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2022-08-03
Gli Usa puntano a contrastare l'influenza sino-russa in Africa
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Il segretario di Stato Usa Antony Blinken (Ansa)
Il capo di Foggy Bottom visiterà innanzitutto il Sud Africa dal 7 al 9 agosto. «Il segretario lancerà la strategia statunitense per l'Africa subsahariana, che rafforza la visione degli Stati Uniti secondo cui i Paesi africani sono attori geostrategici e partner critici sulle questioni più urgenti dei nostri giorni, dalla promozione di un sistema internazionale aperto e stabile, all'affrontare gli effetti di cambiamenti climatici, insicurezza alimentare e pandemie globali», si legge in una nota diffusa dal Dipartimento di Stato americano. Blinken si recherà anche nella Repubblica democratica del Congo e in Ruanda. Ricordiamo che, l’autunno scorso, il segretario di Stato aveva già effettuato un viaggio in Kenya, Nigeria e Senegal.
Come detto, Washington punta a contrastare l’influenza sino-russa sull’area. Non è d’altronde un caso che il viaggio del segretario di Stato americano avvenga poche settimane dopo il tour africano dell’omologo russo, Sergej Lavrov. A fine luglio, quest’ultimo aveva infatti visitato Etiopia, Egitto, Repubblica del Congo e Uganda. Nell’occasione, il ministro degli Esteri di Mosca aveva invocato una riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu, per aumentare il peso dei Paesi africani. Una mossa piuttosto scaltra, soprattutto alla luce del fatto che Cina e Russia guardano all’Africa anche (se non soprattutto) per aumentare il loro peso in sede Onu. In tutto questo, visitando la Repubblica del Congo, Lavrov ha anche offerto la disponibilità della Russia a contribuire ad organizzare una conferenza di pace in Libia (quella stessa Libia in cui si sta rafforzando la figura, storicamente spalleggiata da Mosca, del generale Khalifa Haftar).
Ricordiamo, più in generale, che il Cremlino sta consolidando – grazie ai temibili mercenari del Wagner Group – la sua longa manus sul Sahel: un fattore, questo, che gli consente potenzialmente di utilizzare i flussi migratori per mettere sotto pressione i Paesi dell’Alleanza atlantica. Inoltre, va sottolineato che, ad oggi, la Russia risulta la principale venditrice di armi al continente africano. Tra l’altro, nel suo recente tour, Lavrov non ha esitato a ricorrere a una retorica smaccatamente antioccidentale.
Gli Stati Uniti stanno quindi evidentemente iniziando a rendersi conto di aver perso molto terreno in Africa negli scorsi anni. E questo è un problema non solo per gli equilibri politici in seno alle Nazioni Unite, ma anche per la solidità della stessa Nato. È probabilmente per questo che, nel nuovo strategic concept dell’Alleanza, viene esplicitamente citato il Sahel. Una crescente consapevolezza quindi, che non si è tuttavia ancora tramutata in una strategia organica in vista di un consolidamento del fianco meridionale della stessa Nato. Tanto più in una fase storica in cui l’influenza europea (e soprattutto francese) sul Sahel si sta progressivamente sfarinando.
È in questo quadro che l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale ha recentemente annunciato un piano di assistenza da un miliardo di dollari per il Corno d’Africa: un’area in cui il peso delle influenze sino-russe sta pericolosamente aumentando (in Sudan, il Wagner Group è riuscito a garantirsi importanti contratti minerari, mentre Pechino ha effettuato pesanti investimenti infrastrutturali in Kenya ed Etiopia). Non sarò quindi facile per gli Stati Uniti invertire il processo di progressiva infiltrazione sino-russa. Anche perché diversi Paesi africani sono piuttosto sensibili alla propaganda terzomondista di Mosca e Pechino. L’unica parziale svolta al momento è che Washington sembra avere oggi maggiore contezza del problema. E il nuovo tour africano di Blinken sta a dimostrarlo.
L'influenza russa sull'Africa passa attraverso la fornitura di armi
L’influenza internazionale di Mosca (soprattutto in Africa) si estrinseca anche attraverso la fornitura di materiale bellico. A dimostrarlo è un report dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, pubblicato nel marzo del 2021.
Tra il 2016 e il 2020, la Russia ha consegnato armi a 45 Stati, coprendo il 20% delle esportazioni internazionali complessive di armamenti. Il principale destinatario di materiale bellico russo è stata l’India (che ha importato il 23% del totale). A seguire si registrano la Cina (18%) e l’Algeria (15%).
Più in generale, nell’arco di tempo considerato, l’export russo di armi è aumentato verso il Medio Oriente (64%) e verso l’Africa (23%). Un altro Paese africano che intrattiene saldi legami con la Russia in materia di fornitura d’armi è l’Egitto. In tutto questo, lo scorso ottobre, Al Jazeera riferì che Mosca aveva inviato quattro elicotteri, armi e munizioni al Mali: Stato su cui, nei mesi successivi, è guarda caso notevolmente aumentata l’influenza politica del Cremlino a discapito di Parigi.
Infine, negli ultimi anni, la Russia ha inviato armi anche in Libia, per sostenere i mercenari del Wagner Group.
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Gli Stati Uniti guardano all’Africa. A partire da domenica, il segretario di Stato americano, Tony Blinken, si recherà nel continente, nel tentativo di contrastare la crescente influenza di Russia e Cina sull’area. L’influenza internazionale di Mosca, soprattutto in Africa, si estrinseca anche attraverso la fornitura di materiale bellico. A dimostrarlo è un report dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, pubblicato nel marzo del 2021, secondo cui tra il 2016 e il 2020, la Russia ha consegnato armi a 45 Stati.Lo speciale contiene due articoli.Il capo di Foggy Bottom visiterà innanzitutto il Sud Africa dal 7 al 9 agosto. «Il segretario lancerà la strategia statunitense per l'Africa subsahariana, che rafforza la visione degli Stati Uniti secondo cui i Paesi africani sono attori geostrategici e partner critici sulle questioni più urgenti dei nostri giorni, dalla promozione di un sistema internazionale aperto e stabile, all'affrontare gli effetti di cambiamenti climatici, insicurezza alimentare e pandemie globali», si legge in una nota diffusa dal Dipartimento di Stato americano. Blinken si recherà anche nella Repubblica democratica del Congo e in Ruanda. Ricordiamo che, l’autunno scorso, il segretario di Stato aveva già effettuato un viaggio in Kenya, Nigeria e Senegal.Come detto, Washington punta a contrastare l’influenza sino-russa sull’area. Non è d’altronde un caso che il viaggio del segretario di Stato americano avvenga poche settimane dopo il tour africano dell’omologo russo, Sergej Lavrov. A fine luglio, quest’ultimo aveva infatti visitato Etiopia, Egitto, Repubblica del Congo e Uganda. Nell’occasione, il ministro degli Esteri di Mosca aveva invocato una riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu, per aumentare il peso dei Paesi africani. Una mossa piuttosto scaltra, soprattutto alla luce del fatto che Cina e Russia guardano all’Africa anche (se non soprattutto) per aumentare il loro peso in sede Onu. In tutto questo, visitando la Repubblica del Congo, Lavrov ha anche offerto la disponibilità della Russia a contribuire ad organizzare una conferenza di pace in Libia (quella stessa Libia in cui si sta rafforzando la figura, storicamente spalleggiata da Mosca, del generale Khalifa Haftar). Ricordiamo, più in generale, che il Cremlino sta consolidando – grazie ai temibili mercenari del Wagner Group – la sua longa manus sul Sahel: un fattore, questo, che gli consente potenzialmente di utilizzare i flussi migratori per mettere sotto pressione i Paesi dell’Alleanza atlantica. Inoltre, va sottolineato che, ad oggi, la Russia risulta la principale venditrice di armi al continente africano. Tra l’altro, nel suo recente tour, Lavrov non ha esitato a ricorrere a una retorica smaccatamente antioccidentale. Gli Stati Uniti stanno quindi evidentemente iniziando a rendersi conto di aver perso molto terreno in Africa negli scorsi anni. E questo è un problema non solo per gli equilibri politici in seno alle Nazioni Unite, ma anche per la solidità della stessa Nato. È probabilmente per questo che, nel nuovo strategic concept dell’Alleanza, viene esplicitamente citato il Sahel. Una crescente consapevolezza quindi, che non si è tuttavia ancora tramutata in una strategia organica in vista di un consolidamento del fianco meridionale della stessa Nato. Tanto più in una fase storica in cui l’influenza europea (e soprattutto francese) sul Sahel si sta progressivamente sfarinando. È in questo quadro che l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale ha recentemente annunciato un piano di assistenza da un miliardo di dollari per il Corno d’Africa: un’area in cui il peso delle influenze sino-russe sta pericolosamente aumentando (in Sudan, il Wagner Group è riuscito a garantirsi importanti contratti minerari, mentre Pechino ha effettuato pesanti investimenti infrastrutturali in Kenya ed Etiopia). Non sarò quindi facile per gli Stati Uniti invertire il processo di progressiva infiltrazione sino-russa. Anche perché diversi Paesi africani sono piuttosto sensibili alla propaganda terzomondista di Mosca e Pechino. L’unica parziale svolta al momento è che Washington sembra avere oggi maggiore contezza del problema. E il nuovo tour africano di Blinken sta a dimostrarlo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/usa-contrastare-sino-russa-africa-2657799340.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="l-influenza-russa-sull-africa-passa-attraverso-la-fornitura-di-armi" data-post-id="2657799340" data-published-at="1659520497" data-use-pagination="False"> L'influenza russa sull'Africa passa attraverso la fornitura di armi L’influenza internazionale di Mosca (soprattutto in Africa) si estrinseca anche attraverso la fornitura di materiale bellico. A dimostrarlo è un report dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, pubblicato nel marzo del 2021.Tra il 2016 e il 2020, la Russia ha consegnato armi a 45 Stati, coprendo il 20% delle esportazioni internazionali complessive di armamenti. Il principale destinatario di materiale bellico russo è stata l’India (che ha importato il 23% del totale). A seguire si registrano la Cina (18%) e l’Algeria (15%). Più in generale, nell’arco di tempo considerato, l’export russo di armi è aumentato verso il Medio Oriente (64%) e verso l’Africa (23%). Un altro Paese africano che intrattiene saldi legami con la Russia in materia di fornitura d’armi è l’Egitto. In tutto questo, lo scorso ottobre, Al Jazeera riferì che Mosca aveva inviato quattro elicotteri, armi e munizioni al Mali: Stato su cui, nei mesi successivi, è guarda caso notevolmente aumentata l’influenza politica del Cremlino a discapito di Parigi. Infine, negli ultimi anni, la Russia ha inviato armi anche in Libia, per sostenere i mercenari del Wagner Group.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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