
Donald Trump (Joe Raedle/Getty Images)
Il «Washington Post» e altre testate hanno ammesso di aver riportato erroneamente il contenuto del colloquio con l'investigatrice capo delle elezioni, diffondendo notizie false sull'allora presidente Usa.
La grande stampa americana ha fatto marcia indietro. Alcune importanti testate hanno dovuto ritrattare la ricostruzione di una telefonata, avvenuta il 23 dicembre tra l'allora presidente americano, Donald Trump, e Frances Watson, l'investigatrice capo delle elezioni per conto del segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger. La situazione è aggrovigliata e, per comprenderla appieno, è necessario un passo indietro.
Lo Stato della Georgia è risultato particolarmente contestato alle ultime presidenziali: Joe Biden lo aveva conquistato per poche migliaia di voti, mentre Trump sosteneva che si fossero verificate delle irregolarità. In questo quadro, tra dicembre e gennaio, l'allora presidente ebbe alcune telefonate con i funzionari dello Stato, per convincerli della sua tesi. In particolare, sono due i colloqui più significativi, entrambi portati alla luce dal Washington Post: il primo è quello del 23 dicembre con la Watson, che fu rivelato il 9 gennaio; il secondo - a cui prese parte lo stesso Raffensperger - ebbe luogo il 2 gennaio e venne reso noto il giorno dopo. Ebbene sia il Washington Post che altre testate hanno ammesso di aver riportato erroneamente il contenuto del colloquio di dicembre, attribuendo a Trump cose che non aveva detto. In particolare, secondo la versione fasulla, l'allora presidente si sarebbe rivolto alla Watson, usando espressioni come «trova la frode» (il che suggeriva quasi un'esortazione alla creazione di prove false) o dicendole che sarebbe stata un «eroe nazionale» se avesse seguito le sue indicazioni. La ritrattazione è avvenuta dopo il ritrovamento di una registrazione della telefonata in una cartella cestino della stessa Watson.
La correzione del Post - che Trump ha detto di apprezzare, pur denunciando quella che definisce la «caccia alle streghe della Georgia» - recita come segue: «Due mesi dopo la pubblicazione di questo articolo, il segretario di Stato della Georgia ha pubblicato una registrazione audio della telefonata di dicembre del presidente Donald Trump con il principale investigatore elettorale dello Stato. La registrazione ha rivelato che il Post ha citato erroneamente i commenti di Trump, sulla base delle informazioni fornite da una fonte. Trump non ha detto all'investigatrice di “trovare la frode" né ha detto che sarebbe stata “un eroe nazionale" se lo avesse fatto. Invece, Trump ha esortato l'investigatrice a controllare le schede nella contea di Fulton, in Georgia, affermando che vi avrebbe trovato della “fraudolenza". Le disse anche che aveva “il lavoro più importante del Paese in questo momento"». Dello stesso tenore si è rivelata una correzione dell'Associated Press.
I critici di Trump avevano usato la conversazione - malamente riportata - del 23 dicembre per corroborare le loro accuse alla telefonata del 2 gennaio. In quest'ultimo colloquio l'allora presidente disse: «Voglio solo trovare 11.780 voti, che è uno in più di quelli che abbiamo. Perché abbiamo vinto lo Stato». Ritenendo (a torto o a ragione) di avere più voti di Biden, Trump sosteneva cioè che, per colmare il divario, bastasse reperire soltanto una piccola parte dei voti che - secondo lui - non erano stati correttamente conteggiati. Ora, è senza dubbio problematico il fatto che un presidente telefoni a dei funzionari su materie tanto delicate. Ma è altrettanto chiaro che parte consistente del «caso Georgia» si sia fondata sul sospetto che Trump potesse aver esortato quegli stessi funzionari a mentire o a fabbricare delle prove false. Sospetto in buona sostanza legato ai contenuti della telefonata del 23 dicembre.
Ricordiamo, per inciso, che il «caso Georgia» ha portato all'apertura di un'inchiesta penale da parte della procura distrettuale di Fulton County e che ha giocato un ruolo significativo nel secondo processo di impeachment contro Trump. E proprio sull'impeachment (conclusosi lo scorso 13 febbraio) si registra un elemento particolarmente grave. A pagina 10 del memorandum di accusa, presentato al Senato dai dem contro l'ex presidente, si faceva riferimento alla telefonata del 23 dicembre e si citava polemicamente l'affermazione «trova la frode»: affermazione che abbiamo adesso scoperto non essere mai stata pronunciata. Quella che si è rivelata successivamente una falsa notizia è stata dunque utilizzata per corroborare l'accusa all'interno di un processo di impeachment. D'altra parte, sostenere che gli avversari (politici e mediatici) dell'allora presidente repubblicano non avessero motivo per attaccarlo strumentalmente, visto che ormai si accingeva ad abbandonare la Casa Bianca, lascia francamente il tempo che trova: il secondo impeachment era infatti chiaramente volto a interdire Trump dai pubblici uffici, mentre l'indagine penale di Fulton mette inevitabilmente a rischio il suo futuro politico. Al di là delle opinioni che si possono avere in merito, il «caso Georgia» non è quindi ancora derubricabile a materia per gli storici.
Ma le stranezze proseguono. La fonte alla base della ricostruzione fasulla parrebbe essere il vicesegretario di Stato della Georgia, Jordan Fuchs. Il Post ha dichiarato di aver riportato il contenuto erroneo della telefonata «sulla base di un resoconto di Jordan Fuchs», mentre Nbc News ha riferito che «l'audio appena rilasciato contraddice il racconto della Fuchs di ciò che Trump ha detto durante la chiamata». Qualcuno ha detto che tra la registrazione e quanto detto dalla Fuchs la sostanza non muterebbe: tesi discutibile, visto che, in circostante così delicate, la sostanza risiede anche nella forma in cui ci si esprime. Senza poi dimenticare come la stampa abbia riportato dei virgolettati, non dei generici riassunti. Per quale ragione la vice di Raffensperger ha riferito ai giornali dei contenuti che non corrispondevano al vero? Ma soprattutto: perché una parte della stampa anglosassone si è affidata acriticamente a una simile fonte?
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Donald Trump (Spencer Platt/Getty Images)
Sinistra contro The Donald per l'audio in cui si rivolge al segretario di Stato della Georgia.
Si fa sempre più alta la tensione politica negli Stati Uniti. Domenica, il Washington Post ha pubblicato l'audio di una lunga conversazione telefonica, avvenuta il giorno prima tra Donald Trump e il segretario di Stato della Georgia, il repubblicano Brad Raffensperger. Argomento della discussione sono stati i presunti brogli elettorali che, secondo l'inquilino della Casa Bianca, avrebbero regalato il cosiddetto Peach State a Joe Biden per una manciata di voti. Nel corso del colloquio, il presidente americano ha in tal senso più volte preteso un riesame dei risultati elettorali, chiedendo all'interlocutore di «trovare» abbastanza voti per bloccare la vittoria in loco del suo avversario. «La gente della Georgia è arrabbiata, la gente del Paese è arrabbiata. E non c'è niente di sbagliato nel dire, sai, che hai ricalcolato», ha detto Trump a Raffensperger, aggiungendo: «Voglio solo trovare 11.780 voti, che è uno in più di quelli che abbiamo. Perché abbiamo vinto lo Stato».
Più in generale, Trump ha dichiarato di possedere un vantaggio molto più ampio di 11.780 voti, dettagliando inoltre le sue accuse di frode e irregolarità: il presidente ha -tra le altre cose - lamentato l'assenza di osservatori durante le operazioni di spoglio, criticato il sistema elettronico di voto Dominion e sostenuto che alcune schede sarebbero state distrutte. Durante la telefonata, il segretario di Stato ha respinto le tesi dell'inquilino della Casa Bianca, difendendo l'integrità del processo elettorale in Georgia. La pubblicazione della conversazione è arrivata nello stesso giorno in cui il presidente americano aveva reso noto su Twitter di aver parlato al telefono con Raffensperger, da lui definito «incapace di rispondere a domande come la truffa delle “schede elettorali sotto il tavolo", la distruzione delle schede elettorali, gli “elettori“ fuori dallo Stato, gli elettori morti e altro ancora». Ricordiamo che domani - quando il Congresso si riunirà per certificare la vittoria di Biden - i voti espressi il 14 dicembre dai grandi elettori della Georgia saranno probabilmente contestati da un centinaio di deputati e una dozzina di senatori repubblicani.
La diffusione della conversazione da parte del Washington Post ha frattanto scatenato un putiferio politico. Raffensperger ha dichiarato ieri che la procura distrettuale della contea di Fulton potrebbe avviare un'inchiesta sulla telefonata. I democratici, dal canto loro, sono andati all'attacco. La vicepresidente in pectore, Kamala Harris, ha parlato di «sfacciato abuso di potere», mentre due deputati dem, Ted Lieu e Kathleen Rice, hanno invocato un'indagine da parte dell'Fbi. Il senatore, Dick Durbin, ha invece accusato il presidente di aver condotto un «tentativo di intimidazione».
Non è la prima volta che il Washington Post pubblica materiale politicamente esplosivo a ridosso di un appuntamento elettorale importante. La questione della telefonata è infatti non a caso entrata a gamba tesa nella campagna per i due ballottaggi che si tengono oggi in Georgia (ballottaggi che -ricordiamolo- decideranno la prossima maggioranza in Senato). Uno dei due attuali candidati dem, Jon Ossoff, ha parlato di «attacco alla democrazia», esortando entrambi i repubblicani in corsa a prendere le distanze da Trump. Una richiesta seccamente respinta dal senatore repubblicano in cerca di riconferma, David Perdue. Costui si è detto «scioccato» del fatto che la telefonata sia stata registrata e consegnata ai media, aggiungendo: «Quello che ha detto il presidente è esattamente quello che ha detto negli ultimi mesi». Secondo i sondaggi pubblicati dal sito Five Thirty Eight, i candidati dem risulterebbero al momento in lieve vantaggio. Per mantenere il controllo del Senato, ai repubblicani basta una sola vittoria, mentre l'asinello ha necessità di entrambi i seggi. Nel frattempo sia Trump che Biden si sono recati ieri sul posto, per sostenere i rispettivi candidati nell'ultimissima fase di campagna elettorale.
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Joe Biden con Raphael Warnock e Jon Ossoff ad Atlanta, per la campagna elettorale in Georgia (Ansa)
Il destino del Senato americano passa dalla Georgia. È qui che, il prossimo 5 gennaio, si terranno i due ballottaggi che decideranno la maggioranza in seno alla camera alta. Nessun candidato è infatti riuscito a conseguire in loco una soglia superiore al 50% dei voti lo scorso 3 novembre: elemento che, secondo la legge del cosiddetto Peach State, impone un secondo turno.
Si tratta, come accennato, di uno scontro duplice. Da una parte, il senatore repubblicano David Perdue è arrivato alla scadenza naturale del suo mandato di sei anni ed è al momento in competizione con il democratico Jon Ossoff. Dall'altra parte, abbiamo un'elezione speciale, visto che l'attuale senatrice repubblicana Kelly Loeffler ha ottenuto il seggio l'anno scorso su nomina del governatore dello Stato, Brian Kemp, dopo le dimissioni rassegnate dal precedente senatore Johnny Isakson nel 2019. A sfidare la Loeffler è un pastore battista, il democratico Raphael Warnock. Secondo i sondaggi pubblicati dal sito FiveThirtyEight, si tratta di una competizione serratissima. Perdue deterrebbe al momento un vantaggio dello 0,8%, mentre la Loeffler e Warnock risulterebbero appaiati al 48,4%.
Tra l'altro, stavolta è anche difficile affidarsi troppo ai precedenti storici. L'ultimo democratico a rappresentare la Georgia in Senato è stato Zell Miller, che ha lasciato il suo incarico nel 2005. La tradizione degli ultimi quindici anni è dunque solidamente repubblicana, ma bisogna comunque tener presente il cambiamento che - alle elezioni novembrine - si è verificato sul fronte presidenziale. Per quanto d'un soffio, Joe Biden è infatti stato in grado di espugnare il Peach State, divenendo così il primo candidato democratico alla Casa Bianca a riuscire nell'impresa dal 1992 (dai tempi, cioè, di Bill Clinton). Ora, è pur vero che gli elettori americani adottino usualmente criteri diversi nel voto per la presidenza e in quello per il Senato: resta tuttavia il fatto che molto probabilmente la Georgia si stia trasformando da Stato repubblicano a Stato in bilico (soprattutto a causa dei cambiamenti demografici in corso nella vasta area suburbana di Atlanta). Un fattore, questo, che di per sé non favorisce evidentemente Perdue e la Loeffler.
Dall'altra parte, tuttavia, i democratici non possono neanche gioire troppo. Perché, numeri alla mano, la loro strada per raggiungere la maggioranza in Senato appare fortemente in salita. In primo luogo, non dimentichiamo che l'asinello abbia goduto, nell'ultima campagna elettorale, di cospicui finanziamenti e di forte sostegno mediatico: risorse preziose che avrebbero dovuto produrre un'onda blu che ciononostante non si è verificata. In secondo luogo, teniamo anche presente che, in Georgia, ai repubblicani basterà vincere un solo seggio per mantenere la maggioranza in Senato, laddove i dem necessitano invece di due vittorie. Se l'asinello espugnasse entrambi i seggi, la camera alta risulterebbe infatti spaccata esattamente a metà e i dem ne acquisirebbero il controllo grazie alla vicepresidentessa, Kamala Harris (ricordiamo infatti che è il vicepresidente a intervenire in caso di parità al Senato). Insomma, se Atene piange, Sparta non ride. La confusione resta tanta e non è chiaro come questa intricata situazione andrà a finire.
Non è innanzitutto chiaro quale sarà l'impatto del fattore Trump sui ballottaggi. Il presidente in carica sostiene infatti che si siano verificati dei brogli in Georgia e, anche per questo, si è finora rifiutato di riconoscere la vittoria di Biden. Le conseguenze alternative che questa linea può comportare sono due: o determinerà una forte mobilitazione degli elettori repubblicani che considerano il Senato come l'ultimo baluardo contro i democratici oppure vari settori dell'elefantino potrebbero rifiutarsi di votare, considerando il sistema elettorale corrotto. In secondo luogo, attenzione: perché, per quanto paradossale possa sembrare, non è affatto detto che Biden alla fine speri realmente in una maggioranza dem al Senato. Ricordiamo che, in base alla Costituzione, la camera alta si occupa di ratificare la nomina dei ministri. Il punto è che il presidente in pectore sta subendo da settimane le pressioni della sinistra del suo stesso partito, che pretende insistentemente dei dicasteri chiave: dicasteri che Biden non ha tuttavia assolutamente intenzione di concederle. Ecco: non disporre della maggioranza al Senato potrebbe garantire al presidente in pectore una sorta di alibi di fronte ai sostenitori di Bernie Sanders. Del resto, è abbastanza chiaro che Biden stia puntando a nominare una serie di profili non troppo lontani dall'establishment di Washington, nella speranza di ottenere qualche voto favorevole da parte dei repubblicani centristi. Di contro, se l'elefantino perdesse la maggioranza in Senato, Trump potrebbe beneficiarne politicamente: un simile scenario lo renderebbe infatti l'unica figura forte e riconoscibile nell'universo repubblicano, depotenziando al contempo quel Mitch McConnell che - riconoscendo pochi giorni fa la vittoria di Biden - ha già iniziato le manovre per sganciarsi dal presidente in carica. Insomma, una matassa aggrovigliata, che la Georgia potrebbe contribuire (almeno parzialmente) a districare.
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Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema respinge il ricorso di 19 Stati per il tycoon. Lo sfidante dem ostaggio della sinistra e dei guai del rampollo.
È la sconfitta legale più pesante quella che Donald Trump ha incassato venerdì. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti respinto la causa che il Texas (sostenuto da altri diciotto Stati) aveva intentato contro Michigan, Wisconsin, Pennsylvania e Georgia, accusandoli di aver modificato incostituzionalmente le proprie procedure elettorali. Il massimo organo giudiziario statunitense ha stabilito che il Lone Star State «non ha dimostrato un interesse riconoscibile dal punto di vista giuridico sul modo in cui un altro Stato conduce le proprie elezioni». L'ordinanza è stata accompagnata da un breve comunicato dei giudici Clarence Thomas e Samuel Alito: un comunicato, in cui i due hanno sostenuto che la Corte avrebbe dovuto accettare di affrontare il caso sotto la propria giurisdizione, pur chiarendo al contempo che «non avrebbero garantito un altro rimedio ingiuntivo».
Trump ha espresso tutto il proprio disappunto: «La Corte Suprema ci ha deluso. Niente saggezza, niente coraggio!», ha scritto su Twitter. Nel frattempo l'avvocato del presidente, Rudy Giuliani, ha dichiarato che la battaglia legale proseguirà. «Il caso non è stato respinto nel merito, ma nel metodo», ha dichiarato, promettendo nuovi ricorsi nei tribunali distrettuali. Ora, è senz'altro teoricamente possibile intentare ulteriori cause. Tuttavia, guardando alla realtà dei fatti, il principale scoglio per il team di Trump è stato finora proprio quello di conseguire risultati concreti nei tribunali inferiori. Ed è per questo che il presidente ha sempre puntato alla Corte Suprema: una Corte Suprema che, con la decisione sul Texas, ha fatto ormai tramontare lo scenario di un ribaltamento degli esiti elettorali per via legale.
Attenzione però: perché la sconfitta giudiziaria non corrisponde necessariamente a un indebolimento del presidente sul piano politico. Da settimane circola l'indiscrezione secondo cui l'attuale inquilino della Casa Bianca sarebbe pronto a ricandidarsi per il 2024. E, al momento, si tratta di una strada praticabile. In primis, va tenuto presente che – con le sue battaglie legali – Trump stia mirando a delegittimare la vittoria di Joe Biden, mettendo all'opera uno schema che i democratici hanno di fatto utilizzato contro di lui ai tempi del caso Russiagate. Secondo un recente sondaggio della Quinnipiac University, il 34% degli elettori americani ritiene che la vittoria di Biden non sia legittima (di questi, il 70% sono repubblicani e il 30% indipendenti). Numeri non certo irrilevanti, che potrebbero creare non pochi problemi al presidente entrante.
Un presidente entrante che, in secondo luogo, ha da gestire ulteriori grattacapi. Non solo deve guardarsi le spalle dalla (riottosa) sinistra del suo stesso partito. Ma non bisogna neppure dimenticare il fronte giudiziario: la procura federale del Delaware sta indagando su suo figlio, mentre – in ottobre – il ministro della Giustizia, Bill Barr, ha nominato John Durham procuratore speciale: quel Durham che sta conducendo una controinchiesta sul caso Russiagate e che – in questa nuova veste – disporrà degli stessi poteri di cui godette ai tempi Robert Mueller. Una volta insediato, Biden si troverà quindi preda di un dilemma: usare il Dipartimento di giustizia per bloccare tutto oppure evitare di intervenire. Se nel primo caso si esporrebbe all'accusa di abuso di potere, nel secondo dovrebbe guidare la propria amministrazione tra due pericolose mine vaganti.
In terzo luogo, sono gli stessi repubblicani che difficilmente potranno fare a meno di Trump. L'attuale presidente ha indubbiamente commesso degli errori (dal disinteresse per la costruzione di un consenso ideologico-culturale a una tardiva battaglia contro i big della Silicon Valley). Eppure, nonostante i limiti, ha permesso all'elefantino di allargare la propria base alle minoranze etniche e alla working class: risultato che, appena otto anni fa, sembrava inimmaginabile e che costituisce un patrimonio elettorale imprescindibile per un partito che voglia realmente tornare a conquistare la Casa Bianca.
La notizia della morte politica di Trump appare quindi fortemente esagerata. Perché il presidente – nel bene o nel male – rappresenta al momento l'unico volto riconoscibile in un'America sempre più preda del caos e di attori politici di scarsa fibra. Certo: non è semplice affrontare quattro anni di traversata nel deserto. Ma, date queste premesse, neppure impossibile.
Qualcuno magari storcerà il naso, attribuendo proprio a Trump la responsabilità della polarizzazione americana. Per carità, il presidente ci ha messo del suo nell'esacerbare lo scontro politico-istituzionale. Ma i democratici – in questi quattro anni – non sono stati da meno, cavalcando battaglie puramente strumentali: dalla bolla di sapone del Russiagate a un processo di impeachment privo di fondamento, passando per l'ostruzionismo partigiano alla conferma del giudice Brett Kavanaugh. Pertanto, prima di dire che la crisi istituzionale americana sia tutta colpa di Trump, pensiamoci bene.
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