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2019-03-22
Vogliono farlo passare per matto ma il senegalese ha preparato tutto
Ansa
Ai ragazzini, che teneva in ostaggio sul bus, gridava di voler fare una strage per «vendicare i morti in mare». Una volta finito in gabbia, invece, ha tentato di cambiare versione. «Non volevo fare del male ai bambini», ha sostenuto, ma «volevo dare un segnale all'Africa, perché gli africani restino là». Così ieri, dal carcere di San Vittore di Milano dove si trova come sorvegliato speciale, ha tentato di giustificare il suo gesto Oussenyou Sy, il senegalese con cittadinanza italiana, residente a Crema. Autista di Autoguidovie da 15 anni, due giorni fa ha sequestrato un autobus carico di ragazzini, li ha legati e, dopo aver cosparso i sedili di benzina, con l'accendino in mano ha minacciato di bruciarli vivi. Ha raccontato ai pm di aver deviato il percorso del bus per «andare a Linate per prendere un aereo e tornare in Africa e usare i bambini come scudo», ha aggiunto di «sperare nella vittoria delle destre in Europa così non faranno venire gli africani». E ancora, nel tentativo di scaricare le proprie responsabilità si è definito un seguace del movimento «panafricano» e mosso dal caso della nave Mare Jonio, che sarebbe stata «la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E ha aggiunto, attraverso l'avvocato: «La situazione mi è sfuggita di mano». I fatti, però, raccontano qualcosa di diverso e i particolari fanno pensare ad una attenta premeditazione. Per esempio il coltello, che è stato trovato tra le lamiere del bus bruciato, un pugnale a serramanico dalla lama di almeno 20 centimetri che l'uomo usava per terrorizzare i suoi ostaggi o il fatto che Sy avesse tolto tutti i martelletti frangivetro dal mezzo per evitare che qualcuno potesse fuggire, o quell'«accendi gas» come lo ha definito l'operatrice scolastica che accompagnava la scolaresca, che per tutto il viaggio ha tenuto in mano come un'arma. «Mi ha costretta a sequestrare i cellulari e a legare i bambini, con un coltello alla gola», ha raccontato la donna intervistata alle telecamere delle televisioni nazionali, «ho cercato di fare i nodi larghi alle fascette sperando che i ragazzi riuscissero a liberarsi» e «mentre mi facevo consegnare i telefoni cercavo di far capire ai ragazzi che stavano seduti in fondo, con lo sguardo, di tenerli» e per fortuna «uno dei ragazzini ha capito ed è riuscito ad avvisare la polizia».
Ieri le forze dell'ordine hanno anche recuperato un video del giorno precedente il sequestro ripreso dalle telecamere di sorveglianza di una stazione di servizio, in cui si vede l'uomo riempire una tanica di benzina. La stessa utilizzata per mettere in atto il suo piano: «Ogni tanto si fermava e faceva delle pause», ha raccontato ancora l'operatrice scolastica, «mi costringeva a spargere altra benzina e mi ordinava di oscurare i vetri usando delle bombolette spray e con l'accendigas in mano mi faceva capire “io sono pronto"». L'incubo è durato un'ora e un quarto nella quale l'uomo, secondo le testimonianze, «pareva lucido».
Sy doveva portare i 51 studenti della scuola media Vailati, e i tre accompagnatori, dalla palestra comunale Serio all'istituto che si trova nel centro di Crema, un percorso di pochi chilometri, ma all'improvviso ha deviato verso la provinciale 415 Paullese puntando su Linate.
Al momento a procedere è la procura di Milano che indaga per strage, sequestro di persona con l'aggravante del terrorismo, ma se dovesse cadere il reato di strage (perché l'autista avrebbe dato fuoco al mezzo dopo che gli studenti erano scesi) la competenza passerebbe alla Procura di Cremona, per la quale resterebbe comunque in piedi il sequestro di persona. Quello che è certo, è che Ousseynou Sy, aveva due precedenti penali alle spalle: una condanna risalente al 31 ottobre 2008 per guida in stato di ebbrezza per cui il senegalese aveva pagato un'ammenda da 680 euro e si era visto sospendere la patente per sei mesi e una condanna definitiva, in Cassazione, ad un anno, con pena sospesa, per molestie ad una diciassettenne risalente al 2017.
Nonostante questo il senegalese lavorava, indisturbato, come autista di mezzi pubblici, da 15 anni, trasportando ragazzini ogni giorno, senza che nessuno mai si fosse accorto di nulla. A permetterlo sono state le norme che obbligano alla comunicazione di precedenti penali ai datori di lavoro solo quando riguardano pubblici ufficiali. Per tutti gli altri il datore di lavoro può chiedere informazioni su eventuali trascorsi, passati in giudicato, nel caso in cui la mansione da assegnare sia di responsabilità, ma è tenuto a farlo esclusivamente al momento dell'assunzione. Per questo Autoguidovie, il colosso del trasporto pubblico che lo assunse nel lontano 2004, si sarebbe limitata a chiedere in quell'anno il certificato penale, senza poi più ripetere i controlli. Con uno stratagemma, inoltre, l'uomo riuscì a farla franca anche per la sospensione della patente. Si mise in malattia nel periodo in cui non poteva guidare e non comunicò l'accaduto all'azienda. E visto che nessun obbligo compete alla Motorizzazione civile relativamente a comunicazioni ai datori di lavoro su sospensioni del documento, purtroppo nemmeno nel caso si tratti di autisti di mezzi pubblici, tutto passò sotto silenzio. In queste ore gli inquirenti stanno cercando di sciogliere anche il mistero del video che Sy avrebbe girato per annunciare e motivare il suo gesto. A parlare del filmato-manifesto, girato prima di mettere in atto il piano e postato agli amici in Italia e in Senegal, ma per ora del video gli inquirenti non avrebbero trovato alcuna traccia.
Azione perfetta dell’Arma «normale»
La rivincita dell'Arma. Anzi dell'Arma «normale», quella delle stazioni e del nucleo radiomobile, con tutto il rispetto dei reparti speciali, dei Robocop e degli interventi all'americana e secondo i famosi «protocolli». Il giorno dopo la spettacolare impresa dei sei carabinieri di Paullo, con 51 ragazzini salvati senza sparare un solo colpo da un autista senegalese che voleva vendicare «i morti nel Mediterraneo», i carabinieri escono dall'incubo del caso Cucchi e il comandante generale, Giovanni Nistri, a una cerimonia interna, senza far polemica, scandisce: «Ieri abbiamo risposto alla nostra maniera, facendo il nostro dovere in silenzio» .
Tutta Italia ha potuto vedere le immagini concitate del salvataggio dei bambini, le fiamme e il fumo che escono dallo scuolabus, la freddezza dei militari che sono intervenuti, agli ordini di un maresciallo di 49 anni, Roberto Manucci, romano, comandante di stazione vecchia maniera. Uno che con il berretto in testa sembra il ministro Giovanni Tria. I suoi uomini, e quelli delle gazzelle dei carabinieri, conoscevano al metro la strada sulla quale Ousseynou Sy ha dirottato l'autobus che gli era stato affidato e poi ha tentato di fare una strage. Sapevano esattamente dove e quando speronare, insomma.
Caso ha voluto che ieri mattina, a Roma, fosse in programma il cambio della guardia del vice comandante generale dell'Arma, con il generale di corpo d'armata Ilio Ciceri che ha preso il posto del pari età, Riccardo Amato. Il comandante Nistri, come si legge nel comunicato ufficiale, di fronte ai vertici dei carabinieri ha detto: «Quello che l'Arma è, lo ha dimostrato ieri. Ma vale ciò che ha detto uno dei protagonisti (un appuntato, ndr) : hanno fatto solo il loro dovere. L'essenza del gesto è nell'umiltà del carabiniere che ha parlato così. Il senso è voler bene alla comunità per la quale si lavora». In realtà, il comandante generale, secondo quanto racconta chi era presente, ha anche aggiunto: «Ieri abbiamo risposto alla nostra maniera». A che cosa? Beh, è facile capire a che cosa: da giorni l'Arma è sotto schiaffo per il presunto depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi, la Procura di Roma si prepara a mandare a processo ben otto militari ed è arrivata fino a un generale, ricostruendo una catena di insabbiamenti che dovrà superare il vaglio dei processi, ma che intanto appare vergognosa.
Ma ieri i carabinieri hanno festeggiato un'operazione tecnicamente perfetta. I nuclei speciali antiterrorismo, che sono schierati nelle città dove ci sono possibili obiettivi, probabilmente sarebbero intervenuti in modo diverso, forse avrebbero sparato e comunque si sarebbero coordinati più facilmente e con dotazioni migliori. Sulla Paullese, invece, è emersa l'incredibile professionalità di carabinieri della porta accanto, che hanno sfondato un finestrino con un semplice manganello e che hanno fermato un pullman con una berlina. Certo, hanno mezzo distrutto una macchina: ora speriamo che non gliela facciano pagare.
«Io picchiata perché indosso il velo»
«Oggi una ragazza ci ha strappato il velo dalla testa. Con esso ha tirato via tutti i valori su cui è fondata l'Europa. Ha distrutto e umiliato non solo noi, ma anche tutti quelli che credono nella libertà». Con queste parole, in un video che in pochi minuti è diventato virale, Fatima Zahra Lafram, giovane torinese, cittadina italiana di origine marocchina, ha raccontato l'aggressione di cui sarebbe stata vittima insieme a due amiche, mercoledì pomeriggio nel capoluogo piemontese. Ha raccontato così il fatto: «Tre amiche, ragazze che indossano l'hijab e che stavano tornando a casa dal centro di Torino, sono state aggredite a bordo del bus 59 barrato. Un'aggressione a sfondo razzista. Siamo state prese a calci e pugni e a una delle mie amiche una donna ha strappato il velo». E proprio mentre a Milano i carabinieri evitavano la strage di 51 bambini su un bus dato alle fiamme da un senegalese, la ragazza esponente dei Giovani musulmani d'Italia, scriveva: «Non è questa l'Italia in cui vorrei far crescere i miei figli però questo è il clima politico in cui viviamo, e quello che chiedo è il fatto di riconoscere che alcune parole possono avere un certo impatto. Il nostro silenzio ci rende complici».
Secondo il racconto, sul bus che collega il centro di Torino alle Vallette, subito dopo Fatima e le sue due amiche (una minorenne), sarebbero salite due ragazze intorno i 20 anni. Una delle due, una straniera comunitaria, aveva due cani di piccola taglia. Nuhaila, l'amica diciassettenne della Lafram, avendo paura dei cani si sarebbe allontanata e a quel punto la proprietaria degli animali avrebbe detto: «Avete paura del cane, ma non di fare attentati» e da lì l'aggressione fisica con calci e pugni e lo strappo del velo. L'autista ha bloccato l'autobus in attesa della polizia che ha ascoltato le testimonianze degli altri passeggeri a sostegno delle ragazze aggredite. Fatima poi è andata al pronto soccorso per sospetta lesione ad una mano, e col hijab nero in testa, ha pubblicizzato l'episodio: «Faccio questo video per denunciare che l'islamofobia e il razzismo sono cose reali. Non è la prima volta che mi succede ma è la prima volta che le prendo. È stato umiliante». Subito su Instagram il commento della sindaca Chiara Appendino: «Mi spiace, massima solidarietà. Ci sentiamo». A seguire l'assessore ai Diritti del Comune di Torino, Marco Giusta: «Ho sentito Fatima offrendo a lei e alle sue amiche vittime dell'aggressione la mia piena solidarietà».
Ha messo invece a disposizione delle tre ragazze il fondo regionale che sostiene le spese legali di chi è vittima di discriminazione, l'assessore regionale alle Pari opportunità, Monica Cerutti. Luca Deri, (Pd) presidente di circoscrizione e amico di famiglia della giovane musulmana, ha dichiarato: «Fatima è una ragazza italiana intelligente e brillante. La conosco da una dozzina di anni. Si è sempre spesa per favorire l'integrazione tra le culture diverse. Purtroppo le teste di legno in questo ultimo anno sono uscite allo scoperto».
Anche il Pd torinese ha preso posizione ribadendo quanto detto a Fatima da alcuni passeggeri del bus «L'Italia non è razzista, l'Italia siamo noi» e realizzando una locandina con una frase di Che Guevara: «Fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come il colore degli occhi noi continueremo a lottare».
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Riduci
I finestrini coperti, il coltello ritrovato, i bimbi come scudi: premeditato il dirottamento del bus. L'autista ai pm: «Servono governi di destra». La finta malattia per nascondere la patente sospesa. Il video ancora non si trova. Azione perfetta dell'Arma «normale». Il salvataggio della scolaresca ha visto i carabinieri della porta accanto comportarsi all'altezza dei corpi speciali. La risposta alla sofferenza provocata dal caso Cucchi. «Io picchiata perché indosso il velo». Attivista italomarocchina dei Giovani musulmani di Torino: «È colpa del clima politico che c'è in Italia». Ma ad aggredirle sarebbe stata una straniera. Solidarietà da Pd e M5s. Lo speciale comprende tre articoli. Ai ragazzini, che teneva in ostaggio sul bus, gridava di voler fare una strage per «vendicare i morti in mare». Una volta finito in gabbia, invece, ha tentato di cambiare versione. «Non volevo fare del male ai bambini», ha sostenuto, ma «volevo dare un segnale all'Africa, perché gli africani restino là». Così ieri, dal carcere di San Vittore di Milano dove si trova come sorvegliato speciale, ha tentato di giustificare il suo gesto Oussenyou Sy, il senegalese con cittadinanza italiana, residente a Crema. Autista di Autoguidovie da 15 anni, due giorni fa ha sequestrato un autobus carico di ragazzini, li ha legati e, dopo aver cosparso i sedili di benzina, con l'accendino in mano ha minacciato di bruciarli vivi. Ha raccontato ai pm di aver deviato il percorso del bus per «andare a Linate per prendere un aereo e tornare in Africa e usare i bambini come scudo», ha aggiunto di «sperare nella vittoria delle destre in Europa così non faranno venire gli africani». E ancora, nel tentativo di scaricare le proprie responsabilità si è definito un seguace del movimento «panafricano» e mosso dal caso della nave Mare Jonio, che sarebbe stata «la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E ha aggiunto, attraverso l'avvocato: «La situazione mi è sfuggita di mano». I fatti, però, raccontano qualcosa di diverso e i particolari fanno pensare ad una attenta premeditazione. Per esempio il coltello, che è stato trovato tra le lamiere del bus bruciato, un pugnale a serramanico dalla lama di almeno 20 centimetri che l'uomo usava per terrorizzare i suoi ostaggi o il fatto che Sy avesse tolto tutti i martelletti frangivetro dal mezzo per evitare che qualcuno potesse fuggire, o quell'«accendi gas» come lo ha definito l'operatrice scolastica che accompagnava la scolaresca, che per tutto il viaggio ha tenuto in mano come un'arma. «Mi ha costretta a sequestrare i cellulari e a legare i bambini, con un coltello alla gola», ha raccontato la donna intervistata alle telecamere delle televisioni nazionali, «ho cercato di fare i nodi larghi alle fascette sperando che i ragazzi riuscissero a liberarsi» e «mentre mi facevo consegnare i telefoni cercavo di far capire ai ragazzi che stavano seduti in fondo, con lo sguardo, di tenerli» e per fortuna «uno dei ragazzini ha capito ed è riuscito ad avvisare la polizia». Ieri le forze dell'ordine hanno anche recuperato un video del giorno precedente il sequestro ripreso dalle telecamere di sorveglianza di una stazione di servizio, in cui si vede l'uomo riempire una tanica di benzina. La stessa utilizzata per mettere in atto il suo piano: «Ogni tanto si fermava e faceva delle pause», ha raccontato ancora l'operatrice scolastica, «mi costringeva a spargere altra benzina e mi ordinava di oscurare i vetri usando delle bombolette spray e con l'accendigas in mano mi faceva capire “io sono pronto"». L'incubo è durato un'ora e un quarto nella quale l'uomo, secondo le testimonianze, «pareva lucido». Sy doveva portare i 51 studenti della scuola media Vailati, e i tre accompagnatori, dalla palestra comunale Serio all'istituto che si trova nel centro di Crema, un percorso di pochi chilometri, ma all'improvviso ha deviato verso la provinciale 415 Paullese puntando su Linate. Al momento a procedere è la procura di Milano che indaga per strage, sequestro di persona con l'aggravante del terrorismo, ma se dovesse cadere il reato di strage (perché l'autista avrebbe dato fuoco al mezzo dopo che gli studenti erano scesi) la competenza passerebbe alla Procura di Cremona, per la quale resterebbe comunque in piedi il sequestro di persona. Quello che è certo, è che Ousseynou Sy, aveva due precedenti penali alle spalle: una condanna risalente al 31 ottobre 2008 per guida in stato di ebbrezza per cui il senegalese aveva pagato un'ammenda da 680 euro e si era visto sospendere la patente per sei mesi e una condanna definitiva, in Cassazione, ad un anno, con pena sospesa, per molestie ad una diciassettenne risalente al 2017. Nonostante questo il senegalese lavorava, indisturbato, come autista di mezzi pubblici, da 15 anni, trasportando ragazzini ogni giorno, senza che nessuno mai si fosse accorto di nulla. A permetterlo sono state le norme che obbligano alla comunicazione di precedenti penali ai datori di lavoro solo quando riguardano pubblici ufficiali. Per tutti gli altri il datore di lavoro può chiedere informazioni su eventuali trascorsi, passati in giudicato, nel caso in cui la mansione da assegnare sia di responsabilità, ma è tenuto a farlo esclusivamente al momento dell'assunzione. Per questo Autoguidovie, il colosso del trasporto pubblico che lo assunse nel lontano 2004, si sarebbe limitata a chiedere in quell'anno il certificato penale, senza poi più ripetere i controlli. Con uno stratagemma, inoltre, l'uomo riuscì a farla franca anche per la sospensione della patente. Si mise in malattia nel periodo in cui non poteva guidare e non comunicò l'accaduto all'azienda. E visto che nessun obbligo compete alla Motorizzazione civile relativamente a comunicazioni ai datori di lavoro su sospensioni del documento, purtroppo nemmeno nel caso si tratti di autisti di mezzi pubblici, tutto passò sotto silenzio. In queste ore gli inquirenti stanno cercando di sciogliere anche il mistero del video che Sy avrebbe girato per annunciare e motivare il suo gesto. 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Il giorno dopo la spettacolare impresa dei sei carabinieri di Paullo, con 51 ragazzini salvati senza sparare un solo colpo da un autista senegalese che voleva vendicare «i morti nel Mediterraneo», i carabinieri escono dall'incubo del caso Cucchi e il comandante generale, Giovanni Nistri, a una cerimonia interna, senza far polemica, scandisce: «Ieri abbiamo risposto alla nostra maniera, facendo il nostro dovere in silenzio» . Tutta Italia ha potuto vedere le immagini concitate del salvataggio dei bambini, le fiamme e il fumo che escono dallo scuolabus, la freddezza dei militari che sono intervenuti, agli ordini di un maresciallo di 49 anni, Roberto Manucci, romano, comandante di stazione vecchia maniera. Uno che con il berretto in testa sembra il ministro Giovanni Tria. I suoi uomini, e quelli delle gazzelle dei carabinieri, conoscevano al metro la strada sulla quale Ousseynou Sy ha dirottato l'autobus che gli era stato affidato e poi ha tentato di fare una strage. Sapevano esattamente dove e quando speronare, insomma. Caso ha voluto che ieri mattina, a Roma, fosse in programma il cambio della guardia del vice comandante generale dell'Arma, con il generale di corpo d'armata Ilio Ciceri che ha preso il posto del pari età, Riccardo Amato. Il comandante Nistri, come si legge nel comunicato ufficiale, di fronte ai vertici dei carabinieri ha detto: «Quello che l'Arma è, lo ha dimostrato ieri. Ma vale ciò che ha detto uno dei protagonisti (un appuntato, ndr) : hanno fatto solo il loro dovere. L'essenza del gesto è nell'umiltà del carabiniere che ha parlato così. Il senso è voler bene alla comunità per la quale si lavora». In realtà, il comandante generale, secondo quanto racconta chi era presente, ha anche aggiunto: «Ieri abbiamo risposto alla nostra maniera». A che cosa? Beh, è facile capire a che cosa: da giorni l'Arma è sotto schiaffo per il presunto depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi, la Procura di Roma si prepara a mandare a processo ben otto militari ed è arrivata fino a un generale, ricostruendo una catena di insabbiamenti che dovrà superare il vaglio dei processi, ma che intanto appare vergognosa. Ma ieri i carabinieri hanno festeggiato un'operazione tecnicamente perfetta. I nuclei speciali antiterrorismo, che sono schierati nelle città dove ci sono possibili obiettivi, probabilmente sarebbero intervenuti in modo diverso, forse avrebbero sparato e comunque si sarebbero coordinati più facilmente e con dotazioni migliori. Sulla Paullese, invece, è emersa l'incredibile professionalità di carabinieri della porta accanto, che hanno sfondato un finestrino con un semplice manganello e che hanno fermato un pullman con una berlina. 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Con queste parole, in un video che in pochi minuti è diventato virale, Fatima Zahra Lafram, giovane torinese, cittadina italiana di origine marocchina, ha raccontato l'aggressione di cui sarebbe stata vittima insieme a due amiche, mercoledì pomeriggio nel capoluogo piemontese. Ha raccontato così il fatto: «Tre amiche, ragazze che indossano l'hijab e che stavano tornando a casa dal centro di Torino, sono state aggredite a bordo del bus 59 barrato. Un'aggressione a sfondo razzista. Siamo state prese a calci e pugni e a una delle mie amiche una donna ha strappato il velo». E proprio mentre a Milano i carabinieri evitavano la strage di 51 bambini su un bus dato alle fiamme da un senegalese, la ragazza esponente dei Giovani musulmani d'Italia, scriveva: «Non è questa l'Italia in cui vorrei far crescere i miei figli però questo è il clima politico in cui viviamo, e quello che chiedo è il fatto di riconoscere che alcune parole possono avere un certo impatto. Il nostro silenzio ci rende complici». Secondo il racconto, sul bus che collega il centro di Torino alle Vallette, subito dopo Fatima e le sue due amiche (una minorenne), sarebbero salite due ragazze intorno i 20 anni. Una delle due, una straniera comunitaria, aveva due cani di piccola taglia. Nuhaila, l'amica diciassettenne della Lafram, avendo paura dei cani si sarebbe allontanata e a quel punto la proprietaria degli animali avrebbe detto: «Avete paura del cane, ma non di fare attentati» e da lì l'aggressione fisica con calci e pugni e lo strappo del velo. L'autista ha bloccato l'autobus in attesa della polizia che ha ascoltato le testimonianze degli altri passeggeri a sostegno delle ragazze aggredite. Fatima poi è andata al pronto soccorso per sospetta lesione ad una mano, e col hijab nero in testa, ha pubblicizzato l'episodio: «Faccio questo video per denunciare che l'islamofobia e il razzismo sono cose reali. Non è la prima volta che mi succede ma è la prima volta che le prendo. È stato umiliante». Subito su Instagram il commento della sindaca Chiara Appendino: «Mi spiace, massima solidarietà. Ci sentiamo». A seguire l'assessore ai Diritti del Comune di Torino, Marco Giusta: «Ho sentito Fatima offrendo a lei e alle sue amiche vittime dell'aggressione la mia piena solidarietà». Ha messo invece a disposizione delle tre ragazze il fondo regionale che sostiene le spese legali di chi è vittima di discriminazione, l'assessore regionale alle Pari opportunità, Monica Cerutti. Luca Deri, (Pd) presidente di circoscrizione e amico di famiglia della giovane musulmana, ha dichiarato: «Fatima è una ragazza italiana intelligente e brillante. La conosco da una dozzina di anni. Si è sempre spesa per favorire l'integrazione tra le culture diverse. Purtroppo le teste di legno in questo ultimo anno sono uscite allo scoperto». Anche il Pd torinese ha preso posizione ribadendo quanto detto a Fatima da alcuni passeggeri del bus «L'Italia non è razzista, l'Italia siamo noi» e realizzando una locandina con una frase di Che Guevara: «Fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come il colore degli occhi noi continueremo a lottare».
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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