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2022-09-29
Gli States ai loro cittadini: «Via dalla Russia»
L'Ambasciata degli Stati Uniti a Mosca (Getty Images)
Si alza sempre di più il livello dello scontro tra la Russia e gli Stati Uniti. Ieri i cittadini americani sono stati invitati «a lasciare la Russia immediatamente usando le limitate opzioni di trasporto commerciale ancora disponibili». Questo, in sintesi, è quanto si legge sul sito dell’ambasciata americana a Mosca. L’ufficio nel suo alert ricorda come, in particolare, «siano a rischio le persone con doppia cittadinanza americana e russa». Altro brutto segnale è che anche i governi di Bulgaria e Polonia stanno esortando tutti i loro concittadini che si trovano in Russia «a partire immediatamente». Il ministero degli Esteri della Bulgaria chiede ai suoi cittadini «di astenersi dal viaggiare nella Federazione russa e raccomanda agli stessi di considerare la possibilità di lasciare il paese il prima possibile, utilizzando mezzi di trasporto attualmente disponibili». Lo stesso ha fatto il ministero degli Esteri polacco, rilasciando una dichiarazione simile: «In caso di un drastico deterioramento della situazione della sicurezza, della chiusura delle frontiere o di altre circostanze impreviste, l’evacuazione può rivelarsi notevolmente ostacolata o addirittura impossibile. Raccomandiamo che i cittadini della repubblica di Polonia che rimangono nella Federazione russa lascino il suo territorio utilizzando i mezzi commerciali e privati disponibili». Non sono parole da prendere alla leggera, perché si tratta di decisioni che vengono assunte dopo aver consultato le agenzie di intelligence: a Mosca sta per succedere qualcosa di brutto. A proposito di avvertimenti, il ministro degli Esteri polacco, Zbigniew Rau, in visita a Washington, ha ringhiato: «Se Putin dovesse usare la bomba atomica, la Nato reagirà in maniera convenzionale, quindi non usando un’arma nucleare, ma la risposta sarà devastante». Nella giornata di ieri si è anche appreso che gli Stati Uniti stanno preparando un nuovo pacchetto di armi da 1,1 miliardi di dollari per l’Ucraina, in previsione dell’annuncio da parte della Russia dell’annessione di territori contesi. Fonti dell’amministrazione a stelle e strisce hanno riferito che il pacchetto comprenderà nuovamente i sistemi anti-missili Himars, munizioni, vari tipi di sistemi anti-drone e radar.
Intanto procede il processo di annessione delle regioni ucraine di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia, dove le autorità filorusse hanno tenuto referendum per unirsi a Mosca (non riconosciuti dalla comunità internazionale), tanto che il presidente della Duma, Viaceslav Volodin, all’agenzia Interfax ha dichiarato che «l’agenda del Parlamento russo verrà ridefinita, in modo da tenere lunedì una sessione plenaria straordinaria sull’annessione. Abbiamo già detto, e riaffermiamo all’unanimità, che sosteniamo il percorso verso la salvezza della popolazione della Nuova Russia (Novorossiya)». Mentre il ministero degli Esteri russo ha affermato che «saranno presto intraprese azioni per soddisfare le aspirazioni delle quattro regioni». Su questo tema ieri la Cina ha ribadito la propria contrarietà all’operato del Cremlino, e lo ha fatto attraverso il portavoce del ministro degli Esteri Wang Wenbin: «Sulla questione dell’Ucraina la nostra posizione è stata sempre chiara: abbiamo sempre sostenuto che l’integrità sovrana e territoriale di tutti i Paesi dovrebbe essere rispettata così come gli scopi e i principi della Carta dell’Onu». Wang Wenbin ha infine ricordato che «le legittime preoccupazioni sulla sicurezza di tutti i paesi dovrebbero essere prese sul serio e dovrebbero essere sostenuti gli sforzi per una soluzione pacifica della crisi». Parole che non potranno certo far piacere a Vladimir Putin, che vede crescere di continuo i distinguo di Pechino sulla sua guerra. Ieri hanno anche parlato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e quello ucraino Volodymyr Zelensky, quest’ultimo su Telegram ha ringraziato l’omologo turco «per l’incrollabile sostegno all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina, per la posizione di principio sul non riconoscimento dei finti referendum illegali tenuti dalla Russia nei territori occupati. Apprezziamo molto il ruolo personale di Erdogan nell’organizzare il recente scambio di prigionieri di guerra e nel dare rifugio ai comandanti ucraini». Altre parole che non piaceranno a Mosca.
Sul versante militare, la mobilitazione parziale procede seppur tra molte difficoltà logistiche e l’enorme numero di persone che sta lasciando la Russia. Per tentare di contenere il fenomeno, in una nota pubblicata sul portale di notizie del governo si afferma che la Russia non darà più i passaporti a quelli che vengono richiamati per la leva: «Se un cittadino è già stato chiamato al servizio militare o ha ricevuto una convocazione (per mobilitazione o coscrizione), il passaporto internazionale non verrà concesso». Inoltre le autorità russe stanno istituendo posti di blocco ai confini statali per mobilitare con la forza gli uomini che stanno cercando di evitare il fronte fuggendo dal paese. Dai ieri, secondo lo stato maggiore delle forze armate ucraine, sul campo di battaglia la Russia ha iniziato a schierare prigionieri comuni: «Le persone condannate per reati penali sono arrivate a rinforzare le unità che stanno già combattendo in Ucraina». Mentre sul campo di battaglia non si registrano grandi cambiamenti, la sensazione è che il piano inclinato sul quale ci troviamo continui a farci scivolare verso il baratro.
La Chiesa moscovita sfida lo zar: «È una gravissima scelta morale»
La mobilitazione di 300.000 riservisti, annunciata ufficialmente dal presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, per ridare slancio all’azione bellica in Ucraina, non ha la benedizione della Chiesa cattolica. È quanto emerge in modo cristallino dall’intervento, sul tema, della Conferenza dei vescovi cattolici della Russia recante in calce il nome di monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo metropolita di Mosca.
Si tratta di un intervento che, in realtà, si discosta su più punti dai toni e dalle strategie indicate dal Cremlino. Infatti, monsignor Pezzi riconosce apertamente che «in determinate circostanze, le autorità statali non solo hanno il diritto, ma devono anche usare armi e richiedere ai cittadini di adempiere ai doveri necessari per proteggere la patria, e coloro che servono onestamente la madrepatria nel servizio militare» sono servitori del «bene comune». Il punto è che, a parte detta sottolineatura, il prelato prende marcatamente le distanze dalle indicazioni putiniane.
Anzitutto perché rigetta in modo netto la retorica dell’«operazione militare speciale» definendo quello iniziato in Ucraina uno «scontro trasformatosi in un conflitto militare su vasta scala che ha già causato migliaia di vittime, minato la fiducia e l’unità tra paesi e popoli e minaccia l’esistenza del mondo intero». Ma non è finita, perché è proprio rispetto alla mobilitazione annunciata da Putin che monsignor Pezzi prende la posizione più forte e difforme dalla linea governativa. Infatti, scrive l’arcivescovo, «la parziale mobilitazione annunciata in Russia», ben lungi dall’essere qualcosa da assecondare a cuor leggero, mette tutti, credenti in primis, «di fronte a una gravissima scelta morale». E rispetto a tale dilemma, continua l’intervento, «la Chiesa ricorda alle autorità statali che esse “devono trovare una giusta soluzione nei casi in cui una persona, per convinzione, rifiuta di prendere le armi, pur restando obbligata a servire la comunità umana in altro modo”».
Il prelato cattolico fa insomma un esplicito richiamo, rispetto alla mobilitazione dei riservisti, all’obiezione di coscienza. Se non è una sconfessione della decisione del Cremlino, oggettivamente, poco ci manca. Tanto più che il discorso si apre con una celebre citazione di papa Eugenio Pacelli che suona anch’essa molto netta: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Pezzi termina qui la citazione, ma quel discorso, che Pio XII tenne il 24 agosto 1939, prosegue così: «Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare».
Non ci sono dunque più dubbi rispetto a quale possa essere la linea dei cattolici in Russia, e cioè la stessa di Papa Francesco. Il che, se da un lato è scontato avendo la Chiesa cattolica un pilastro fondante nel papato, dall’altro comunque merita una sottolineatura, dal momento che le cose che ha scritto, monsignor Pezzi non le ha scritte da Roma, bensì da Mosca. Oltre che chiara, la sua è pertanto anche una posizione molto coraggiosa.
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Stesso avvertimento da parte di Polonia e Bulgaria: «Utilizzate ogni mezzo disponibile, chi ha doppia cittadinanza potrebbe essere mandato in guerra». La Cina molla il Cremlino: «Rispettare l’integrità ucraina». Kiev: «Arrivati al fronte galeotti russi».La Chiesa moscovita sfida lo zar: «È una gravissima scelta morale». Monsignor Paolo Pezzi: «La mobilitazione pone un grande dilemma davanti ai fedeli».Lo speciale comprende due articoli. Si alza sempre di più il livello dello scontro tra la Russia e gli Stati Uniti. Ieri i cittadini americani sono stati invitati «a lasciare la Russia immediatamente usando le limitate opzioni di trasporto commerciale ancora disponibili». Questo, in sintesi, è quanto si legge sul sito dell’ambasciata americana a Mosca. L’ufficio nel suo alert ricorda come, in particolare, «siano a rischio le persone con doppia cittadinanza americana e russa». Altro brutto segnale è che anche i governi di Bulgaria e Polonia stanno esortando tutti i loro concittadini che si trovano in Russia «a partire immediatamente». Il ministero degli Esteri della Bulgaria chiede ai suoi cittadini «di astenersi dal viaggiare nella Federazione russa e raccomanda agli stessi di considerare la possibilità di lasciare il paese il prima possibile, utilizzando mezzi di trasporto attualmente disponibili». Lo stesso ha fatto il ministero degli Esteri polacco, rilasciando una dichiarazione simile: «In caso di un drastico deterioramento della situazione della sicurezza, della chiusura delle frontiere o di altre circostanze impreviste, l’evacuazione può rivelarsi notevolmente ostacolata o addirittura impossibile. Raccomandiamo che i cittadini della repubblica di Polonia che rimangono nella Federazione russa lascino il suo territorio utilizzando i mezzi commerciali e privati disponibili». Non sono parole da prendere alla leggera, perché si tratta di decisioni che vengono assunte dopo aver consultato le agenzie di intelligence: a Mosca sta per succedere qualcosa di brutto. A proposito di avvertimenti, il ministro degli Esteri polacco, Zbigniew Rau, in visita a Washington, ha ringhiato: «Se Putin dovesse usare la bomba atomica, la Nato reagirà in maniera convenzionale, quindi non usando un’arma nucleare, ma la risposta sarà devastante». Nella giornata di ieri si è anche appreso che gli Stati Uniti stanno preparando un nuovo pacchetto di armi da 1,1 miliardi di dollari per l’Ucraina, in previsione dell’annuncio da parte della Russia dell’annessione di territori contesi. Fonti dell’amministrazione a stelle e strisce hanno riferito che il pacchetto comprenderà nuovamente i sistemi anti-missili Himars, munizioni, vari tipi di sistemi anti-drone e radar.Intanto procede il processo di annessione delle regioni ucraine di Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia, dove le autorità filorusse hanno tenuto referendum per unirsi a Mosca (non riconosciuti dalla comunità internazionale), tanto che il presidente della Duma, Viaceslav Volodin, all’agenzia Interfax ha dichiarato che «l’agenda del Parlamento russo verrà ridefinita, in modo da tenere lunedì una sessione plenaria straordinaria sull’annessione. Abbiamo già detto, e riaffermiamo all’unanimità, che sosteniamo il percorso verso la salvezza della popolazione della Nuova Russia (Novorossiya)». Mentre il ministero degli Esteri russo ha affermato che «saranno presto intraprese azioni per soddisfare le aspirazioni delle quattro regioni». Su questo tema ieri la Cina ha ribadito la propria contrarietà all’operato del Cremlino, e lo ha fatto attraverso il portavoce del ministro degli Esteri Wang Wenbin: «Sulla questione dell’Ucraina la nostra posizione è stata sempre chiara: abbiamo sempre sostenuto che l’integrità sovrana e territoriale di tutti i Paesi dovrebbe essere rispettata così come gli scopi e i principi della Carta dell’Onu». Wang Wenbin ha infine ricordato che «le legittime preoccupazioni sulla sicurezza di tutti i paesi dovrebbero essere prese sul serio e dovrebbero essere sostenuti gli sforzi per una soluzione pacifica della crisi». Parole che non potranno certo far piacere a Vladimir Putin, che vede crescere di continuo i distinguo di Pechino sulla sua guerra. Ieri hanno anche parlato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e quello ucraino Volodymyr Zelensky, quest’ultimo su Telegram ha ringraziato l’omologo turco «per l’incrollabile sostegno all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina, per la posizione di principio sul non riconoscimento dei finti referendum illegali tenuti dalla Russia nei territori occupati. Apprezziamo molto il ruolo personale di Erdogan nell’organizzare il recente scambio di prigionieri di guerra e nel dare rifugio ai comandanti ucraini». Altre parole che non piaceranno a Mosca. Sul versante militare, la mobilitazione parziale procede seppur tra molte difficoltà logistiche e l’enorme numero di persone che sta lasciando la Russia. Per tentare di contenere il fenomeno, in una nota pubblicata sul portale di notizie del governo si afferma che la Russia non darà più i passaporti a quelli che vengono richiamati per la leva: «Se un cittadino è già stato chiamato al servizio militare o ha ricevuto una convocazione (per mobilitazione o coscrizione), il passaporto internazionale non verrà concesso». Inoltre le autorità russe stanno istituendo posti di blocco ai confini statali per mobilitare con la forza gli uomini che stanno cercando di evitare il fronte fuggendo dal paese. Dai ieri, secondo lo stato maggiore delle forze armate ucraine, sul campo di battaglia la Russia ha iniziato a schierare prigionieri comuni: «Le persone condannate per reati penali sono arrivate a rinforzare le unità che stanno già combattendo in Ucraina». Mentre sul campo di battaglia non si registrano grandi cambiamenti, la sensazione è che il piano inclinato sul quale ci troviamo continui a farci scivolare verso il baratro.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/usa-russia-cittadini-americani-2658355707.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-chiesa-moscovita-sfida-lo-zar-e-una-gravissima-scelta-morale" data-post-id="2658355707" data-published-at="1664396391" data-use-pagination="False"> La Chiesa moscovita sfida lo zar: «È una gravissima scelta morale» La mobilitazione di 300.000 riservisti, annunciata ufficialmente dal presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, per ridare slancio all’azione bellica in Ucraina, non ha la benedizione della Chiesa cattolica. È quanto emerge in modo cristallino dall’intervento, sul tema, della Conferenza dei vescovi cattolici della Russia recante in calce il nome di monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo metropolita di Mosca. Si tratta di un intervento che, in realtà, si discosta su più punti dai toni e dalle strategie indicate dal Cremlino. Infatti, monsignor Pezzi riconosce apertamente che «in determinate circostanze, le autorità statali non solo hanno il diritto, ma devono anche usare armi e richiedere ai cittadini di adempiere ai doveri necessari per proteggere la patria, e coloro che servono onestamente la madrepatria nel servizio militare» sono servitori del «bene comune». Il punto è che, a parte detta sottolineatura, il prelato prende marcatamente le distanze dalle indicazioni putiniane. Anzitutto perché rigetta in modo netto la retorica dell’«operazione militare speciale» definendo quello iniziato in Ucraina uno «scontro trasformatosi in un conflitto militare su vasta scala che ha già causato migliaia di vittime, minato la fiducia e l’unità tra paesi e popoli e minaccia l’esistenza del mondo intero». Ma non è finita, perché è proprio rispetto alla mobilitazione annunciata da Putin che monsignor Pezzi prende la posizione più forte e difforme dalla linea governativa. Infatti, scrive l’arcivescovo, «la parziale mobilitazione annunciata in Russia», ben lungi dall’essere qualcosa da assecondare a cuor leggero, mette tutti, credenti in primis, «di fronte a una gravissima scelta morale». E rispetto a tale dilemma, continua l’intervento, «la Chiesa ricorda alle autorità statali che esse “devono trovare una giusta soluzione nei casi in cui una persona, per convinzione, rifiuta di prendere le armi, pur restando obbligata a servire la comunità umana in altro modo”». Il prelato cattolico fa insomma un esplicito richiamo, rispetto alla mobilitazione dei riservisti, all’obiezione di coscienza. Se non è una sconfessione della decisione del Cremlino, oggettivamente, poco ci manca. Tanto più che il discorso si apre con una celebre citazione di papa Eugenio Pacelli che suona anch’essa molto netta: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Pezzi termina qui la citazione, ma quel discorso, che Pio XII tenne il 24 agosto 1939, prosegue così: «Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare». Non ci sono dunque più dubbi rispetto a quale possa essere la linea dei cattolici in Russia, e cioè la stessa di Papa Francesco. Il che, se da un lato è scontato avendo la Chiesa cattolica un pilastro fondante nel papato, dall’altro comunque merita una sottolineatura, dal momento che le cose che ha scritto, monsignor Pezzi non le ha scritte da Roma, bensì da Mosca. Oltre che chiara, la sua è pertanto anche una posizione molto coraggiosa.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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