2019-07-30
«Vizio i dipendenti e il fatturato aumenta»
La presidente Silvia Bolzoni guida l'azienda Zeta service, tra le 50 in Europa dove si lavora meglio: «Sala relax, biliardino, yoga in pausa pranzo. La priorità è stare bene, la busta paga viene dopo. Le mamme preferiscono stare a casa con l'home working che 100 euro in più».La regola delle tre F. Si potrebbe riassumere così la formula imprenditoriale di Silvia Bolzoni. Felicità, flessibilità, fatturato. Non è un caso se Zeta service, società di elaborazione buste paga e gestione del personale in outsourcing messa in piedi nel 2003 dalla cinquantanovenne presidente e amministratrice delegata, da dieci anni è stabile ai vertici della classifica Great place to work: graduatoria che, in Italia, prende in esame 136 aziende con oltre 40.000 dipendenti. Di più: per la prima volta dopo sette anni, un brand di casa nostra è tra i primi 50 in Europa (ad attestarlo sono i pareri degli impiegati di 2.500 aziende in 19 Paesi dell'Ue). In pratica, Zeta service è l'azienda in cui tutti vorrebbero lavorare. Lo sottolineano le parole applicate su una parete degli uffici, messe assieme a formare un mantra: «Un'ora al giorno almeno bisogna essere felici».I numeri parlano chiaro. Otto sedi sul territorio, 280 collaboratori (il 70 per cento dei quali assunti), 600 clienti, 1,4 milioni di cedolini all'anno, un fatturato da 15 milioni di euro. A giugno, Bolzoni è stata inserita da Forbes Italia tra le 100 leader al femminile. Prima, un tripudio di ori: un Ambrogino e la Mela della Fondazione Bellisario conferita dal presidente Sergio Mattarella. Giungendo alla sede milanese, l'approccio etico della società si rivela nell'architettura sobria ma confidenziale: le basi dei balconi alle estremità dei sei piani dell'edificio sono pitturate con i colori dell'arcobaleno. All'interno, tra una sala relax e uno spazio biliardino per sciogliere la tensione, gli uffici sono percorsi avanti e indietro da un maggiordomo aziendale il cui tempo è impiegato a ottimizzare il tempo degli altri. «Sono stati i nostri collaboratori a scegliere colori e arredi, durante la ristrutturazione, attraverso un workshop organizzato», osserva la manager cremasca, con una morbidezza d'eloquio insolita per un commerciale di razza.Addirittura un workshop per gli arredi. Lei vizia.«Eh, un po' (sorride)».Si fatica a tenere il conto dei riconoscimenti che ha raccolto in questi 16 anni.«Abbiamo un bellissimo ingresso, qui, dove sono esposti dal primo all'ultimo. Non ne tengo neanche uno nel mio ufficio, sono tutti nella reception per ricordare ai miei collaboratori che stiamo facendo bene».Entrando in ufficio al mattino, che sensazione prova incrociando questo palmares?«Una bella soddisfazione. Anche nel vedere la sede ampliarsi man mano: più si sviluppa, più gente lavora con noi. Vedi la crescita dell'azienda. Il contraltare è che ci sono scale e ascensori a dividerci. Questo non mi piace. Prima era tutto un open space».È il prezzo da pagare per il successo.«(Ride) Diciamo così. Lo paghiamo volentieri».Se dovesse scegliere un premio?«Direi Great place to work, essendo un riconoscimento dato dai collaboratori con un'indagine in forma anonima, e l'Ambrogino. Fui premiata per avere offerto il congedo parentale a un nostro dipendente iscritto al registro delle unioni civili. Siamo stati i primi in Italia, la legge non lo prevedeva».E la Mela d'oro?«Che emozione. Mi ha dato l'opportunità di conoscere il presidente Mattarella. Per non parlare del significato di un premio intitolato alla grande Marisa Bellisario».Sapeva che gli americani la chiamavano «The legs» per via delle sue gambe mozzafiato?«Sì, e non solo. Conoscevo i suoi look, i tagli di capelli. Era una donna incredibile. Raggiungere quei traguardi in quell'epoca… un mostro».Si è ispirata a qualcuno?«Il mio primo datore di lavoro, Mino Zucchetti, col quale ho trascorso 18 anni della mia vita professionale. Partendo da uno studio di commercialista, ha messo in piedi la software house più grande d'Italia. Lo hanno definito lo Steve Jobs italiano. Quando qualcuno sbagliava, non chiedeva mai di chi fosse l'errore; si domandava il perché e cosa fosse necessario fare per migliorare».Lei è quella che oggi si definisce un'imprenditrice illuminata, lo sa?«Queste definizioni mi mettono in imbarazzo. Non mi sembra di fare nulla di speciale. Se lei ha una persona con un problema, cosa fa? La ascolta. Noi offriamo un servizio, ciò significa comprendere il cliente, la persona. Qualcuno mi fa notare che è semplice per me, ma non per gli altri. Io rispondo che si può sempre imparare».I suoi modi pacati non hanno nulla del marketing d'assalto. «Già. Le confesso che, a 59 anni, sono ancora molto complessata. Ho sempre paura di sbagliare, di non essere pronta».È vero che Zeta service nacque da un rimprovero di un suo ex capo?«Sì. Lavoravo in una multinazionale e mi era stato affidato il compito di vendere un servizio ai clienti, ma dopo ogni incontro tornavo in ufficio chiedendo aiuto per risolvere i loro problemi. “Il tuo scopo è vendere, non risolvere i problemi", mi disse. Fui richiamata per eccessivo orientamento al cliente».Un rimprovero ricorrente che rivolge lei ai suoi collaboratori c'è?«Il più grande l'ho fatto a me stessa. Nel 2013 avevo deciso di inserire un direttore generale. Sbagliai la scelta della persona, una donna. Dopo un anno e mezzo, dovetti invitarla all'uscita. Non rispettava i valori dell'azienda, richiamava le persone in pubblico urlando. Un disastro».Come fece a prendere un simile abbaglio?«Qui esce un mio difetto: mi innamoro delle persone che sanno parlare bene, che conoscono tante lingue. Cose in cui io non mi sento così forte».Riesce a individuare una radice personale nella cura meticolosa che presta ai dipendenti?«Mia madre. Mi ha trasmesso un forte senso di responsabilità. In primis verso la famiglia, e la mia azienda è una grande famiglia. Letteralmente, visto che i miei due figli lavorano con me. Forse per non sentirmi in colpa, li ho coinvolti fin da subito in ciò che facevo. Hanno vissuto la crescita di Zeta service come quella di un fratello. Nessun favoritismo, però: sono partiti entrambi con uno stage».Che lavoro facevano i suoi genitori?«Avevano un'azienda di autonoleggio con guidatore. Erano come i taxisti di oggi, in un mondo completamente diverso. Mamma fu una delle prime donne a prendere la patente per i pullman».Da ragazza che aspirazioni aveva?«Tutt'altre. La mia passione era il disegno. I quadri che vede esposti sono opera di una collaboratrice che di giorno elabora cedolini e la notte dipinge. In lei, rivedo qualcosa di me».La sua attenzione alla maternità è enorme. Ha elaborato perfino un Mum & dad pack. In 15 anni, Zeta service ha visto 64 nascite. L'adagio, però, è che le donne debbano essere mamme bioniche per portare avanti famiglia e lavoro.«Non è vero. È un fatto di organizzazione: io ho due figli e ho sempre lavorato. C'è la tendenza a piangersi addosso».Si è appena inimicata le femministe, lo sa?«Fa niente. L'80 per cento del mio personale è costituito da donne».Dunque, non si considera una mamma bionica.«Bionica no, mamma sì. Anche se in azienda i miei figli mi chiamano per nome».Si rimprovera mai qualche eccesso di stacanovismo?«Sono più i miei figli a rimproverarmi. Però nel weekend, quando ci troviamo a cena, sono io a dire “Non parliamo di lavoro"».Sala relax, yoga in pausa pranzo, biliardino: il suo modello ha forti echi statunitensi. In America, però, licenziare è molto semplice. Non teme l'effetto boomerang?«I miei collaboratori sanno che ogni anno facciamo un'indagine sulla soddisfazione dei clienti. Sono loro il parametro principale sul quale misuriamo la produttività, la cartina di tornasole. Dopodiché, sentire i ragazzi scherzare mentre giocano a biliardino al piano di sotto non può che rallegrarmi».Come si conciliano etica e produttività, in un mercato globale aggressivo e schizofrenico?«Dico sempre: se sbagli, alza la mano. Dietro a un nostro errore c'è una persona, una famiglia. Purtroppo, può capitare, chi non sbaglia mai? Ai miei commerciali ripeto: mai dire che siamo perfetti, l'importante è mostrare la volontà di dare il meglio».Pronuncia spesso termini come flessibilità, smart working. Da voi non si timbra il cartellino. Spesso, in Italia, questi sono modi alternativi di chiamare gli straordinari non pagati.«Non è il mio modo di concepire il lavoro. Un bravo responsabile deve capire se un dipendente sta facendo più o meno ore del dovuto. In entrambi i casi, deve intervenire».Quanto, la felicità di un dipendente, ha a che fare con l'importo della sua busta paga?«La busta paga è importante, ma viene dopo. Prima bisogna dare altre cose. Noi sappiamo bene quanto conti quel netto sul cedolino, ma la priorità è stare bene, avere benefit che aiutino a conciliare lavoro e vita privata. Provi a chiedere alle nostre mamme se preferiscono avere 100 euro in più o la possibilità di lavorare da casa quando il bimbo si ammala».Pensa di avere uno stipendio proporzionato a ciò che fa?«Potrebbe esserlo di più. Io reinvesto molto nell'azienda, perché credo di avere già abbastanza. E perché credo tanto in iniziative come il Progetto libellula, da noi promosso nel 2017: il primo network di aziende unite contro la violenza sulle donne».Si prodiga tanto per allentare lo stress dei suoi dipendenti. Ma il suo?«In agosto, tre settimane di ferie al mare non me le toglie nessuno. Mi porto dietro il cellulare nel caso qualcuno abbia bisogno. Anche da quello capisco se stiamo funzionando come azienda: meno email e telefonate ricevo, più so di avere delegato bene».Tra 10 anni come si vede?«Come coach per i miei figli. Vorrei essere un punto di riferimento per loro come Zucchetti lo è stato per me. Quando si sta al vertice, capita di sentirsi soli. Ci sono situazioni che non si possono condividere con i collaboratori, serve un occhio esterno».Riprendendo un suo slogan: almeno un'ora al giorno è felice?«Magari non proprio un'ora (sorride). Una cosa che faccio spesso alla sera, e che consiglio, è pensare a tre cose belle capitate nel corso della giornata. Non le nascondo che, tra qualche ora, ricorderò con piacere questa conversazione avuta con lei».
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)