Nistri, come si legge nel comunicato ufficiale, di fronte ai vertici dei carabinieri ha detto: «Quello che l'Arma è, lo ha dimostrato ieri. Ma vale ciò che ha detto uno dei protagonisti (un appuntato, ndr) : hanno fatto solo il loro dovere. L'essenza del gesto è nell'umiltà del carabiniere che ha parlato così. Il senso è voler bene alla comunità per la quale si lavora». In realtà, il comandante generale, secondo quanto racconta chi era presente, ha anche aggiunto: «Ieri abbiamo risposto alla nostra maniera». A che cosa? Beh, è facile capire a che cosa: da giorni l'Arma è sotto schiaffo per il presunto depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi, la Procura di Roma si prepara a mandare a processo ben otto militari ed è arrivata fino a un generale, ricostruendo una catena di insabbiamenti che dovrà superare il vaglio dei processi, ma che intanto appare vergognosa. Ma ieri i carabinieri hanno festeggiato un'operazione tecnicamente perfetta. I nuclei speciali antiterrorismo, che sono schierati nelle città dove ci sono possibili obiettivi, probabilmente sarebbero intervenuti in modo diverso, forse avrebbero sparato e comunque si sarebbero coordinati più facilmente e con dotazioni migliori. Sulla Paullese, invece, è emersa l'incredibile professionalità di carabinieri della porta accanto, che hanno sfondato un finestrino con un semplice manganello e che hanno fermato un pullman con una berlina. Certo, hanno mezzo distrutto una macchina: ora speriamo che non gliela facciano pagare. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/vogliono-farlo-passare-per-matto-ma-il-senegalese-ha-preparato-tutto-2632398018.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="io-picchiata-perche-indosso-il-velo" data-post-id="2632398018" data-published-at="1761303896" data-use-pagination="False"> «Io picchiata perché indosso il velo» «Oggi una ragazza ci ha strappato il velo dalla testa. Con esso ha tirato via tutti i valori su cui è fondata l'Europa. Ha distrutto e umiliato non solo noi, ma anche tutti quelli che credono nella libertà». Con queste parole, in un video che in pochi minuti è diventato virale, Fatima Zahra Lafram, giovane torinese, cittadina italiana di origine marocchina, ha raccontato l'aggressione di cui sarebbe stata vittima insieme a due amiche, mercoledì pomeriggio nel capoluogo piemontese. Ha raccontato così il fatto: «Tre amiche, ragazze che indossano l'hijab e che stavano tornando a casa dal centro di Torino, sono state aggredite a bordo del bus 59 barrato. Un'aggressione a sfondo razzista. Siamo state prese a calci e pugni e a una delle mie amiche una donna ha strappato il velo». E proprio mentre a Milano i carabinieri evitavano la strage di 51 bambini su un bus dato alle fiamme da un senegalese, la ragazza esponente dei Giovani musulmani d'Italia, scriveva: «Non è questa l'Italia in cui vorrei far crescere i miei figli però questo è il clima politico in cui viviamo, e quello che chiedo è il fatto di riconoscere che alcune parole possono avere un certo impatto. Il nostro silenzio ci rende complici». Secondo il racconto, sul bus che collega il centro di Torino alle Vallette, subito dopo Fatima e le sue due amiche (una minorenne), sarebbero salite due ragazze intorno i 20 anni. Una delle due, una straniera comunitaria, aveva due cani di piccola taglia. Nuhaila, l'amica diciassettenne della Lafram, avendo paura dei cani si sarebbe allontanata e a quel punto la proprietaria degli animali avrebbe detto: «Avete paura del cane, ma non di fare attentati» e da lì l'aggressione fisica con calci e pugni e lo strappo del velo. L'autista ha bloccato l'autobus in attesa della polizia che ha ascoltato le testimonianze degli altri passeggeri a sostegno delle ragazze aggredite. Fatima poi è andata al pronto soccorso per sospetta lesione ad una mano, e col hijab nero in testa, ha pubblicizzato l'episodio: «Faccio questo video per denunciare che l'islamofobia e il razzismo sono cose reali. Non è la prima volta che mi succede ma è la prima volta che le prendo. È stato umiliante». Subito su Instagram il commento della sindaca Chiara Appendino: «Mi spiace, massima solidarietà. Ci sentiamo». A seguire l'assessore ai Diritti del Comune di Torino, Marco Giusta: «Ho sentito Fatima offrendo a lei e alle sue amiche vittime dell'aggressione la mia piena solidarietà». Ha messo invece a disposizione delle tre ragazze il fondo regionale che sostiene le spese legali di chi è vittima di discriminazione, l'assessore regionale alle Pari opportunità, Monica Cerutti. Luca Deri, (Pd) presidente di circoscrizione e amico di famiglia della giovane musulmana, ha dichiarato: «Fatima è una ragazza italiana intelligente e brillante. La conosco da una dozzina di anni. Si è sempre spesa per favorire l'integrazione tra le culture diverse. Purtroppo le teste di legno in questo ultimo anno sono uscite allo scoperto». Anche il Pd torinese ha preso posizione ribadendo quanto detto a Fatima da alcuni passeggeri del bus «L'Italia non è razzista, l'Italia siamo noi» e realizzando una locandina con una frase di Che Guevara: «Fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come il colore degli occhi noi continueremo a lottare».
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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