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2023-05-12
«Vivere non è un gioco da ragazzi», la nuova serie tv Rai sul rapporto genitori-figli
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Il cast di «Vivere non è un gioco da ragazzi» (RaiPlay)
La droga la muove, il suo uso ricreativo, la consuetudine a fare senza troppo pensare, senza soffermarsi sulla percezione individuale della realtà. Vivere non è un gioco da ragazzi è la storia di come l’omologazione acritica, il bisogno disperato di accettazione, possa portare alla tragedia. Ed è, pure, la storia di una società – la nostra – in evoluzione (e involuzione).
Lele, che nella fiction Rai ha il volto di Riccardo De Rinaldis, è un diciottenne di umili origini. Non ha genitori abbienti. Eppure, sono stati suo padre e sua madre, Marco (Stefano Fresi) e Anna (Nicole Grimaudo), ad iscriverlo nello stesso liceo frequentato dalla Bologna-bene, dai figli dell’élite. Ragazzi annoiati, vittime delle loro stesse possibilità. Ragazzi cui Lele si trova a guardare con invidia e desiderio. Vorrebbe essere parte del gruppo, conquistare Serena, la bella della scuola. Lo vorrebbe tanto da scoprirsi disposto a tutto, persino a spacciare per procacciarsi i mezzi necessari a foraggiare la sua socialità. Ed è questo che la fiction, al debutto su RaiUno nella prima serata di lunedì 15 maggio, racconta: una deriva presa per caso, con leggerezza, una deriva presa quando il diciottenne, ancora inconsapevole, ha accettato un invito di Serena e ceduto ad una prima pasticca in discoteca, Mdma. I soldi per sostenere i vizi della fidanzatina e del gruppo, Lele ha capito preso che non avrebbe potuto chiederli a casa. Avrebbe dovuto guadagnarseli. E comprare pasticche per poi rivederle nei locali dei ricchi gli è sembrata una cosa facile, innocua. Un modo, per giunta, di costruirsi una sua popolarità: la stessa che gli è crollata addosso quando Mirco, suo caro amico, è stato trovato morto la mattina dopo avergli comprato una pillola.
Vivere non è un gioco da ragazzi inizia allora, con la leggerezza che si fa angoscia. È il senso di responsabilità, la colpa a serpeggiare fra le prime puntate della fiction, mettendo in moto una complessa macchina esistenziale, capace di portare a galla le stigma di una generazione assolutamente reale e realistica. Vivere non è un gioco da ragazzi, nella quale Claudio Bisio interpreta il commissario Saguatti, è frutto di una finzione. Eppure, nel suo essere inventata, riesce a fotografare con accuratezza lo spirito della società moderna: le difficoltà dei ragazzi, il loro bisogno di trovarsi un’identità che sia riconosciuta e approvata da un gruppo, l’io, messo da parte e bistrattato. Poi, il rapporto con i genitori, con le mode, con l’accettazione spesso acritica di quel che comportano. È una fiction, sì, ma è una fiction in grado di parlare ad un pubblico ampio. La Rai, idealmente, direbbe familiare. Vivere non è un gioco da ragazzi, come Mare Fuori, dovrebbe andare sotto la categoria di quelle produzioni pensate per essere viste dai genitori con i figli, pensate per favorire un dialogo, per togliere gli imbarazzi e fornire il pretesto alla conversazione. I genitori dovrebbero guardarla e scoprirsi pronti a parlare di droghe, di amori, di limiti e crescita. Se funziona, ad oggi, non è dato sapersi. Ma l’esordio della fiction, da solo, basta a dare conto di un cambiamento in atto: la Rai non è più, solo, provincialismo e storia all’italiana. È analisi, analisi di una società che non può più essere edulcorata, ma deve essere colta nella sua interezza, gioie e dolori compresi.
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Il produttore è lo stesso di Mare Fuori, la trama costruita su un tema altrettanto scomodo. L'adattamento televisivo de Il giro della verità, scritto da Fabio Bonifacci, racconta una storia che un tempo sarebbe stato impensabile ritrovare su RaiUno.La droga la muove, il suo uso ricreativo, la consuetudine a fare senza troppo pensare, senza soffermarsi sulla percezione individuale della realtà. Vivere non è un gioco da ragazzi è la storia di come l’omologazione acritica, il bisogno disperato di accettazione, possa portare alla tragedia. Ed è, pure, la storia di una società – la nostra – in evoluzione (e involuzione). Lele, che nella fiction Rai ha il volto di Riccardo De Rinaldis, è un diciottenne di umili origini. Non ha genitori abbienti. Eppure, sono stati suo padre e sua madre, Marco (Stefano Fresi) e Anna (Nicole Grimaudo), ad iscriverlo nello stesso liceo frequentato dalla Bologna-bene, dai figli dell’élite. Ragazzi annoiati, vittime delle loro stesse possibilità. Ragazzi cui Lele si trova a guardare con invidia e desiderio. Vorrebbe essere parte del gruppo, conquistare Serena, la bella della scuola. Lo vorrebbe tanto da scoprirsi disposto a tutto, persino a spacciare per procacciarsi i mezzi necessari a foraggiare la sua socialità. Ed è questo che la fiction, al debutto su RaiUno nella prima serata di lunedì 15 maggio, racconta: una deriva presa per caso, con leggerezza, una deriva presa quando il diciottenne, ancora inconsapevole, ha accettato un invito di Serena e ceduto ad una prima pasticca in discoteca, Mdma. I soldi per sostenere i vizi della fidanzatina e del gruppo, Lele ha capito preso che non avrebbe potuto chiederli a casa. Avrebbe dovuto guadagnarseli. E comprare pasticche per poi rivederle nei locali dei ricchi gli è sembrata una cosa facile, innocua. Un modo, per giunta, di costruirsi una sua popolarità: la stessa che gli è crollata addosso quando Mirco, suo caro amico, è stato trovato morto la mattina dopo avergli comprato una pillola. Vivere non è un gioco da ragazzi inizia allora, con la leggerezza che si fa angoscia. È il senso di responsabilità, la colpa a serpeggiare fra le prime puntate della fiction, mettendo in moto una complessa macchina esistenziale, capace di portare a galla le stigma di una generazione assolutamente reale e realistica. Vivere non è un gioco da ragazzi, nella quale Claudio Bisio interpreta il commissario Saguatti, è frutto di una finzione. Eppure, nel suo essere inventata, riesce a fotografare con accuratezza lo spirito della società moderna: le difficoltà dei ragazzi, il loro bisogno di trovarsi un’identità che sia riconosciuta e approvata da un gruppo, l’io, messo da parte e bistrattato. Poi, il rapporto con i genitori, con le mode, con l’accettazione spesso acritica di quel che comportano. È una fiction, sì, ma è una fiction in grado di parlare ad un pubblico ampio. La Rai, idealmente, direbbe familiare. Vivere non è un gioco da ragazzi, come Mare Fuori, dovrebbe andare sotto la categoria di quelle produzioni pensate per essere viste dai genitori con i figli, pensate per favorire un dialogo, per togliere gli imbarazzi e fornire il pretesto alla conversazione. I genitori dovrebbero guardarla e scoprirsi pronti a parlare di droghe, di amori, di limiti e crescita. Se funziona, ad oggi, non è dato sapersi. Ma l’esordio della fiction, da solo, basta a dare conto di un cambiamento in atto: la Rai non è più, solo, provincialismo e storia all’italiana. È analisi, analisi di una società che non può più essere edulcorata, ma deve essere colta nella sua interezza, gioie e dolori compresi.
Giorgio Locatelli, Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri al photocall di MasterChef (Ansa)
Sono i fornelli sempre accesi, le prove sempre uguali, è l'alternarsi di casi umani e talenti ai Casting, l'ansia palpabile di chi, davanti alla triade stellata, non riesce più a proferire parola.
Sono le Mistery Box, i Pressure Test, la Caporetto di Iginio Massari, con i suoi tecnicismi di pasticceria. Sono, ancora, i grembiuli sporchi, le urla, le esterne e i livori fra brigate, la prosopopea di chi crede di meritare la vittoria a rendere MasterChef un appuntamento imperdibile. Tradizionale, per il modo silenzioso che ha di insinuarsi tra l'Immacolata e il Natale, addobbando i salotti come dovrebbe fare l'albero.
MasterChef è fra i pochissimi programmi televisivi cui il tempo non ha tolto, ma dato forza. E il merito, più che dei giudici, bravissimi - loro pure - a rendere vivo lo spettacolo, è della compagine autoriale. Gli autori sono il vanto dello show, perfetti nel bilanciare fra loro gli elementi della narrazione televisiva, come comanderebbe l'algoritmo di Boris. La retorica, che pur c'è, con l'attenzione alla sostenibilità e alla rappresentazione di tutte le minoranze, non ha fagocitato l'impianto scenico. L'imperativo di portare a casa la doggy bag sfuma, perché a prevalere è l'esito delle prove. Il battagliarsi di concorrenti scelti con precisione magistrale e perfetto cerchiobottismo. Ci sono, gli antipatici, quelli messi lì perché devono, perché il politicamente corretto lo impone. Ma, tutto sommato, si perdono, perché accanto hanno chi merita e chi, invece, riesce con la propria goffaggine a strappare una risata sincera. E, intanto, le puntate vanno, queste chiedendo più attenzione alla tradizione, indispensabile per una solida innovazione. Vanno, e poco importa somiglino alle passate. Sono nuovi i concorrenti, nuove le loro alleanze. Pare sempre sincero il divertimento di chi è chiamato a giudicarle, come sincero è il piacere di vedere altri affannarsi in un gesto che, per ciascuno di noi, è vitale e quotidiano, quello del cucinare.
Bene, male, pazienza. L'importante, come ci ha insegnato MasterChef, è farlo con amore e rispetto. E, pure, con un pizzico di arroganza in più, quella dovuta al fatto che la consuetudine televisiva ci abbia reso più istruiti, più pronti, più giudici anche noi del piatto altrui.
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Ecco #DimmiLaVerità del 12 dicembre 2025. Il nostro Alessandro Da Rold ci rivela gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano e i papabili per il dopo Sala.