True
2022-10-21
Un Biden azzoppato può mutare linea su Kiev
Joe Biden (Ansa)
Iniziano a mettersi veramente male le cose per il Partito democratico americano. A poco più di due settimane dalle elezioni di metà mandato del prossimo 8 novembre, i repubblicani continuano a crescere nei sondaggi. Dopo un periodo di seria difficoltà a cavallo tra agosto e settembre, l’elefantino ha avviato quella che sembra una vera e propria rimonta dall’inizio di ottobre: secondo la media sondaggistica di Real Clear Politics, al momento gode infatti di un vantaggio del 3%, mentre lo scorso 6 ottobre era avanti appena dello 0,4%.
Un trend indubbiamente positivo, anche perché innescatosi a ormai poche settimane dal voto. Per ora, lo scenario più probabile continua ad essere quello di una vittoria repubblicana alla Camera, con i dem che dovrebbero invece riuscire a mantenere il controllo del Senato. Non si può tuttavia escludere che, con questi numeri e questo trend, l’elefantino possa alla fine riuscire nel colpaccio, riprendendosi entrambi i rami del Congresso. Va da sé che, indipendentemente dal risultato finale, i repubblicani quasi certamente saranno in grado di aumentare il proprio peso parlamentare alle prossime elezioni di metà mandato. A questo proposito, è interessante domandarsi in che modo tale fattore influenzerà l’attuale politica statunitense relativa al dossier ucraino. Si tratta di una questione complessa. Cominciamo col dire che l’elettorato americano sta dando segnali confusi su questo tema. Secondo un sondaggio Ipsos di inizio ottobre, circa i tre quarti dei cittadini statunitensi si dicono favorevoli ad aiutare Kiev contro l’invasione russa. Nel contempo, tuttavia, il 58% dei rispondenti ha detto di essere preoccupato da un eventuale scontro nucleare tra Stati Uniti e Russia, mentre il 65% teme che rifornire l’Ucraina di armi a lunga gittata possa causare un’escalation. Tutto questo, mentre un sondaggio del Pew Research Center dello scorso settembre ha rilevato che, secondo un terzo degli elettori repubblicani, Washington starebbe fornendo troppi aiuti a Kiev.
Ora, non si può non tenere conto di questi sentimenti nel cercare di comprendere le varie posizioni che, sul sostegno all’Ucraina, sono emerse nell’elefantino. Lo stesso Donald Trump, quando due settimane fa ha invocato dei negoziati per mettere fine alla crisi e scongiurare un eventuale scenario nucleare, probabilmente avrà avuto un occhio rivolto a queste rilevazioni. Certo: il Partito repubblicano ospita una pattuglia di isolazionisti, tendenzialmente ostili agli aiuti a Kiev e che lamentano un indebito disinteresse per alcuni dossier di politica interna, giudicati più urgenti (a partire dal controllo della frontiera con il Messico). Questo gruppo tuttavia rappresenta una minoranza che difficilmente riuscirà a rivelarsi troppo incisiva dopo le elezioni di metà mandato.
In realtà, la maggior parte del partito si divide in due tronconi. Da una parte, ci sono coloro che, come il capogruppo al Senato Mitch McConnell, sostengono fermamente la linea degli aiuti e che, in alcuni casi, hanno anche accusato l’amministrazione Biden di eccessiva timidezza. Dall’altra parte, c’è chi, come il capogruppo alla Camera Kevin McCarthy, è, sì, favorevole ad aiutare Kiev, ma senza cambiali in bianco e, soprattutto, attraverso una spesa più mirata e oculata. «Penso che le persone rimarranno in recessione e non scriveranno un assegno in bianco all’Ucraina», ha dichiarato martedì McCarthy (che potrebbe diventare il prossimo Speaker).
Una posizione, questa, non poi così lontana da quella espressa, a inizio ottobre, dal presidente della Heritage Foundation, Kevin Roberts. «Heritage», ha scritto su National Review, «ha sostenuto e continua a sostenere un aiuto militare responsabile all’Ucraina. Ma la politica estera dovrebbe assicurare ciò che è meglio per i contribuenti americani e fornire risultati, non solo gettare soldi su un problema, senza una strategia, senza un piano e senza un obiettivo finale». Ricordiamo che Heritage è uno dei principali think tank conservatori statunitensi e che tiene da sempre una linea fortemente ostile a Vladimir Putin. Tra l’altro, secondo Politico, non solo i repubblicani ma anche svariati dem chiedono maggiore supervisione sull’invio di armi a Kiev, auspicando inoltre un più significativo coinvolgimento dei Paesi europei nella condivisione degli oneri.
Insomma, in caso di vittoria repubblicana, non assisteremo a uno stravolgimento della politica statunitense sull’Ucraina, ma ad alcuni aggiustamenti legati alle necessità di elaborare una strategia più chiara, ridurre i costi, supervisionare maggiormente l’invio di armi e coinvolgere di più il Vecchio continente. Un fattore, questo, a cui il nascente governo di Giorgia Meloni dovrà prestare la massima attenzione. La Polonia acquisirà infatti prevedibilmente un peso sempre maggiore: un’ottima notizia per Fratelli d’Italia, che gode di ottimi rapporti tanto con l’esecutivo di Varsavia quanto con i repubblicani statunitensi. Inoltre, alla Verità risulta che sarebbero in corso dei contatti tra il Ppe e alcune fondazioni conservatrici americane, con l’obiettivo di sondare il terreno per arrivare prima o poi a un’alleanza strutturale tra i popolari e il Partito dei conservatori e dei riformisti europei (di cui la Meloni è presidente). L’Italia, da questo punto di vista, potrebbe rivelarsi un interessante laboratorio politico. Il laboratorio di una linea conservatrice e atlantista che, mettendo finalmente all’angolo un establishment liberal a traino Pd, riesca a progettare una seria alternativa alla logora e stucchevole sudditanza nei confronti dell’asse franco-tedesco.
L’uranio per la svolta verde in Usa prodotto solo da aziende russe
Gli Usa si trovano di fronte a un grande paradosso e non sanno come uscire dall’impasse. C’è solo una società, infatti, che vende il carburante di cui hanno bisogno le aziende statunitensi per sviluppare una nuova generazione di piccole centrali nucleari, al fine di ridurre le emissioni di carbonio. Il problema è che tale società è russa. Al momento infatti solo Tenex, che fa parte della società russa di energia nucleare di proprietà statale Rosatom, vende Haleu, uranio a basso arricchimento. Ebbene sì: per darsi al green gli Usa dipendono da Mosca. Ecco perché il governo degli Stati Uniti sta cercando di utilizzare parte delle sue scorte di uranio destinate alle armi per aiutare ad alimentare i nuovi reattori avanzati, cruciali per raggiungere l’obiettivo di «zero emissioni». «La produzione di Haleu è una missione fondamentale e tutti gli sforzi per aumentarne la produzione sono in fase di valutazione», ha affermato un portavoce del dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. Ma senza una fonte affidabile dell’uranio a basso arricchimento di cui i reattori hanno bisogno, gli sviluppatori temono che non riceveranno ordini per i loro impianti. E, senza ordini, è improbabile che i potenziali produttori del carburante mettano in funzione le catene di approvvigionamento per sostituire l’uranio russo. Insomma, gli Usa si stanno accartocciando su sé stessi: né il governo, né le società come X-energy e TerraPower, che sviluppano i nuovi reattori avanzati, vogliono fare affidamento su Mosca ma al contempo non sanno come tirarsi fuori dall’imbarazzo. L’energia nucleare attualmente genera circa il 10% dell’elettricità mondiale e molti Paesi stanno esplorando nuovi progetti nucleari per avere nuove fonti energetiche e per ridurre le emissioni di gas serra. Per far fronte a progetti su larga scala dai grossi costi iniziali, però, diversi sviluppatori hanno proposto i cosiddetti «reattori modulari di piccole dimensioni»: nove su dieci di quelli finanziati da Washington sono progettati per utilizzare Haleu. Per questo, le aziende negli Stati Uniti e in Europa intendono produrre Haleu ma, anche negli scenari più ottimistici, ci vorranno almeno cinque anni. È la triste storia del cane che si morde la coda. Per cercare un’alternativa, il governo statunitense ha assegnato un contratto nel 2019 a Centrus, unica società al di fuori della Russia che ha una licenza per produrre Haleu. La produzione è stata però rinviata al 2023 «a causa dei ritardi nel reperire i contenitori di stoccaggio durante la pandemia globale». Insomma, un bel guaio che si somma al fatto che le sanzioni, ormai di ostacolo per aziende e privati, vengono sempre più spesso aggirate. I pubblici ministeri statunitensi hanno accusato cinque cittadini russi di elusione delle sanzioni nella spedizione di tecnologie militari acquistate da produttori Usa, alcune delle quali sono finite sul campo di battaglia in Ucraina. I componenti elettronici acquistati dai russi Yury Orekhov e Svetlana Kuzurgasheva includevano radar, satelliti, tecnologia militare. Per aggirare le sanzioni è stata «usata» una compagnia tedesca e, a quanto pare, la stessa società avrebbe fatto recapitare ad acquirenti russi anche petrolio venezuelano. Orekhov è stato arrestato in Germania. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha sanzionato poi Orekhov e due società che controlla, Nord-Deutsche Industrieanlagenbau GmbH e Opus Energy Trading LLC.
Continua a leggereRiduci
Le elezioni di medio termine si avvicinano e i democratici continuano a perdere consensi. Se i repubblicani faranno il pieno, la Casa Bianca potrebbe ammorbidire l’impegno bellicista sull’Ucraina. Un cambio di rotta che interessa anche Giorgia Meloni.L’uranio per la svolta verde in Usa prodotto solo da aziende russe. Impasse energetica in America: nuove centrali impossibili da realizzare senza Mosca. Lo speciale comprende due articoli.Iniziano a mettersi veramente male le cose per il Partito democratico americano. A poco più di due settimane dalle elezioni di metà mandato del prossimo 8 novembre, i repubblicani continuano a crescere nei sondaggi. Dopo un periodo di seria difficoltà a cavallo tra agosto e settembre, l’elefantino ha avviato quella che sembra una vera e propria rimonta dall’inizio di ottobre: secondo la media sondaggistica di Real Clear Politics, al momento gode infatti di un vantaggio del 3%, mentre lo scorso 6 ottobre era avanti appena dello 0,4%. Un trend indubbiamente positivo, anche perché innescatosi a ormai poche settimane dal voto. Per ora, lo scenario più probabile continua ad essere quello di una vittoria repubblicana alla Camera, con i dem che dovrebbero invece riuscire a mantenere il controllo del Senato. Non si può tuttavia escludere che, con questi numeri e questo trend, l’elefantino possa alla fine riuscire nel colpaccio, riprendendosi entrambi i rami del Congresso. Va da sé che, indipendentemente dal risultato finale, i repubblicani quasi certamente saranno in grado di aumentare il proprio peso parlamentare alle prossime elezioni di metà mandato. A questo proposito, è interessante domandarsi in che modo tale fattore influenzerà l’attuale politica statunitense relativa al dossier ucraino. Si tratta di una questione complessa. Cominciamo col dire che l’elettorato americano sta dando segnali confusi su questo tema. Secondo un sondaggio Ipsos di inizio ottobre, circa i tre quarti dei cittadini statunitensi si dicono favorevoli ad aiutare Kiev contro l’invasione russa. Nel contempo, tuttavia, il 58% dei rispondenti ha detto di essere preoccupato da un eventuale scontro nucleare tra Stati Uniti e Russia, mentre il 65% teme che rifornire l’Ucraina di armi a lunga gittata possa causare un’escalation. Tutto questo, mentre un sondaggio del Pew Research Center dello scorso settembre ha rilevato che, secondo un terzo degli elettori repubblicani, Washington starebbe fornendo troppi aiuti a Kiev. Ora, non si può non tenere conto di questi sentimenti nel cercare di comprendere le varie posizioni che, sul sostegno all’Ucraina, sono emerse nell’elefantino. Lo stesso Donald Trump, quando due settimane fa ha invocato dei negoziati per mettere fine alla crisi e scongiurare un eventuale scenario nucleare, probabilmente avrà avuto un occhio rivolto a queste rilevazioni. Certo: il Partito repubblicano ospita una pattuglia di isolazionisti, tendenzialmente ostili agli aiuti a Kiev e che lamentano un indebito disinteresse per alcuni dossier di politica interna, giudicati più urgenti (a partire dal controllo della frontiera con il Messico). Questo gruppo tuttavia rappresenta una minoranza che difficilmente riuscirà a rivelarsi troppo incisiva dopo le elezioni di metà mandato. In realtà, la maggior parte del partito si divide in due tronconi. Da una parte, ci sono coloro che, come il capogruppo al Senato Mitch McConnell, sostengono fermamente la linea degli aiuti e che, in alcuni casi, hanno anche accusato l’amministrazione Biden di eccessiva timidezza. Dall’altra parte, c’è chi, come il capogruppo alla Camera Kevin McCarthy, è, sì, favorevole ad aiutare Kiev, ma senza cambiali in bianco e, soprattutto, attraverso una spesa più mirata e oculata. «Penso che le persone rimarranno in recessione e non scriveranno un assegno in bianco all’Ucraina», ha dichiarato martedì McCarthy (che potrebbe diventare il prossimo Speaker). Una posizione, questa, non poi così lontana da quella espressa, a inizio ottobre, dal presidente della Heritage Foundation, Kevin Roberts. «Heritage», ha scritto su National Review, «ha sostenuto e continua a sostenere un aiuto militare responsabile all’Ucraina. Ma la politica estera dovrebbe assicurare ciò che è meglio per i contribuenti americani e fornire risultati, non solo gettare soldi su un problema, senza una strategia, senza un piano e senza un obiettivo finale». Ricordiamo che Heritage è uno dei principali think tank conservatori statunitensi e che tiene da sempre una linea fortemente ostile a Vladimir Putin. Tra l’altro, secondo Politico, non solo i repubblicani ma anche svariati dem chiedono maggiore supervisione sull’invio di armi a Kiev, auspicando inoltre un più significativo coinvolgimento dei Paesi europei nella condivisione degli oneri. Insomma, in caso di vittoria repubblicana, non assisteremo a uno stravolgimento della politica statunitense sull’Ucraina, ma ad alcuni aggiustamenti legati alle necessità di elaborare una strategia più chiara, ridurre i costi, supervisionare maggiormente l’invio di armi e coinvolgere di più il Vecchio continente. Un fattore, questo, a cui il nascente governo di Giorgia Meloni dovrà prestare la massima attenzione. La Polonia acquisirà infatti prevedibilmente un peso sempre maggiore: un’ottima notizia per Fratelli d’Italia, che gode di ottimi rapporti tanto con l’esecutivo di Varsavia quanto con i repubblicani statunitensi. Inoltre, alla Verità risulta che sarebbero in corso dei contatti tra il Ppe e alcune fondazioni conservatrici americane, con l’obiettivo di sondare il terreno per arrivare prima o poi a un’alleanza strutturale tra i popolari e il Partito dei conservatori e dei riformisti europei (di cui la Meloni è presidente). L’Italia, da questo punto di vista, potrebbe rivelarsi un interessante laboratorio politico. Il laboratorio di una linea conservatrice e atlantista che, mettendo finalmente all’angolo un establishment liberal a traino Pd, riesca a progettare una seria alternativa alla logora e stucchevole sudditanza nei confronti dell’asse franco-tedesco. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/un-biden-azzoppato-puo-mutare-linea-su-kiev-2658482551.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="luranio-per-la-svolta-verde-in-usa-prodotto-solo-da-aziende-russe" data-post-id="2658482551" data-published-at="1666293592" data-use-pagination="False"> L’uranio per la svolta verde in Usa prodotto solo da aziende russe Gli Usa si trovano di fronte a un grande paradosso e non sanno come uscire dall’impasse. C’è solo una società, infatti, che vende il carburante di cui hanno bisogno le aziende statunitensi per sviluppare una nuova generazione di piccole centrali nucleari, al fine di ridurre le emissioni di carbonio. Il problema è che tale società è russa. Al momento infatti solo Tenex, che fa parte della società russa di energia nucleare di proprietà statale Rosatom, vende Haleu, uranio a basso arricchimento. Ebbene sì: per darsi al green gli Usa dipendono da Mosca. Ecco perché il governo degli Stati Uniti sta cercando di utilizzare parte delle sue scorte di uranio destinate alle armi per aiutare ad alimentare i nuovi reattori avanzati, cruciali per raggiungere l’obiettivo di «zero emissioni». «La produzione di Haleu è una missione fondamentale e tutti gli sforzi per aumentarne la produzione sono in fase di valutazione», ha affermato un portavoce del dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. Ma senza una fonte affidabile dell’uranio a basso arricchimento di cui i reattori hanno bisogno, gli sviluppatori temono che non riceveranno ordini per i loro impianti. E, senza ordini, è improbabile che i potenziali produttori del carburante mettano in funzione le catene di approvvigionamento per sostituire l’uranio russo. Insomma, gli Usa si stanno accartocciando su sé stessi: né il governo, né le società come X-energy e TerraPower, che sviluppano i nuovi reattori avanzati, vogliono fare affidamento su Mosca ma al contempo non sanno come tirarsi fuori dall’imbarazzo. L’energia nucleare attualmente genera circa il 10% dell’elettricità mondiale e molti Paesi stanno esplorando nuovi progetti nucleari per avere nuove fonti energetiche e per ridurre le emissioni di gas serra. Per far fronte a progetti su larga scala dai grossi costi iniziali, però, diversi sviluppatori hanno proposto i cosiddetti «reattori modulari di piccole dimensioni»: nove su dieci di quelli finanziati da Washington sono progettati per utilizzare Haleu. Per questo, le aziende negli Stati Uniti e in Europa intendono produrre Haleu ma, anche negli scenari più ottimistici, ci vorranno almeno cinque anni. È la triste storia del cane che si morde la coda. Per cercare un’alternativa, il governo statunitense ha assegnato un contratto nel 2019 a Centrus, unica società al di fuori della Russia che ha una licenza per produrre Haleu. La produzione è stata però rinviata al 2023 «a causa dei ritardi nel reperire i contenitori di stoccaggio durante la pandemia globale». Insomma, un bel guaio che si somma al fatto che le sanzioni, ormai di ostacolo per aziende e privati, vengono sempre più spesso aggirate. I pubblici ministeri statunitensi hanno accusato cinque cittadini russi di elusione delle sanzioni nella spedizione di tecnologie militari acquistate da produttori Usa, alcune delle quali sono finite sul campo di battaglia in Ucraina. I componenti elettronici acquistati dai russi Yury Orekhov e Svetlana Kuzurgasheva includevano radar, satelliti, tecnologia militare. Per aggirare le sanzioni è stata «usata» una compagnia tedesca e, a quanto pare, la stessa società avrebbe fatto recapitare ad acquirenti russi anche petrolio venezuelano. Orekhov è stato arrestato in Germania. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha sanzionato poi Orekhov e due società che controlla, Nord-Deutsche Industrieanlagenbau GmbH e Opus Energy Trading LLC.
iStock
Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
Continua a leggereRiduci
Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
Continua a leggereRiduci