2023-12-14
        Uccise suo papà in difesa della madre. Giovane condannato a sei anni e due mesi
    
 
Alex Cotoia diede 34 coltellate al genitore violento. Dovrà anche pagare 30.000 euro di indennizzo allo zio. Come il gioielliere di Grinzane.«Non è un assassino, non è un assassino». La madre di Alex Pompa - anzi, Alex Cotoia, perché ha preso il cognome della mamma - singhiozza fuori dal Palazzo di Giustizia di Torino, dove suo figlio, ieri, è stato condannato in Appello a sei anni e due mesi di carcere. Il 30 aprile 2020, a Collegno, l’allora diciottenne uccise con 34 fendenti, inflitti con sei diversi coltelli, il padre Giuseppe, al culmine dell’ennesima lite familiare. Alex temeva che sarebbe arrivato ad assassinare la moglie. E che avrebbe ammazzato pure lui, poiché provava a proteggerla. Il ragazzo, ai magistrati, ha sempre detto di non ricordare nulla dal momento in cui aveva impugnato la lama a quello in cui, chiamati i carabinieri, aveva confessato l’omicidio. In primo grado, gli era stata riconosciuta la legittima difesa, anche grazie alle dichiarazioni della madre e del fratello. Che invece i giudici d’Appello hanno rinviato alla Procura, affinché le rivaluti: non si fidano più. Già a maggio avevano anticipato l’intenzione di decretare una pena per Alex. Troppe, quelle 34 coltellate, perché si potesse invocare la scriminante.Originariamente, per lo studente erano stati chiesti 14 anni di reclusione. Ma a tutti erano parso chiaro che quello di Cotoia non era un delitto a sangue freddo, per un banale litigio, per soldi o per droga. Ed è a questo punto che fa capolino la prima anomalia di questa tragedia: la norma del Codice rosso - l’insieme dei provvedimenti in favore delle donne che subiscono violenza - che proibiva di riconoscere le attenuanti, in presenza di un legame di parentela. La disposizione dell’articolo 577 del Codice di procedura penale era stata introdotta, appunto, avendo in mente i casi in cui un coniuge assassina la consorte. Ma come spesso accade quando si legifera sulla scorta di un’emergenza - vera o supposta - e delle emozioni, nessuno aveva riflettuto sulla possibilità che si verificassero episodi tipo quello del Torinese. Per sbrogliare la matassa è servito l’intervento della Consulta. Alla fine, all’universitario sono state accordate tre attenuanti: quelle generiche, la seminfermità e la provocazione. Un po’ come al gioielliere Mario Roggero, altro piemontese, che si è beccato 17 anni per aver inseguito fuori dal negozio e fatto fuori due rapinatori, a colpi di 38 special. Pure a lui hanno dato uno sconto. Al netto di una evidente differenza di approccio culturale.Con il giovane di Collegno, coinvolto in una storiaccia di abusi da parte di un maschio violento, le toghe hanno fatto di tutto perché fosse comminata almeno la condanna più mite. Con il commerciante di Grinzane Cavour, il procuratore capo ha addirittura rivendicato il carattere esemplare della pena: si è trattato di una «sentenza monito», in un Paese che, anziché i delinquenti, ammonisce i bravi cittadini. In entrambe le situazioni, i protagonisti hanno agito in uno stato che la legge definisce di «grave turbamento». Certo, Roggero ha rincorso i suoi aggressori nel parcheggio, ne ha preso a calci uno mentre era a terra, ha aperto il fuoco nonostante i banditi tentassero di darsela a gambe. Cotoia aveva appena sentito il papà minacciare: «Vi ammazzo, venite sotto, vi faccio a pezzettini». Nondimeno, la Corte ha accolto solo parzialmente la sua versione dei fatti. Ha considerato «abnorme» la reazione nei confronti del genitore, ha riscontrato un «evidente tentativo di sfuggire alle domande», ha reputato «reticenti e scarsamente credibili» i testimoni e «incongruenti» i loro resoconti. «Alex deve essere assolto perché ci ha salvato la vita», ha invece sospirato suo fratello Loris. «Se vogliamo che qualcosa cambi, se vogliamo evitare che le donne continuino a morire e che non ci siano più casi come quello di Giulia (Cecchettin, ndr), la sentenza non può essere questa». «Incomprensibile» e «difficile da accettare» l’ha definita l’avvocato difensore, Claudio Strata, sorpreso dalla scelta di spedire in Procura le dichiarazioni rese in sostegno del suo assistito. Veniamo così al secondo elemento stridente della vicenda: la provvisionale. Dal momento che lo zio del reo si è costituito parte civile, il magistrato ha ordinato che gli sia versato un risarcimento di 30.000 euro. Di nuovo, il copione del caso Roggero; solo che il gioielliere dovrà sborsarne 480.000. Checché se ne pensi - per lui e per Cotoia, date le normative vigenti, scampare alla pena sarebbe stato arduo - continua a suscitare disagio l’idea che il giudice penale decida un indennizzo per personaggi discutibili, a prescindere da un tabellario e lasciando impregiudicata la possibilità che siano chiesti altri soldi in sede civile. Anche questo aspetto del Codice di procedura merita una riflessione. La merita, infine, il tema della legittima difesa. Spiegavamo che le leggi non si cambiano per inseguire la cronaca nera. Accantoniamo, pertanto, ciò che è successo a Roggero e Cotoia. Ma è forte il sospetto che la disciplina italiana - pur di impedire che le persone si facciano giustizia da sé - lasci alle toghe un margine di discrezionalità esagerato. In quelle maglie, data la delicatezza dell’argomento, possono infilarsi pregiudizi politici, mentre il peso da attribuire al turbamento dei presunti colpevoli dipende esclusivamente dalla sensibilità dei singoli magistrati. Come intervenire? Un’ipotesi consisterebbe nell’introdurre il principio, molto americano, del no duty to retreat («nessun dovere di ritirarsi»). In sostanza, si sposterebbe l’accento dalle variabili psicologiche alla legittimità dei comportamenti: se ho titolo a stare in luogo, dinanzi a un attacco a me o ai miei cari, sono autorizzato a impiegare mezzi mortali. Valgono i miei diritti, prima della dinamica dei fatti. Magari, nessuna norma arriverebbe a schermare un gioielliere che corre dietro ai rapinatori, o un figlio che agguanta sei coltelli e colpisce il papà 34 volte. Ma non è gente del genere che vorremmo vedere dietro le sbarre. In carcere devono starci i criminali, non gli onesti. I carnefici, non le vittime.
        Nel riquadro, Howard Thomas Brady (IStock)
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