2020-04-17
«Una casa per chi ha i genitori in ospedale»
Claudio Bossi è il responsabile di un centro milanese dedicato ai bambini vittime indirette del morbo: «Arrivano minori che, avendo abitato in famiglia fino a un attimo prima del ricovero, hanno buone probabilità di essere infetti. E noi li trattiamo come fossero positivi».«La prova di moralità di una società risiede in quello che essa fa per i suoi bambini», sosteneva Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano tedesco morto 75 anni fa nel campo di sterminio di Flossenbürg, in Germania, dopo essersi opposto strenuamente al regime nazista. Riflessione quanto mai attuale, resa ancor più cogente dall'impatto che l'emergenza Covid-19 sta avendo su ciascuna piega della nostra società. Sembra averne fatto tesoro la cooperativa sociale La cordata, onlus milanese che ha aperto, nel quartiere Barona, un centro dedicato ai bambini vittime indirette del coronavirus. Si chiama Zumbimbi il centro che, da pochi giorni, accoglie i minori privati di un adulto di riferimento in seguito al ricovero ospedaliero dei genitori. «Ospitiamo ragazzi dai 6 ai 14 anni, anche se in realtà stiamo estendendo l'iniziativa fino alla maggiore età», spiega Claudio Bossi, 54 anni, presidente dell'organizzazione meneghina che, dal 1990, opera sul territorio aiutando le persone in difficoltà attraverso servizi di accoglienza e accompagnamento sociale ed educativo.Anzitutto, perché la scelta di partire dai 6 anni?«È una decisione presa sulla base della capacità del minore di rendersi autonomo nell'igiene personale e nel nutrimento. Sotto i 6 anni, questa capacità è ridotta e per noi sarebbe troppo difficile prendercene cura».Come è nata l'idea di Zumbimbi?«La nostra cooperativa gestisce diversi residence sociali che ospitano studenti, lavoratori, turisti, individui con emergenza abitativa. All'inizio della pandemia, ci siamo trovati con quattro strutture semivuote: la maggior parte degli occupanti le aveva lasciate per tornare nei luoghi d'origine. In quei giorni, il Comune è stato allertato dal Tribunale per i minori riguardo all'eventualità di dover accogliere i figli di genitori ricoverati. Abbiamo quindi contattato l'assessore al welfare, Gabriele Rabaiotti, per offrire la nostra disponibilità, e ci siamo attivati con Emergency per capire se la struttura che avevamo in mente fosse adeguata».Ovvero?«In termini di sicurezza sanitaria. I minori che arrivano, avendo abitato coi genitori fino a un attimo prima del ricovero, hanno buone probabilità di essere infetti».Non sono sottoposti a tampone prima del loro arrivo?«Purtroppo, no. Conoscere in modo certo le condizioni di salute dei bambini ci alleggerirebbe molto il lavoro, ma non essendoci tamponi a sufficienza, la disposizione dell'Agenzia di tutela della salute è quella di trattarli come se fossero positivi, dunque contagiosi».In che modo vi siete organizzati, quindi?«Abbiamo allestito un piano Covid (essendo gli altri due ancora abitati), con 16 stanze, tre locali destinati alla sanificazione degli operatori in ingresso e uscita, e un piccolo magazzino con le lavatrici per la pulizia degli indumenti. Il piano è isolato e vi si accede attraverso le scale antincendio, gli ingressi principali sono riservati ai 35 inquilini tutt'ora presenti».Quali sono i protocolli di sicurezza adottati dal personale?«Ogni operatore si lava e sanifica completamente nei locali dedicati, dopodiché effettua la vestizione indossando gli abiti da lavoro che rimangono in struttura, degli zoccoli coperti da calzascarpe, due paia di guanti, una tuta, una cuffia e una maschera con la visiera».Praticamente, si trasforma in un marziano.«Già. Tanto che ne abbiamo approfittato, grazie ad alcuni amici disegnatori, per decorare gli interni con grafiche spaziali, ricreando un ambiente fantastico che sia di distrazione per i bambini».A proposito: sono tutti consapevoli di ciò che gli sta accadendo?«Sì, assolutamente. Sono molto più sensibili e furbi di noi adulti. Il punto è la capacità di ciascuno di elaborare l'esperienza, di verbalizzarla, di proteggersi trovando le misure per distanziarsene. Noi dobbiamo trattare i rispettivi traumi rassicurandoli e trasmettendo loro sicurezza. Non vi è alcun tipo di simulazione. Diversamente, perderemmo credibilità ai loro occhi».Quanti bambini ospitate al momento?«Per ora abbiamo quattro casi, tutti provenienti da famiglie diverse».C'è qualche sintomatico tra loro?«No, per fortuna».Quali situazioni li hanno portati da voi?«Sono figli di mamme ospedalizzate che erano sole in quanto separate».E nessuno di questi minori è stato preso in carico dai padri?«No. Questa è una cosa che mi ha colpito. Alcuni, magari, erano troppo lontani. E non c'era una rete parentale in grado di supplire. Tenga presente che se gli zii non hanno una casa abbastanza spaziosa da consentire al bambino la quarantena isolata, con una camera singola e un bagno separato, non possono ospitare. Per non parlare dei nonni».Come stanno reagendo al trauma?«Le reazioni sono diverse, dalla totale chiusura al fingere che non stia succedendo nulla, ai pianti e alla ricerca della mamma».Riuscite a metterli in contatto con le mamme?«Per ora sì, non essendoci situazioni di terapia intensiva. Alcuni si sono portati dietro un cellulare, altri non lo hanno e bisogna chiamare in reparto. Cerchiamo di garantire a tutti una comunicazione quotidiana».In quali attività sono coinvolti?«Oltre ai 24 operatori, in prevalenza educatori e psicologi, abbiamo 64 volontari che si alternano nell'assistenza didattica e nell'intrattenimento: aiuto nei compiti, lettura di fiabe e racconti, giocoleria…».Come fate a sostenervi economicamente?«C'è un accordo col Comune, che impiega una cifra in relazione all'inserimento di ogni bambino. Abbiamo ricevuto un sostegno molto importante dalla Fondazione di comunità Milano. Inoltre, è attivo un sistema di raccolta fondi rivolto a privati cittadini per la donazione di denaro e materiale utile. Le risorse pubbliche non bastano, abbiamo calcolato un costo di circa 80.000 euro al mese».Da quando il progetto ha preso forma, quante segnalazioni avete ricevuto?«Una decina. Alcune erano segnalazioni preventive che, per fortuna, non si sono concretizzate: c'è stato un ricollocamento nella rete parentale».Pensa che, col tempo, la richiesta potrebbe superare la vostra capacità di accogliere?«Finora la situazione è piuttosto tranquilla, ma abbiamo una parte del piano inutilizzata con 9 stanze disponibili. Qualora dovessimo arrivare al massimo della capienza, le apriremo. La speranza è che non ce ne sia bisogno, considerata anche la curva del virus».Quanto tempo rimarranno in struttura i ragazzi?«Il tempo minimo di permanenza è quello della quarantena, quindi 14 giorni. Dopodiché, mi auguro che ci diano i tamponi per la dimissione. Se saranno negativi, abbiamo già parlato con la cooperativa Comin di Milano per utilizzare le loro comunità alloggio».In questa situazione, qual è la parte più complessa per voi?«Una grande difficoltà è stata indubbiamente quella della gestione sanitaria, noi non siamo operatori del settore. In secondo luogo, un altro ostacolo da superare è stato quello del reperimento e della formazione del personale, essendo in gran parte impegnato in altre attività di assistenza».A livello umano, invece, qual è l'impatto?«Inizialmente c'era un po' di sbandamento. Il mondo, improvvisamente, era cambiato e noi dovevamo adeguarci. La rapidità con cui abbiamo saputo reagire, però, mi ha sorpreso. A cominciare dai tempi organizzativi: in 10 giorni era tutto pronto. Poi c'è la dimensione del coraggio e dell'orgoglio, della squadra. Del sentirsi utili. E i bambini ci danno una grande forza coi legami che si creano. Si comincia a vivere in una piccola comunità famigliare allargata».A modo vostro, siete angeli anche voi.«Noi lavoriamo in condizioni privilegiate. Negli ospedali, medici e infermieri vedono la gente soffrire, morire. Il carico di stress fisico ed emotivo che portano non è paragonabile al nostro. Gli angeli sono loro».
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.